Nella notte buia dell'anima sono sempre le tre del mattino.
Mezz'ora prima, minuto più, minuto meno.
La mano sinistra si posiziona sul cambio. Con un gesto secco, lo spingo verso il centro e tiro su il freno a mano, il piede sinistro che preme sulla frizione. Metto le quattro frecce, non ho trovato un parcheggio, mi sono limitato a fermarmi davanti a una delle tante entrate del King's College, quella che serve a Luke, a Denmark Hill. Lo guardo mentre si infila il cappotto che si toglie ogni maledetta volta che entra in macchina, anche solo per dieci minuti.
«Piuttosto che andare a fare questo turno di notte, mi strozzerei», protesta, lasciandosi andare a un sospiro di rassegnazione. «Invidio il tuo congedo di paternità.»
Sbuffo. «Capirai, due settimane. Non sarà troppo?»
L'altro si limita ad alzare le sopracciglia. «In effetti...»
Apre la portiera ed esce, il vento gelido che entra in macchina. Abbasso il finestrino del lato del passeggero.
«Buon lavoro, ci sentiamo domani.»
Luke si piega in avanti e appoggia i gomiti sull'apertura della macchina. «Ma stai andando veramente a casa?»
«E dove vuoi che vada? Te l'ho detto, sono stanco.»
Ne abbiamo già discusso, ma mio cugino non capisce, o forse non vuole capire. Difatti, i suoi occhi si alzano verso il cielo.
«Guarda che anche a casa di Mia e Lola c'è un letto...» insinua, con quel luccichio malizioso che conosco molto bene.
«Ci dorme Alex», cerco di terminare la discussione, ma è una speranza vana.
«Alex può dormire con Lola. È gay, non sono geloso.» Luke continua a fissarmi, nella stessa posizione, dimentico che il suo turno sta per iniziare, oppure infischiandosene e basta. Sospiro. Dio, se sono stanco.
«Non mi va di tornare da Mia.»
«Non dire cazzate, certo che ti va di tornare da Mia e da tua figlia.»
Stringo le labbra. Non so bene come spiegarlo e sono davvero sfinito. Ho bisogno di farmi una dormita come si deve, non dormo da troppo tempo.
«Potrebbe aver bisogno di te, stanotte,» continua Luke, ostinato, «e tu potresti decidere di parlarle, magari.»
Mando giù la saliva. Mi passo una mano sulla faccia e sento i battiti accelerati. Come posso tornare da Mia, se prima se me ne sono andato, quasi di corsa, quasi come avessi fretta? Ho voluto evitare il discorso, perché sapevo che ce ne sarebbe stato uno. Quella conversazione che è nell'aria da giorni, una conversazione che dovremmo affrontare, anche se dopo quello che ho sentito ieri in ospedale, so se ne ho ancora voglia.
"E se poi lui se ne va di nuovo? Se va via di nuovo, io cosa faccio? Io e Darcy cosa facciamo? Non mi ha mai chiesto nemmeno scusa per quello che mi ha fatto. Mai, e niente mi toglierà dalla testa che potrebbe arrivare una nuova opportunità oltreoceano e che lui la coglierà al balzo".
Sono tornato indietro per dire una cosa a Luke e ho sentito queste parole. A lui non l'ho detto, non l'ho detto a nessuno. Mia è davvero convinta che me ne andrò di nuovo? Pensa davvero che abbandonerei lei e Darcy per il mio lavoro? Le ho fatto davvero credere questo?
«Allora?»
La voce di Luke mi riporta al presente. Lo guardo.
«Buon lavoro.» Premo il pulsante per risollevare il finestrino. Il mio migliore amico rotea gli occhi e toglie i gomiti prima di farsi male. Mi fa un segno di saluto con la mano e mi volta le spalle, diretto verso l'entrata. Fisso la sua schiena finché non lo vedo sparire oltre le scale e la porta scorrevole. Afferro il telefono: sono le dieci e un quarto. Mia è sveglia di sicuro, Darcy alle undici deve mangiare. Ignoro i messaggi di congratulazioni che continuano ad arrivare e premo di nuovo il pedale della frizione. Infilo la marcia, ma anziché continuare su Denmark Hill in direzione centro, sulla via che mi porterebbe nella mia nuova casa, torno indietro e prendo la solita strada che per mesi ho percorso, in direzione di Brixton.
Non ho idea di come cominciare il discorso. Potrei iniziare con un "mi dispiace". Sì, forse è la soluzione migliore. Aprirmi subito in questo modo, con delle scuse sincere, chiedendole perdono per essermi comportato male. Anzi, dire male è riduttivo, è un eufemismo, diciamo pure "come una merda". Non è il modo più elegante che conosco e sicuramente non è quello che i miei genitori posh approverebbero, ma è proprio la maniera corretta per definire quello che sono stato. Mi dispiace per quattro anni fa, per questi mesi, per Simone, per i miei modi cattivi, per la mia codardia, per non aver avuto il coraggio di lottare per noi, per aver rinunciato a te, a noi, alla nostra famiglia, a tutto quello che di bello solo tu puoi darmi, per essere andato via troppe volte, per non aver rischiato, per non averti capita, per aver aspettato tanto, per...
Per aver aspettato troppo tempo. Per essere arrivato tardi, di nuovo.
Non ho bisogno nemmeno di scendere dall'auto. Sotto casa di Mia e Lola il parcheggio, di sera, si trova facilmente. Vedo con chiarezza le labbra di Matt posarsi su quelle di Mia, sull'uscio della porta, incuranti del fatto che chiunque possa vederli. E infatti io li vedo. E senza che lo voglia, senza che lo desideri, la memoria bastarda ritorna indietro nel tempo, a quando ho visto la medesima scena tre mesi fa, su questa stessa strada, con qualche grado in più. Anche in questo momento, come allora, il dolore al cuore viene soppiantato da una rabbia cieca, che mi annebbia la vista. Una rabbia che mi sale su in gola, come bile, che vorrebbe solo essere sfogata a suon di pugni, contro qualunque cosa, preferibilmente il bel faccino americano di Matthew Ferrari.
Non faccio nulla di tutto questo. Rimetto in moto e decido di andare via, per evitare di fare qualcosa di cui potrei pentirmi. Prima di svoltare l'angolo, squilla il telefono. Il bluetooth collega l'apparecchio alla macchina e a me basta premere un pulsante sul display.
«Pronto?»
«Philip?»
La sua voce mi si infila nel cervello. Non è quello di cui ho bisogno. Lo so bene. Mordo forte le labbra. Il semaforo è verde ma io non accelero.
«Simone,» rispondo, «dimmi.»
Sento un sorriso dall'altra parte. «Non ti ho ancora dato le congratulazioni. Sono sotto casa tua.»
La casa della discordia. A quanto pare, il fatto di non averle detto nulla è stato dimenticato in fretta. Deglutisco.
«Arrivo.»
Simone è bella. Simone è intelligente, colta, elegante, sensuale. Simone sa stare in società. Sa sempre quando è il momento giusto per sorridere, annuire, stare in silenzio. Simone sa stare al suo posto.
Quando la vedo, davanti alle scale della mia nuova abitazione, noto che ha una bottiglia di vino tra le mani, che solleva di fronte ai miei occhi. «Mi fai entrare?»
Esito. La guardo e ciò che vedo mi piace, mi è sempre piaciuto. I capelli biondi impeccabili, immobili nei boccoli morbidi, il trucco leggero sugli occhi verdi e allungati, la pelle chiara. Indossa un abito nero sotto un cappotto color cammello. È bella e mi eccita.
«Certo.»
Quando poso le labbra sulle sue, il volto di Mia si materializza nella mia testa. Lo mando via e mi concentro sul profumo della bellissima donna che ho di fronte, una fragranza costosa, famosa, firmata da qualche stilista. Scendo lungo il suo collo, faccio scorrere la lingua sulla pelle calda, le scopro il seno sinistro, premo la mia erezione contro il vestito. Ho fretta, non voglio aspettare, voglio solo scopare, nel senso più becero della parola. Non voglio pensare a niente e questa è l'unica soluzione che riesco a trovare.
Sbagliando, ancora una volta.
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