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No uterus, no opinion.

L'unica cosa positiva dell'essere stata messa incinta da un medico, ancorché ex fidanzato, è il poter provare, per la prima volta in vita mia, il piacere della raccomandazione in ospedale. Luke è riuscito a trovarmi un posto dalla ginecologa migliore del King's College, la dottoressa Wickham. Lo so, non è molto etico, ma non me ne frega un accidente.

Nemmeno una settimana dopo la grande decisione, mi reco alla mia prima ecografia. O meglio, forse accadrà, non ne sono così sicura, considerato il ritardo mostruoso in cui versiamo io e Lola. Intendiamoci, io non sono una persona ritardataria, non nel vero senso del termine, almeno. Diciamo che me la prendo comoda. No, d'accordo, sono una ritardataria cronica, oggi più che mai, se non ci muoviamo me la sogno l'ecografia, dovrò prendere un altro appuntamento, un altro permesso al lavoro e avremmo buttato nel cesso venticinque sterline di trasporto.

Non è colpa mia: non lo faccio apposta a fare tardi, sono gli eventi che mi fregano sempre. Dopo pranzo mi sono messa a guardare per l'ennesima volta Friends e mi sono addormentata sul divano. Lola è rientrata e mi ha svegliata con un urlo, e mi sono dovuta preparare in cinque minuti. Mettiamoci poi l'Uber che non arrivava, il traffico, i semafori bloccati sul rosso. Insomma, è parecchio tardi e questo maledetto ospedale sembra un labirinto. È un centro universitario, con numerose entrate, quasi una piccola città. Mi ricorda il Bambin Gesù di Roma. Da piccola ci sono andata molte volte, per alcuni problemi di salute di Alex. Il reparto di ginecologia si trova a Denmark Hill ed è immenso. Il soffitto dell'atrio, bianchissimo come il resto, è così alto che potrebbe benissimo sfrecciare un aereo e nessuno farebbe una piega. Mi dirigo all'accettazione, dove una serie di funzionari e funzionarie tutti uguali tra loro lavorano in maniera frenetica, gli occhi fissi sui propri computer.

«Scusi, il reparto di ginecologia?»

Una donna distoglie l'attenzione dai suoi affari e lo posa su di me. I suoi capelli biondi sono così sfibrati che sembrano non vedere le mani di un parrucchiere dal novantasette. Se mai dovessi ridurmi in questo stato di sciatteria, spero che Lola vada a comprare una pistola e mi spari in testa.

«Undicesimo piano.» Mi guarda come se mi stesse facendo un favore. Insomma, non è questo il suo lavoro?

«C'è l'ascensore, vero?»

Mica devo fare tre piani di scale a piedi? Possono sembrare pochi, ma io sono una persona pigra. Dopo una rampa di scale a piedi mi viene il fiatone, figuriamoci dopo tre. Non faccio sport da forse dieci anni, se escludiamo quella volta in cui Marianne, una mia ex collega, mi ha convinto ad andare a fare jogging con lei. Alle sette di mattina. A novembre. Inutile dire che il tentativo è stato stroncato sul nascere, con Marianne che si è fatta mezza Londra correndo e io che mi sono rintanata in un bar a mangiare cappuccino e cornetto. Il barista era pure carino, se non ricordo male.

Lo sguardo che la donna mi rivolge vale più di mille parole. Non risponde, si dimentica di me e torna al suo lavoro. Ho già detto che odio gli inglesi? Sto per ribattere nel mio tipico modo molto italiano che mi farebbe schifare da tutti i presenti, quando Lola mi tira per un braccio e mi indica l'enorme lift nel corridoio a destra.

Sto zitta e la seguo, ma solo perché sono in ritardo. Era solo una domanda, la mia, non c'è bisogno di scaldarsi troppo, non le ho mica chiesto di portarmi in braccio fino all'undicesimo piano. Cosa che, anche se faccio un po' fatica ad ammetterlo, non è che sia così semplice, dato che potrei – ipoteticamente, niente di sicuro, ancora non mi sono pesata – aver già messo su un paio di chili. Me li sento proprio sui fianchi, i jeans mi stringono e la cosa non mi va giù, nonostante sappia che è normale mettere su peso quando si è in stato interessante.

Insomma, già sono ingrassata. Ho una fame terribile, non riesco a smettere di mangiare qualsiasi cosa sia commestibile e contenga mille calorie, per non parlare del fatto che sto maturando una malsana propensione per il pollo fritto. Philip mi ha già fatto mille raccomandazioni riguardo il regime alimentare che dovrei seguire, ma si sa, lui è sempre così esagerato. Di certo eviterò il sushi e l'alcol, ma non capisco cosa possa farmi un po' di pollo fritto o qualche patatina fritta. Ok, qualche tonnellata di patatine fritte. Ma poi, in fondo, durante la gravidanza non si deve mangiare per due? Nemmeno quando sono incinta posso mangiare quello che voglio? Mi sembra di sentire la voce di Philip che urla: NO.

A proposito, dove diavolo è finito?

«Starà arrivando», mormora Lola, lo sguardo fisso sul suo IPhone. Aveva mille cose da fare, oggi pomeriggio, e ha disdetto tutto per accompagnarmi alla mia prima ecografia, non se la sarebbe persa per nulla al mondo. Io ho chiesto il pomeriggio libero alla Lady Boss per motivi di salute e penso mi stia ancora imprecando dietro. Sarà bellissimo dirle che sono incinta. Sono aperte le scommesse su quanti minuti impiegherà a licenziarmi.

L'ascensore ci lascia all'undicesimo piano. Siamo arrivate in ritardo, ma grazie al cielo ancora non tocca a me. Allora, chiediamoci tutti insieme: dove si trova Philip Turner?

«Scusi, ha visto il Dottor Turner da queste parti?»

Ooggi mi farò odiare da tutti i dipendenti di questo maledetto ospedale, ma non me ne importa un fico secco, qualcuno deve dirmi dove si trova Philip o altrimenti faccio una strage. L'infermiera interpellata mi guarda.

«Ma chi, il chirurgo?» È molto più giovane dell'altra e con i capelli forse troppo curati, diamine, come fa a farsi quei ricci così perfetti?

«Sì, proprio lui, avevamo un appuntamento mezz'ora fa, proprio qui.»

La donna mi fissa per qualche secondo. Forse si sta domandando perché il Dottor Turner aveva un appuntamento con non-si-sa-chi proprio qui su a Ginecologia. Me lo starei chiedendo anche io.

«Un attimo che controllo.»

Ci va davvero a controllare. Si infila dentro una stanzetta minuscola che credo sia quella degli infermieri. Chissà che combinano, là dentro, secondo me si divertono un sacco. Io organizzerei delle feste dove i medici non sono invitati, si sa che scorre un odio tremendo tra i dottori e gli infermieri, del tutto giustificato, a mio parere O magari si amano alla follia e fanno sesso in continuazione come in Grey's Anatomy, senza pudore. Che stronzate che sto pensando. Incredibile come viaggia il mio cervello quando sono nervosa.

Perché sì, sono nervosa. A differenza mia, Philip è sempre puntuale. Non fa mai e dico mai un minuto di ritardo. Durante i tempi in cui stavamo insieme lo facevo aspettare sempre delle ore, per cui già me lo stavo immaginando dentro lo studio della ginecologa ad attendermi con quello sguardo indispettito che conosco fin troppo bene. Al contrario, non si vede, non c'è alcuna traccia di lui. Per un lungo e infinito secondo mi viene il terribile dubbio che si sia dimenticato della prima ecografia di suo figlio. Finché l'infermiera non esce dallo stanzino e prende di nuovo la parola.

«Ho telefonato al Pronto Soccorso. Il Dottor Turner purtroppo è rimasto bloccato in sala operatoria. C'è stato un incidente e due persone sono rimaste ferite.»

Oh. Quindi non se n'è dimenticato, è rimasto al Pronto Soccorso, a salvare delle vite. La cosa dovrebbe sollevarmi il morale ma, maledetta me, non succede. Lo so, sono una grandissima egoista per il solo fatto di pensarlo, ma non posso farne a meno: ci sarà sempre qualcos'altro. Tre anni fa c'era qualcos'altro prima di me, ora prima di nostro figlio. Sempre.

«Mia, vieni, tocca a te!»

Mi scuoto alla voce di Lola. L'infermiera mi guarda con un fare materno che cozza un po' con la sua giovane età. Sorrido. Subito dopo realizzo che mi sto sforzando.

«Grazie.» La mia voce è diventata un sussurro. «Mi scusi, la ginecologa mi attende.»

«Oh. Mi scusi lei, non avevo capito...»

Lo sguardo pieno di commiserazione che mi rivolge mi innervosisce. Starà pensando che sono una povera sfigata che stava aspettando che suo marito si liberasse dalla mole di lavoro per venire ad assistere a una semplice e banale ecografia. Povera illusa. Come lo sono io, anche se Philip è tutto tranne che mio marito.

«Arrivederci.»

Le volto le spalle e torno da Lola.

«Philip non ce la fa», la informo. Cerco di non mostrare troppo la mia delusione, ma non so se ci riesco. In ogni caso, delusione di cosa? Sono davvero così stupida da avere delle aspettative? Philip sta lavorando, è giusto che rimanga al Pronto Soccorso a fare quello che sa fare meglio, il medico. Dopotutto, questa è solo un'ecografia. Ce ne saranno delle altre, non importa.

La ginecologa si chiama Michelle Wickham. Lo zio Luke dice che non potrei essere in mani migliori e che io e il mio futuro pargolo siamo dei privilegiati – io direi raccomandati, ma va be'– a poter essere assistiti da lei, considerata la lista d'attesa di mesi che ha. Luke è molto elettrizzato dall'idea di diventare zio, come Lola, d'altronde. In realtà mi spaventano un po'. La stanno prendendo molto sul serio, quasi più di me e Philip. È inquietante.

La dottoressa Wickham è una bella donna sulla quarantina, con i capelli scuri lunghi fino alle spalle, dei profondi occhi castani, un sorriso dolce e rassicurante. Mi fa una buona impressione e, cosa che apprezzo moltissimo, non mi chiede dove sia il padre del bambino. Oddio, dal modo in cui ci guarda penso che creda che io e Lola siamo una coppia gay. Bene. Grazie, Philip, oltre a farmi fare la figura della sfigata con l'infermiera, hai fatto credere alla mia ginecologa che sono lesbica. Non che ci sia niente di male, anzi, però avrei preferito che lui fosse qui come tutti i padri normali. D'accordo, la smetto. Iniziamo questa ecografia.

«Prego, Mia, si accomodi pure sul lettino.»

Sono parecchio agitata, più di quanto voglia ammettere. Finalmente, tutto sarà reale. Non sarà più solo uno stupido test di gravidanza, vedrò il mio bambino in carne e ossa. O meglio, in bianco e nero e sfocato, ma sono dettagli.

«Andrà tutto bene, non fare l'ansiosa come al solito.» Lola mentre mi stringe la mano e mi sorride, i denti bianchi che si intravedono tra le labbra rosee. Il peso sul mio stomaco diventa più leggero. Sono così contenta che sia venuta con me. Ne avevo davvero bisogno.

Mi accorgo che la dottoressa ci fissa con la coda dell'occhio mentre prende il gel da mettere sulla pancia, il sorriso ancora sul volto. È ufficiale, pensa che siamo una coppia. Forse dovrei smentirla. No, meglio di no, almeno così non pensa che sia sola come un cane, ma che abbia una persona vicino che mi vuole bene. In realtà, in fin dei conti è così: è Lola quella che mi starà accanto nei prossimi sette mesi, sarà lei a sopportare le mie nausee, le mie crisi, le mie paturnie, ad accompagnarmi a fare shopping prenatale e a tutte le visite. Lo so, è inutile girarci intorno e, forse, è giusto così.

«Sentirà un po' di freddo, ma stia tranquilla, è solo il gel.»

Cavolo se è freddo questo coso! Ho una soglia del dolore che è pari a zero, qualsiasi cosa mi dà fastidio, pure questo maledetto gel. Tuttavia, sono brava a non farmi scappare alcun lamento. Non voglio fare una brutta impressione, già so che quando mi toccherà partorire urlerò così tanto che perfino Papa Francesco sentirà le mie grida e magari, pensando che sia in pericolo, si metterà a pregare per me nella speranza di alleviare le mie sofferenze.

«Oh, eccolo qui, questo è il vostro bambin...»

«Sono in ritardo?»

Una voce roca interrompe la frase della dottoressa, che con l'aggettivo vostro stava cercando di dimostrare di essere gay-friendly. Philip entra nella stanza, l'aria sbattuta, i capelli arruffati, il sudore sulla fronte e... Sì, sono macchie di sangue sul camice, quelle. Distolgo lo sguardo, non mi va di vomitare nello studio della dottoressa, già ho la nausea. Quest'ultima, dal canto suo, fissa l'ultimo arrivato con la bocca spalancata.

«Dottor Turner! Che cosa ci fa qui?»

No, non ha capito proprio niente, povera dottoressa Wickham. Philip alza un sopracciglio.

«Sono il padre», la informa. «Del bambino.»

Come se potesse pensare che fosse mio padre. Mi ha avuto a tre anni e mezzo?

«Oh!» Sul suo volto giovanile si forma un'espressione imbarazzata. «Non ne avevo idea!»

Sì, caro il mio Philip, la dottoressa pensava che io e Lola ci fossimo date alla fecondazione assistita e stessimo coronando il nostro sogno d'amore con un figlio. La mia migliore amica, nel frattempo, sta facendo di tutto per non scoppiare a ridere.

«Sì, è il padre del bambino.» Mi sembra di essere in una gabbia di pazzi. «Possiamo fare questa benedetta ecografia?»

La ginecologa si riprende dal momento di imbarazzo e torna a far scorrere la sonda sul mio ventre. Philip si avvicina al lettino e si mette al posto di Lola, che si fa più in là.

«Scusa il ritardo, ho cercato di liberarmi il prima possibile.»

D'accordo, sono una stupida sentimentale, ma queste scuse sussurrate mi fanno un piacere immenso. Philip non è mai stato granché a chiedere scusa, gli è sempre riuscito molto difficile. Stavolta, invece, mi chiede scusa nel modo più naturale del mondo. Lo apprezzo molto. Mi volto e gli sorrido.

«Tranquillo, l'importante è che tu sia arrivato in tempo.»

Ricambia il mio sorriso, senza esagerare troppo – non posso pretendere chissà cosa, intendiamoci, è pur sempre il solito Turner – con il velo di timidezza che lo contraddistingue. Non so se vuole dire qualcos'altro, perché la dottoressa prende la parola.

«Come dicevo prima, ecco qui il vostro bambino. Sembra essere in perfetta salute.»

Per la prima volta da quando tutta questa storia è iniziata, mi sembra tutto vero. Quel battito accelerato che sento, quell'ombra su quello schermo... Sono incinta. Sul serio. Aspetto un bambino, un bambino che tra sette mesi nascerà e sarà mio figlio. Lo prenderò in braccio, lo cullerò, lo abbraccerò, gli insegnerò a parlare, a camminare, a fare tutto, lo amerò come nient'altro al mondo. Lui mi chiamerà mamma, mi vorrà bene, sarò il suo punto di riferimento, mi chiederà consigli. Dio, sarò una mamma. Una mamma vera.

«È bellissimo.»

Non sono stata io a parlare. Riesco a distogliere gli occhi lucidi dall'immagine sfocata sul macchinario e a rivolgerlo verso Philip. Non credo di aver mai visto questa espressione estasiata sul suo volto. Credo sia la stessa che ho io. Ci guardiamo e ci ritroviamo a sorridere come due idioti.

«Grazie», mi rivolgo alla dottoressa, con un'aria che dovrà sembrare molto stupida, ma non mi interessa. Lei mi mette una mano sulla mia spalla, le labbra arricciate verso l'alto.

«Non dovete ringraziarmi. Vostro figlio è in salute e per ora è tutto nella norma. Non c'è motivo di pensare che non sarà così anche durante il resto della gravidanza.»

Non voglio alzarmi dal lettino. Voglio restare distesa a fissare il monitor e ad ascoltare il battito di mio figlio per ore, ma mi rendo conto che è una cosa piuttosto demenziale perfino da pensare, ergo mi alzo e mi sistemo. La dottoressa, nel mentre, inizia a elencare una serie di regole che dovrei – il condizionale è d'obbligo - rispettare durante la gestione.

«Mi raccomando, niente alcolici o cibi troppo pesanti. Niente pesce crudo, no, nemmeno il tonno in scatola. Niente roba fritta, nessun affettato, non esageri con le dosi che non serve mangiare per due, le basterà aumentare un poco le quantità. Lei fuma? Bene, la smetta, fa solo male, se proprio deve se ne fumi massimo una al giorno. No, non una la mattina e una la sera, una al giorno. Poco caffè, massimo due, meglio se solo uno. Non faccia troppi sforzi, non frequenti posti troppo affollati come gli autobus o le metropolitane, eviti i tacchi, non ci vuole niente a farsi gonfiare le caviglie, poi rischia di perdere l'equilibrio. Beva molta acqua, attenzione ai farmaci che assume – mi chiami sempre per un consiglio, anche se ha mal di testa. Si liberi dallo stress, non serve a niente, né a lei, né al bambino.»

Mi sono persa a pesce crudo. Guardo Philip che, manco a dirlo, già ha registrato tutto.

«Non si preoccupi, dottoressa, ci penso io.»

Questa semplice frase mi incute più paura di tutto lo sproloquio della Wickham. Dio solo sa quanto Philip sa essere petulante quando si tratta della salute, figuriamoci poi di quella di suo figlio.

«Ah, Mia, le consiglio di iniziare a praticare sport.»

Eh?

«In che senso?»

«Ginnastica prenatale. Farà bene al bambino e anche a lei, la aiuterà con l'inevitabile mal di schiena e anche al momento del parto. Le lascio un dépliant, l'ospedale è convenzionato con una palestra specializzata.»

Fa per passarmi il pezzo di carta, ma io la fermo con la mano.

«La ringrazio, dottoressa, ma non posso.»

Le sopracciglia della donna si aggrottano in un'espressione perplessa.

«Scusi?»

«Io vado a risparmio energetico già normalmente, si figuri se mi metto a fare ginnastica mentre sono incinta.»

Vorrei dire altro, ma qualcuno mi stringe con forza l'avambraccio destro, provocandomi una fitta. Fulmino Philip, o meglio, vorrei, peccato che non mi stia considerando. Prende il dépliant della palestra e sorride.

«Ci informeremo, dottoressa Wickham. Grazie mille.»

Mi aspettano sette mesi di inferno. Povera me.

Uscita dallo studio, mi sento molto più rilassata. Credo che mi venderei un arto per un caffè e una sigaretta, ma questo non lo dico a Philip.

«Anche questa è andata!» esclama Lola. Quanto ad ansia, ne aveva quasi quanto me. Ci tiene che vada tutto bene, da qualsiasi punto di vista, non solo clinico. Ha già comprato non so quante tutine e scarpine per il mio bambino, di colore verde, dato che ancora non sappiamo il sesso. Lei spera che sia femmina, io ancora non ho deciso. Non so nemmeno se voglio saperlo, forse mi piacerebbe avere una sorpresa il giorno della nascita. Philip non so cosa voglia, ma spero che non mi rovini la sorpresa, nel caso.

«Grazie per essere venuto», mormoro, senza mentire. Lui solleva le spalle

«Non me lo sarei perso per nulla al mondo.»

Non so per quanto tempo restiamo a fissarci. Secondi, minuti, ore. Per quanto mi costi ammetterlo, il nostro rapporto è cambiato, di nuovo. È inutile fingere che sia tutto come prima, che lui sia solo il padre di mio figlio e basta, che possiamo continuare a ignorarci o al limite comportarci da coinquilini, o da semplici ex fidanzati. Ormai siamo legati per sempre e dobbiamo imparare a conviverci.

«Devo tornare a lavorare.» Sbatte le palpebre, come se lo avesse ricordato all'improvviso. «Non so a che ora torno, ho delle visite da fare.»

Perché si sente in dovere di giustificarsi? Non è necessario.

«Tranquillo, ci vediamo dopo. Buon lavoro.»

«Ah, un'ultima cosa. Domenica andiamo a pranzo dai miei, va bene per te?»

Posso fuggire? Posso, che ne so, prendere un aereo per l'Islanda e rifugiarmi lì? Io non ci voglio andare a casa dei genitori di Philip!

«Perfetto, sono libera domenica!»

Abbozza un sorriso, mentre quello che ho stampato sul mio viso è più finto dell'ovatta che mi mettevo nel reggiseno al liceo. Saluta Lola, poi scappa via verso il Pronto Soccorso. Io infilo le mani nella borsa e prendo la foto dell'ecografia che la dottoressa mi ha appena dato. Lo so che è una cosa molto stupida, ma non riesco a smettere di guardarla.

«Diventerà una strafiga da grande, lo so.» Lola riesce a farmi ridere e a farmi dimenticare della gita horror di domenica prossima.

Che ne sai che sarà femmina?»

«Perché sì, mia nipote sarà femmina, amerà la moda, il make-up e il rock come la zia!»

«E se esce maschio, si vestirà come un barbone, parlerà solo di calcio e ascolterà l'heavy metal?»

«Non dirlo nemmeno per scherzo.»


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