Mi avevi già convinta al "ciao". Pt. 3
Il The Prince Charles Cinema si trovava a Leicester Square, il mio posto preferito in città. Nonostante mi fossi ritrovata in quella piazza innumerevoli volte da quando mi ero trasferita, non c'ero mai andata. A dirla tutta, non avevo mai visto nessun film a Londra, nonostante la mia passione per il cinema. C'era sempre qualcos'altro da fare, nei miei giorni liberi, e poi non ero sicura di parlare così bene inglese da poter comprendere un intero film senza sottotitoli. Vivevo nel Regno Unito da poco più di due mesi, non ero ancora pronta. Per questo quando Lola mi diede appuntamento a Leicester Square, pensavo a tutto tranne che al fatto che avremo visto un film.
«Un film?»
«Beh, tu adori il cinema, no?»
Sì, ma in italiano, o in inglese con i sottotitoli. La guardai con attenzione. Non me la raccontava giusta.
«Lola, cosa c'è sotto?»
La faccia della mia amica assunse un aspetto angelico falso come Giuda. «Niente, perché?»
La risposta mi fu subito chiara. A venti metri da noi, scorsi Fabian e, per tutte le cavallette, Philip.
«Lola!» Avrei preferito non urlare, ma non potei farne a meno. Come poteva avermi incastrata in quel modo?
«Scusa, ma Fabian voleva vedere non so quale film, gli ho detto di sì!»
«E io cosa c'entro?»
«Anche Philip voleva vedere questo film, mica poteva fare il terzo incomodo. Anzi, in realtà Philip voleva vedere il film, Fabian si è fatto trascinare e lo ha detto a me perché aveva voglia di vedermi.»
Ma che carino Fabian. «Non potevi chiamare qualcun altro?»
«Ma smettila, lo so che ti piace!»
Le mie orecchie diventarono bordeaux. Stavo andando a fuoco, dai nervi e dall'imbarazzo.
«A me non piace nessuno!» sbottai, in un disperato tentativo di abbassare la voce e non farmi sentire dai due che erano sempre più vicini.
Lola sorrise sorniona. «Invece sì, guarda come ti stai scaldando...»
«Sei tremenda.» Ero sul punto di picchiarla. «Che mi metto a fare io mentre tu fai le tue cose con Fabian?»
«Fai cose anche tu con Philip?»
Ora le faccio davvero male. Incrociai le braccia. «Io me ne vado.»
«E dai, che ha di male? È così carino e a modo!»
«Lui è...» Quale tra i tanti aggettivi negativi che lo descrivevano avrei potuto utilizzare? «È antipatico.»
Lo dissi in italiano, in inglese non rendeva abbastanza. Lola fece un gesto di noncuranza con la mano.
«Claro que es antipático, es inglés! Oh, eccoli che arrivano.»
«Ma che film ci vediamo?»
«E io che ne so?»
Non avevo alcun problema a rivedere Philip, sia chiaro. Erano passate tre settimane da quella colazione, dopo la strana nottata che avevamo vissuto. Tre settimane in cui non ci eravamo mai incontrati, nonostante Lola continuasse ad andare a letto con Fabian a qualsiasi ora del giorno, perfino dopo aver accompagnato i bambini di cui si occupava a scuola. Mi ero dimenticata dell'esistenza di Philip. Ok, bugia, non mi ero dimenticata proprio di nessuno e del momento di condivisione che avevamo trascorso, anzi, di me che avevo condiviso fin troppo e di lui che aveva ascoltato.
«Non doveva vedersi con Betty?» chiesi a Lola, a bassa voce, senza riuscire a trattenermi. Lei rise, senza ritegno.
«Te lo ricordi bene il suo nome, eh?»
Betty era la sua ex, o almeno credevo che fosse la sua ex, non ci avevo capito molto. A parte il nome assurdo (ma che razza di nome era Betty? Dio mio, gli inglesi) avevo scoperto - tradotto: Lola aveva fatto la spia - che con questa ragazza ci stava insieme da circa sei mesi, era una sua collega della facoltà di medicina, ma durante quella famosa notte avevano litigato di brutto, ecco perché Philip era tornato a casa. Non avevo idea se stessero ancora insieme oppure no, e nemmeno lo avevo chiesto a Lola, non erano affari miei e non mi interessava. Certo che non mi interessava, che me ne poteva fregare della vita amorosa di Philip Turner. Ah, sì avevo scoperto il cognome - il più inglese e banale del secolo. Nessun account Instagram e un profilo Facebook con un'immagine del profilo sfocata risalente al 2011. Il risultato del mio stalking era stato insoddisfacente. Quanto rosico quando succede.
«Hola, chica!»
Ne avevo fin sopra i capelli delle slinguazzate tra Lola e Fabian. Distolsi lo sguardo e mi ritrovai a doverlo posare su Philip, per forza di cose. Fissare per l'ennesima volta i pacchiani addobbi di Natale della piazza sarebbe stato troppo anche per me.
«Ciao», mormorai, mentre sentivo il sangue affluire verso le guance. Maledizione. Le labbra di Philip si mossero appena.
«Ciao.»
Lola e Fabian continuavano a pomiciare. Riuscimmo a entrare nel cinema, senza spiccicare una parola. Perché non mi ero accesa una sigaretta prima di entrare, mannaggia. Non potevo uscire più, ormai, eravamo davanti alla biglietteria. Alzai gli occhi per leggere i titoli dei film e arricciai il naso. Perché c'era scritto "Home Alone", il nostro "Mamma ho perso l'aereo"?
«Perché ci sono film vecchi?» domandai, ben attenta a non guardarlo.
«Non lo sai?»
«Cosa non so?»
«Danno sono vecchi film al Prince Charles.»
«Davvero? Che figata!»
Philip non reagì alla mia euforia, limitandosi a guardare dritto davanti a sé. Ancora una coppia e poi toccava a noi.
«E cosa ci vediamo?»
«Tu cosa vuoi vedere?»
Ah, perché, avevo voce in capitolo? Sollevai le spalle.
«"Mamma ho perso l'aereo?"»
Le sue sopracciglia formarono un arco quasi perfetto. Aveva quello destro di qualche millimetro più alto del sinistro e forse era per questo che aveva sempre quella fastidiosa aria snob. Oppure era antipatico e basta.
«Vuoi vedere "Mamma ho perso l'aereo" quando c'è "Shutter Island"?»
«Almeno so che "Mamma ho perso l'aereo" è bello.»
Questa frase costrinse Philip a voltarsi e a guardarmi. I nostri occhi di ghiaccio si incrociarono di nuovo.
«Mi stai dicendo che non ha mai visto "Shutter Island?"» mi rimproverò, con lo stesso tono che usava la mia host mom Eve quando si rendeva conto che non avevo passato l'aspirapolvere in cucina.
«Non c'è mai stata l'occasione», mi giustificai, ed era vero. Lui mi guardò come se avessi appena urlato "Heil Hitler". Mi impegnai moltissimo a non roteare gli occhi.
«Non puoi non aver mai visto "Shutter Island"! Ma dove vivi? Non è arrivato in Italia?»
«Certo che è arrivato, cretino!»
«Ignorante.»
«Oh, ma come ti permetti?»
«Due biglietti per "Shutter Island", grazie.»
Non riuscii a fermarlo. D'accordo, lo ammetto, era una grave pecca nella mia cultura cinematografica non conoscere quel film, ma davvero non ne avevo mai avuto modo. Era uscito qualche anno prima e ricordavo di aver letto il titolo sulla programmazione di qualche canale, ma non l'avevo mai visto. E stavo per guardarlo per la prima volta in una lingua che non era la mia e con un ragazzo che mi metteva in soggezione come mai nessuno era riuscito a fare. Avrei capito sì e no quattro parole su dieci.
«Ma Lola e Fabian dove sono?» Afferrai il biglietto dalle mani di Philip, stando bene attenta a non toccare le sue. Lui scrollò le spalle.
«A vedere "Mamma ho perso l'aereo", probabilmente. Andiamo, sta per iniziare.»
«Faccio in tempo a fumare?
La mia domanda si perse tra l'odore di popcorn e la netta indifferenza del mio accompagnatore.
«Allora? Ti è piaciuto?»
Faceva un freddo cane, alle nove e mezza, a Leicester Square. Rimpiansi per un attimo di essermi levata i guanti per accendermi la mia agognata sigaretta, ma quando la nicotina sfiorò la mia gola mi sentii subito meglio.
«Fumare fa male, non lo sai?»
Mi domandai se lo facesse apposta a provocarmi, oppure se amava rompere le palle al prossimo e basta. Avevo trascorso le due ore precedenti a disagio. Alla fine, Lola e Fabian avevano scelto il nostro stesso film, ma erano stati tutto il tempo a sbaciucchiarsi. Credo che non abbiano nemmeno capito chi fosse il protagonista. Io mi ero messa sul sedile accanto a quello di Philip, perché avendo preso lui i biglietti per entrambi eravamo finiti vicini, ma non era stata una buona idea. Non mi ero rilassata un secondo: ero tutta presa a cercare di non perdermi nemmeno una parola che veniva fuori dalla bocca di Leonardo DiCaprio o di Mark Ruffalo - ma sicuro un paio di dialoghi li avevo del tutto cannati - e la vicinanza con Philip mi rendeva nervosa. Mannaggia a me e quando avevo deciso di comprare una bottiglietta d'acqua, ogni volta che ne prendevo un sorso finivo per sfiorare la sua mano posata sul bracciolo. E il suo profumo, maledetto, il suo profumo mi aveva stordito per tutto il tempo, lo stesso che avevo sentito quella notte di tre settimane prima. Due delle ore peggiori della mia vita, non c'è che dire, peggio di quando ne ho attese tre per sapere se avessi passato l'ultimo esame di linguistica e potevo laurearmi nella sessione di gennaio senza dover ripagare le tasse.
«Lo so, ma sono masochista.»
Ah, quanto era vero. Sollevai le spalle, mentre lui scuoteva la testa.
«Comunque, sì, mi è piaciuto moltissimo. Avevi ragione, è davvero un bel film.»
Mi era piaciuto sul serio, anche se mi ero ripromessa di trovarlo in streaming da qualche parte e di rivederlo in italiano, o almeno con i sottotitoli. Philip mi guardò negli occhi.
«Sono contento. Ci sarei rimasto davvero male se alla fine avessi preferito "Mamma ho perso l'aereo".»
Risi. Non mi aspettavo di farlo, al punto tale che rimasi stupita. Mi sembrò di vedere un sorriso anche sulle sue labbra. Era davvero bello quando sorrideva.
«Oh, eccovi qua! Pensavamo di avervi perso!»
Lola e Fabian ci raggiunsero e in un attimo fu palese che non avevano seguito nemmeno un secondo del film. Provai una fitta di invidia, senza volerlo. Erano così complici, lei e Fabian, nonostante si conoscessero da poco più di un mese. Io mi ero fissata - perché era inutile girarci intorno: mi ero fissata - con uno che non mi aveva nemmeno detto il suo cognome e si divertiva a prendermi in giro, e che era pure fidanzato. Mai una gioia.
«Va be', noi andiamo!» esclamò Fabian, tutto a un tratto. Io, che stavo accendendo la mia seconda sigaretta nel giro di cinque minuti, mi voltai a fissarlo.
«Dove andate?» domandò Philip, dando fiato al mio stesso pensiero. Il suo coinquilino rosso e la mia amica sorrisero.
«A casa, abbiamo bisogno di un po' di privacy. Tu fai con calma, Phil, non tornare troppo presto.»
Fabian gli fece l'occhiolino. Io guardai Lola.
«Ma non dovevamo andare a cena?»
Me l'aveva promesso, quella maledetta. Si disegnò sul volto un'espressione di scusa.
«Vacci con Philip, no?» propose, come se nulla fosse. «Dai, rimandiamo a domani, offro io!»
L'ho già detto maledetta? Scomparvero nella folla senza che io e Philip potessimo ribellarci. Rimanemmo immobili come due idioti. Imprecai sottovoce nella lingua di Dante e mi diressi verso un cestino a gettare la mia sigaretta. Tornai da Philip, che non accennava a parlare. Di certo stava cercando le parole giuste per liberarsi di me. Ok, ero abbastanza matura da poter incassare un rifiuto. Potevo benissimo sopportare il fatto che non vedesse l'ora di andarsene e che non l'avrei rivisto mai più, perché ormai avevo imparato, non sarei mai più cascata in una delle trappole di Lola. Insomma, è stato bello conoscerlo, meno bello prendersi una sbandata e non essere ricambiata, ma stava tutto per finire e avrei potuto ricominciare la mia banale routine senza più viaggi mentali su un ragazzo inglese dagli occhi azzurri e dalle sopracciglia irregolari, con un sorriso che ogni volta mi schiantava il cervell...
«Hai fame?»
Aveva detto qualcosa? Sbattei le palpebre. Philip strinse la fronte.
«Ti va di mangiare qualcosa insieme?»
Qualcosa di strano accadde. Il peso che avevo in fondo allo stomaco iniziò a muoversi e lo sentii risalire lungo l'esofago. Si fermò sulle mie labbra e mi aprii in un sorriso.
«Sì, mi va di mangiare qualcosa insieme.»
Mi portò a mangiare un hamburger in una piccola via dietro Covent Garden. Il posto era piccolo ma molto carino, da sola non l'avrei mai scovato, tanto era nascosto. Mi raccontò che ci andava spesso con suo padre quando era piccolo e secondo lui faceva gli hamburger più buoni di tutta Londra. Aveva ragione, erano davvero ottimi. Era la seconda volta che vedevo Philip ed era la seconda volta che finivamo a mangiare insieme. Fu in quel momento che capii che forse non era così che si conquistava un uomo, ma non mi interessava. Non ero mai stata molto brava a flirtare, ero sempre stata troppo spontanea.
«Ma tu hai sempre fame?»
Alzai lo sguardo dal mio cheeseburger con bacon e patatine fritte. Avevo anche ordinato una pinta di birra e solo per decenza non avevo preso gli anelli di cipolla. Non solo per decenza. Insomma, non si sa mai. Sollevo le spalle.
«Sono sempre felice se qualcuno mi porta a mangiare. Sarebbe maleducazione mangiare poco, no?»
Philip sorrise. Lo stava facendo spesso. «Ottima osservazione.»
Mangiammo con calma e parlammo per lo più di cinema. Del film appena visto, di cosa pensavamo del finale ambiguo, se era meglio Mark Ruffalo o Edward Norton come Hulk - secondo me il primo - di quante volte avevamo visto e letto Harry Potter, "La grande bellezza" aveva meritato davvero l'Oscar o Sorrentino aveva fatto film migliori? Era meglio il libro a prescindere o c'era anche qualche film migliore del libro? Spoiler: Espiazione, meglio il film. Comunque, c'erano due cose di cui amavo parlare: i film e i libri. Era bello farlo con lui.
«Philip?»
«Uhm?»
«Perché l'altra volta te ne sei andato all'improvviso?»
La domanda non era prevista e nemmeno lui se l'aspettava. Mi era venuta fuori così, erano giorni che ci pensavo, volevo una risposta. I muscoli del suo collo si tesero.
«Perché dovevo andare in ospedale, te l'ho detto.»
«Sei scappato. Avevi paura di dirmi qualcosa che non avrei dovuto sapere di te?»
Non rispose subito, ma non mi diede fastidio, attesi che trovasse le parole giuste. Philip era fatto così. Non amava le chiacchiere, diceva solo il giusto necessario, non parlava mai a sproposito, rifletteva sempre sulle parole da pronunciare. Era l'esatto opposto di me.
«Non sono molto bravo a parlare di me, non mi piace granché», ammise, dopo qualche infinito secondo. Alzai la testa e bevvi un sorso di birra. Si stava scaldando, odiavo la birra calda.
«Allora non sei obbligato a farlo.»
Chi ero io per forzarlo a dire cose che non voleva dire? Nessuno, solo una che tre settimane prima si era infilata nel suo letto e il giorno dopo aveva parlato troppo. Non potevo avere pretese su lui, non c'erano le basi. Essermi presa una cotta e mangiare con lui per la seconda volta senza essersi organizzati, non mi dava alcuna prerogativa.
«Mi chiamo Philip Turner, ho ventisette anni, vengo da Hatfield e mi sto specializzando in chirurgia d'urgenza al King's College Hospital.»
Iniziò così, senza preavviso. Veniva da una famiglia molto abbiente dell'Hertfordshire, dove aveva vissuto la maggior parte della sua vita, prima di frequentare le superiori in un esclusivo college londinese. Aveva una sorella, Joan, di quattro anni più vecchia di lui, che faceva l'avvocato e aveva appena avuto una bambina, Marylin. Suo padre era un chirurgo oftalmologo e sua madre una classica signora dell'alta società. Philip aveva sempre voluto seguire le orme del padre, nonostante non fosse mai stato un tipo molto presente a causa del suo lavoro. Voleva diventare un chirurgo, ma si era ripromesso di stare il più possibile a casa con i propri figli, se mai ne avesse avuti. Si era innamorato una sola volta in vita sua, a diciotto anni, con la sua storica ex, Helen, con la quale era stato quattro anni e mezzo ma con la quale è finita perché non riuscivano più a stare insieme. Lui aveva la sua vita a Londra, lei il suo lavoro in una scuola elementare a Hatfield, le loro vite si erano allontanate e avevano deciso di separarsi, ne aveva sofferto molto. Gli piaceva molto andare a correre, lo rilassava nei momenti di stress. Oltre alla passione per la medicina – che a volte rasentava il sadismo, come quando sgattaiolava a sbirciare le autopsie notturne nel reparto di medicina legale - era un tifoso sfegatato dell'Arsenal e non si perdeva una partita allo stadio. Adorava i film di Tarantino, mentre detestava tutte quelle stupide commedie romantiche. Gli piaceva leggere, anche se non aveva molto tempo, se avesse dovuto scegliere un genere, avrebbe detto i romanzi gialli. Se non avesse sempre considerato il salvare delle vite come una vocazione, forse diventato un detective.
«Questo sono io, Mia. Non credo di aver mai detto tutte queste cose insieme su di me a una persona.»
Sorrisi. Il nostro cibo era terminato.
«Sono contenta che tu ti sia fidato di me.»
«Io non mi fido mai di nessuno, sai?»
Notai una punta di amarezza nelle sue parole. Utilizzai tutta la forza che avevo per non stringergli la mano.
«Allora mi considero fortunata.»
Quel silenzio che seguì, quella volta, non mi disturbò affatto. Stavo per ordinare altre due birre, quando il telefono di Philip squillò. Non potei fare a meno di leggere il nome. Betty. Non rispose. Io non dissi nulla, ma volevo davvero un'altra birra. Stava ancora con lei? Quella sera avevano litigato e quindi stava occupando il tempo insieme a me? Ero solo un tappabuchi? Dio santo, quante seghe mentali.
«Non stiamo più insieme.» Philip si mise il cellulare nella tasca e mi guardò negli occhi. «Ci siamo lasciati la settimana scorsa. Lei però non sembra averlo accettato, continua a chiamarmi.»
«Ok», dissi, di getto. «Non mi devi spiegazioni.»
«No, figurati, è che... ci tenevo a dirtelo. Non sto più insieme a Betty.»
Non stava più insieme a Betty, non stava più insieme a Betty, non stava più insieme a Betty! Non che la cosa mi interessasse.
«Certo che Betty è davvero un nome di merda.»
Non ero riuscita a trattenermi. Strinsi le labbra, quando vidi la faccia di Philip.
«Si chiama Elizabeth! Betty è il diminutivo!»
«Appunto! Perché ti fai chiamare Betty se puoi farti chiamare Lizzie? Le basi, cavolo!»
Restò in silenzio, immobile, la bocca mezza aperta. Poi scoppiò a ridere e forse per la prima volta lo stava facendo di cuore. La risata mi coinvolse e ridemmo come due idioti per chissà quanto tempo.
«Non ti ho detto una cosa», esordì, una volta fuori il locale. Le persone ci passavano davanti, in fretta, senza vederci. Io mi accesi una sigaretta e ignorai il suo sguardo contrariato.
«Stai per dirmi che sei un serial killer con la passione per le ragazze more con gli occhi chiari che ti ricordano tua madre?»
Philip sollevò lo sguardo. «No,» rispose, come se ce ne fosse bisogno, «e comunque non assomigli per niente a mia madre.»
La dovevo considerare un'offesa? Mi guardò dritto negli occhi.
«Qualche volta potremmo parlare in italiano. Sai, così non perdo l'abitudine.»
Spalancai occhi e bocca. Philip parlava italiano? Com'era possibile? Lo parlava anche bene, cioè, il suo accento era evidente, ma maledizione!
«Come fai a parlare italiano? E perché non me lo hai detto?»
«Volevo tenermi il pezzo forte alla fine.» Sollevò le spalle. «Erasmus a Firenze, tre anni fa. L'anno più bello della mia vita. Quanto mi manca quel buon cibo, e soprattutto il bel tempo!» Sorrise, di nuovo.
«Magari ci siamo incontrati agli Uffizi e non ce ne siamo accorti.»
Oh, Madonna. Il mio stomaco fece una capriola all'indietro. Avevo bisogno di altro alcol.
«Già, forse sì», risposi, sentendo le guance andare a fuoco. Il telefono di Philip squillò di nuovo. Era Fabian, gli dava il via libera per tornare a casa.
«Tu vuoi andare a casa?» mi domandò, rimettendo il telefono in tasca. «Lola dorme da noi, quindi posso riportarti a casa quando voglio.»
«Potremmo andarci anche adesso, a casa mia.»
Ma che diavolo aveva appena detto? Curvò le sopracciglia.
«E la famiglia che ti ospita?»
«Fuori per il weekend.»
Erano in Galles a trovare i nonni, proprio in quei giorni. Quelle parole mi uscirono fuori prima che me ne rendessi conto. Philip mi fissò. Per un lungo, folle secondo, ebbi il terrore di aver rovinato tutto.
«Ok, ho la macchina qui vicino.»
Non ricordo granché di quel viaggio in auto, pensavo solo a cosa sarebbe successo dopo. Perché lo avevo invitato a casa mia? Sperai che nessun vicino ci vedesse, Mike e Eve mi avrebbero cacciato all'istante. Qualcosa doveva succedere. Davvero, però, volevo che succedesse? Lì, subito, la seconda volta che ci vedevamo? Non eravamo mai usciti insieme, non per davvero. Eppure, stare con lui era qualcosa che andava al di là di tutto quello che avevo mai provato, sentito, vissuto con altri ragazzi.
«La vuoi una birra?»
Philip aveva parcheggiato qualche centinaio di metri più avanti casa, in una stradina poco più giù del centro del quartiere di Crystal Palace, nella zona sud di Londra dove vivevo. Aprii il frigorifero nell'immensa cucina così piena di elettrodomestici che non utilizzava mai nessuno. Senza attendere risposta, gli passai la bottiglia.
«Così vivi qui, eh?» chiese, portandosela alle labbra. Mi parve una di quelle domande che si fanno quando si è a disagio e non si sa cosa dire. Annuii e senza dire altro lo condussi verso il divano. Mi sarebbe piaciuto portarlo fuori in terrazzo, la parte che preferivo della casa, ma faceva troppo freddo. Il divano, però, era accanto alla grande finestra di vetro attraverso la quale si vedevano le stelle. Avevo voglia di accendermi una sigaretta, ma non potevo all'interno. Philip notò il pacchetto tra le mie mani.
«Non la smetterai mai di fumare, eh?»
«Mi conosci da tre settimane e già vuoi cambiarmi, Turner?»
«Che male c'è?»
Mi voltai con calma verso di lui, alla mia sinistra. Eravamo vicini, troppo vicini. Mi sentivo il cuore in gola. Ero stordita dall'attrazione che provavo per lui.
«Non smetterò di fumare per te, scordatelo», dichiarai, categorica, ma allo stesso tempo divertita.
«Peccato. È che se mai ti baciassi mi darebbe fastidio il sapore di fumo...»
Credo che fu il riferimento al "baciare" a mandarmi a fuoco. Aveva un accento così pulito e così sexy. Maledetti inglesi. Mi ritrovai con le labbra a due centimetri dalle sue.
«Sì. Un grande peccato.»
Era tutto scritto. Non dovevo fare niente di complicato, dovevo solo seguire l'istinto e farmi trascinare da ciò che provavo in quel momento. I suoi occhi blu mi tenevano incatenata a lui e non c'era alcun motivo per liberarmi. All'improvviso, tuttavia, lo feci. Mi alzai di scatto, nella penombra della stanza. Il volto di Philip era nascosto, ma riuscii lo stesso a intravedere lo stupore nei suoi occhi, e forse la delusione.
«Scusa.»
Provai a cercare un senso a quello che avevo appena fatto. Il cuore mi batteva forte, sembrava volesse balzar fuori dal petto, come si dice banalmente. Ero nel panico, del tutto insensato. Era come se di punto in bianco mi fossi resa conto di quello che avevo fatto e stavo per fare. Avevo invitato un ragazzo che avevo visto due volte in una casa che non era mia, senza una vera ragione, solo perché l'istinto mi aveva detto di fare così. Quella non era una cosa da me, io ero sempre stata imbranata in quelle cose, troppo pudica, troppo terrorizzata dal commettere errori, influenzata da ciò che le persone potessero pensare di me.
«Mia, va tutto bene?
Philip si era alzato ed era di nuovo davanti a me, molto vicino. Stavo tremando. Mi sforzai ad alzare gli occhi e lo guardai.
«Scusa, è che io... Non sono abituata a fare queste cose.»
«Quali cose?»
Certo che gli piaceva proprio fare domande inopportune. Tirai fuori l'aria, cercando di regolarizzare un respiro che sembrava essere andato a farsi benedire.
«Queste, cioè... Io...»
Non sapevo come descrivere quello che mi stava succedendo, perché non lo sapevo nemmeno io. Di che cosa avevo paura? Di fare sesso? L'avevo fatto, poche volte e con persone discutibili, ma ero una ragazza di ventiquattro anni, doveva essere una cosa normalissima. Ma io non ero mai stata troppo normale. L'insicurezza aveva sempre attanagliato la mia vita e Philip mi piaceva troppo per non essere spaventata dall'idea di rovinare tutto. Non sapevo cosa dire. Provò a sorridere.
«Non ti preoccupare, ok?» Mi accarezzò la guancia con la mano destra. Era calda. «Non è successo niente. Io vado, stai tranquilla.»
Si spostò da me e sentii freddo. Socchiusi gli occhi e, rispondendo di nuovo a un istinto, afferrai il suo polso.
«No, Philip, aspetta. Non voglio che tu vada via.»
Si fermò. Si voltò di nuovo a guardarmi. Forse pensava fossi pazza. O forse no. Tornò nella stessa posizione di prima, davanti a me.
«E allora che cosa vuoi?»
Quella domanda mi costrinse a fare i conti con me stessa. Desideravo davvero che se ne andasse via? Volevo perdere l'occasione di stare con lui, in quel momento, quella notte di dicembre, nella casa di Eve e Mike, a prescindere da tutto il resto? Volevo smetterla di auto sabotarmi e godermi quel momento?
Non ricordo come accadde, ma so cosa accadde. Non ricordo se fui io ad avvicinarmi per prima alla sua bocca o se fu lui, quanto durò, in quale momento la sua mano destra si infilò tra i miei capelli o quando la mia cominciò ad accarezzargli la schiena. L'ansia, il panico, la tachicardia, svanirono all'istante. Non baciavo un uomo in quel modo da tanti anni, non con quella sensazione di pace in fondo allo stomaco. O forse non lo avevo mai baciato. Spiegare cosa mi stesse succedendo era quasi impossibile, ma non mi interessava farlo, non volevo sapere che cosa significasse tutto quello. Sapevo solo che tutto era al posto giusto, non c'era niente di sbagliato, non era troppo presto e tutto aveva senso. Sapevo che volevo farlo, con lui, sul serio, in quel momento. Non ero mai stata così sicura di qualcosa.
«Oddio.»
Non so se mi aveva sentito. La sua testa era tra le mie gambe e non ricordo nemmeno come ci era arrivata. Non avevo avuto delle grandi esperienze sessuali nella mia vita, ma di certo nessuno aveva usato in quel modo la lingua su di me. Veloci scariche elettriche attraversavano il mio corpo, raggiungendo il mio cervello, annebbiato da quel piacere che non avevo mai provato. Ero quasi all'apice, quando Philip si fermò. Sentii il suo respiro e il mio primo istinto fu stringere le gambe. Lo sentii ridere.
«Non così in fretta.»
Risalì verso il mio viso, con una lentezza disarmante. Il suo petto nudo tornò a contatto con il mio seno ancora coperto dal reggiseno, che le sue mani si premurarono di togliere e gettare via. Le nostre labbra si unirono di nuovo e io realizzai che lo volevo dentro di me. Riuscivo solo a pensare a quello. Passò a leccare il mio collo, la mano destra sul mio seno nudo. Non ero mai stata così coinvolta in un rapporto sessuale, non mi era mai piaciuto così tanto. Allora era così che era. Era davvero così bello come dicevano.
Quando Philip entrò dentro di me, provai un leggero dolore. Minimo, veloce, freddo. Lui se ne accorse e cercò i miei occhi. Annuii piano e cominciò a muoversi, con calma. Incrociai le gambe attorno al suo bacino e mi lasciai travolgere. Ci guardammo negli occhi e lo baciai di nuovo, ancora. Nel profondo tremavo, ma ero sicura come non mai di quello che stavo facendo.
Qualche ora dopo ci addormentammo abbracciati nel mio letto, diverso da quello in cui avevamo dormito l'ultima volta, con la testa sul suo petto e la sua mano che mi accarezzava la schiena. Mi sentivo bene.
«Buonanotte, Philip.»
«Buonanotte, Mia.»
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