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XXII

Bernardo aveva infine avuto ciò che cercava: non la liberazione di Prato, ché non era quello il suo vero proposito, ma la fama di novello Bruto; una fama che gli aveva guadagnato la tortura prima e il patibolo dopo. La sua testa, mozzata con un solo colpo di spada dal boia, era caduta nel cesto, il suo corpo aveva dato un tremito, e nel cortile del Bargello si erano alzate le grida dei Fiorentini vincitori. Era il 9 aprile. Tre giorni erano bastati a fare giustizia.

Lorenzo non aveva voluto assistere all'esecuzione, a differenza di altri. Se ne era stato in casa propria a guardare e riguardare la collezione di monete antiche e cammei; aveva tenuto la finestra dello studiolo aperta, per udire, dalla distanza, l'acclamare della folla.
I toni penitenziali della Quaresima contennero un poco le manifestazioni di festa per lo scampato pericolo che, per quanto nessuno volesse ammetterlo, aveva fatto tremar le vene e i polsi di Firenze. Dopo la Pasqua, che quell'anno cadeva il 22 aprile, nulla poté più servire a scusa, e i Fiorentini si diedero al ben vivere con più convinzione e passione di prima, soprattutto i giovanotti nel fiore dell'età.

Un'ottima occasione di schiamazzi e baldoria fu la ricorrenza del Calendimaggio. Era questa una festa dai tratti schiettamente pagani, dato che era impossibile, anche al più ostinato cristiano, di trovarle radici nella santa tradizione. Questo fatto, insieme al ribollire di umori suscitato dalla primavera ormai inclinante all'estate, consigliava ai vecchi burberi di cedere il passo più volentieri alle turbe di giovani che facevano il giro della città per appiccare rami verdeggianti e fioriti alle finestre delle loro innamorate.

Non distante da Firenze, Cafaggiolo in quei dì aveva l'aspetto di un paradiso. Le colline del Mugello offrivano una splendida vista, morbida e accogliente come l'abbraccio della natura. Proprio a questo pensava Lucrezia guardando lontano, verso l'Appennino. La villa, ma si sarebbe detto meglio chiamandolo castello, era situato in una conca, ma il verde tutt'attorno non soffocava, bensì spingeva lo sguardo verso le insenature o verso il cielo.

Lucrezia prendeva respiri lenti e profondi e riposava il corpo dalle apprensioni degli ultimi tempi. Era ancora mattino presto, e lei era in sola camicia e si faceva coccolare dalla brezzolina frizzante che serpeggiava per la piccola valle. Sapeva che sua nuora dormiva ancora o s'era appena svegliata, stava sgranchendo le caviglie a penzoloni giù dal letto rimirando quel bel pancione rotondo che cresceva di giorno in giorno facendosi un po' più pesante. Aveva forse i lunghi capelli sciolti sulle spalle, così folti e rossi da renderla inconfondibile, e la pelle candida profumata di promesse. Era giovane, Clarice, e le richiamava alla memoria la propria stessa giovinezza, con ricordi che le trapassavano il cuore: Piero, dopotutto, era morto da pochi mesi, troppo pochi perché lei potesse dedicargli qualche pensiero condito di sola nostalgia e rassegnazione. C'era ancora tanto dolore.

Asciugò in fretta la lacrima che, imprudente, si era spinta oltre le sue ciglia nerissime. Non era donna da rimpianti, lei, e aveva molte faccende di cui occuparsi, prima tra tutte l'accoglienza dei figli in arrivo da Firenze. Sì perché, a differenza delle donne, Lorenzo e Giuliano si erano trattenuti al palazzo per sbrigare la corrispondenza più urgente e solo in seguito concedersi una meritata tregua.

Aveva già disposto la sera precedente per allestire un pranzo frugale, intimo e caloroso per passare assieme il tempo in serenità, come ai tempi in cui Piero viveva. Non c'era bisogno di grandi banchetti, quando si era tra parenti di sangue, perché non c'era alcunché da ostentare. A Lucrezia poi, occhio acuto, piaceva risparmiare sulle spese inutili e dannose, perciò preferiva mangiare carne quando questa fosse stata gratuita, donata o procurata con la caccia. Poiché gli uomini non avevano ancora avuto modo di dedicarsi al loro passatempo, delle buone focacce all'olio con fette generose di cacio, intingoli saporiti ad accompagnare e vino delle loro vigne. I dolci non sarebbero mancati, così come fragoline e altre primizie.

Ebbe tutto il tempo di perfezionare il programma della giornata: Lorenzo e Giuliano, difatti, avevano imboccato la strada con tutta la calma possibile, partendo da Firenze in modo da arrivare giusto per l'ora di pranzo. A quel punto anche Clarice era discesa nella sala e sedeva già al tavolo quando un servo annunciò che i padroni si apprestavano proprio allora a varcare il ponte levatoio che sovrastava il fossato, una delle tante vestigia del passato feudale della villa.

Clarice fece per alzarsi, ma la suocera le consigliò di non sforzarsi: Lorenzo comparve poco dopo sulla soglia con un ramo di pruno selvatico pullulante di fiori bianchi e rosa. Aveva un sorriso di soddisfazione sul viso e gli occhi vivaci che contagiarono subito la fanciulla con le migliori sensazioni e aspettative. Clarice spalancò le braccia, la voce fievole per la sorpresa, e lo ringraziò di cuore senza bisogno di parole. Lorenzo le si avvicinò e le porse il dono, la baciò sulla fronte e poi aggiunse: «Non è uso che un marito dedichi un simile tributo alla moglie legittima, perché sembrerebbe disonesto paragonare la consorte all'innamorata, tuttavia m'è parso buona cosa per te, che sei forestiera e che un siffatto dono non l'hai potuto ricevere quando eravamo fidanzati. Rimedio a un'antica mancanza mia, così chequando saremo ambedue vecchi bacucchi tu non me lo possa rinfacciare!»

«Oh, messer mio! M'ero appunto persuasa che oggi non avrei ricevuto nulla... Invece m'avete fatto felice», sospirò Clarice, prendendo in grembo il ramo e osservando attentamente i fiori. «Il viaggio è stato lungo, mi pare, più lungo di quanto non sia stato per noi che però venivamo in carretta!»

«No, madonna!» entrò di corsa Giuliano a quel punto, andando a sedere di fronte alla cognata. «Noi si è fatto tardi perché siamo andati con gli amici ad appiccare rami alle finestre delle nostre belle in città!»

«Oh, bene! E alla finestra di chi avete appeso il vostro ramo, messer Giuliano?» domandò di rimando. Nel frattempo, Lucrezia aveva preso posto accanto a lei, mentre Lorenzo, tolti i guanti e la berretta, si apprestava a far lo stesso mettendosi a capotavola, tra il fratello e la moglie. I servi posero ceste di focaccia sulla mensa e Giuliano, prima di rispondere, allungò la mano golosa, beccandosi una ramanzina dalla mamma. «Aspetta!» gli disse infatti. «Non è ancora tempo, non vedi tu che monsignor Gentile e padre Matteo non sono pur qui?»

«Via, mamma, che c'ho una fame che mangerei un elefante!» replicò ridendo, quindi prese un morso di focaccia, l'assaporò e infine rispose: «La mia è una figliola dei Benci».

Nel vivace scambio, nonna Contessina restava silenziosa accanto alla nuora Lucrezia. Guardava attorno con l'espressione benigna delle donne anziane e tagliava la pagnotta in fette da cospargere di salse salate. Indulgeva, con amorevole sguardo, sui nipoti, rivedendovi forse i tratti del marito e del figlio. La nostalgia fu tanta che, tutt'un tratto, appena Giuliano ebbe parlato, interruppe dicendo: «De', Lorenzo, ti ricordi tu l'avolo che ti faceva lo zufolo? Egl'era qui, in questa sala e a questo tavolo».

«Oh, nonna, sì che mi ricordo!» e a Clarice: «Una volta, avrò avuto sei o sette anni, Cosimo mio avolo era qui a ragionare con gli ambasciatori senesi, e io entrai per farmi fare uno zufolo. E l'avolo ha fatto attendere gli ambasciatori e m'ha fatto lo zufolo...»

«Ah, il tuo babbo avrebbe fatto altrettanto per i tuoi figlioli!» singhiozzò Contessina, sopraffatta dai ricordi. I suoi occhietti coronati di rughe gentili si velarono di lacrime, ma le sue labbra si imposero di sorridere: gioia e tristezza si mescolavano in lei; le sue manine, impacciate, si strinsero l'un l'altra, e il suo capo coperto da un velo bianco e nero inclinò in avanti, in grande imbarazzo per aver guastato il tenore della giornata.

Un servo si avvicinò in quello stesso momento per liberare Clarice dell'impiccio del ramo fiorito e domandò se volesse che fosse posto nella sua camera. Lei, d'impulso, negò. «Portatelo nella camera di madonna Contessina, se a mio marito ciò non dispiace.»

Lorenzo approvò con un cenno e la nonna, con voce sottile, ringraziò. Giuliano, da parte sua, per sviare i pensieri su argomenti più leggeri, continuò il racconto della mattinata: «Ci siam levati di buon'ora, il sole non era ancora sorto. Ci siam radunati in piazza del Duomo, quindi siamo usciti, appena s'è potuto, dalle mura, ognuno col suo coltello, e abbiamo fatto razzia di rami. C'era Dionigi, e Sismondo, Luigi, Braccio...»

«Braccio?» sussurrò Clarice, suo malgrado udita. E subito aggiunse: «Non è ammogliato, Braccio?»

«Sì, appunto, portava il ramo a madonna Costanza», si affrettò a dire Lorenzo, prevedendo il pericoloso prosieguo del discorso. Clarice, però, insistette: «Ma m'avete detto or ora che non sta bene!»

Giuliano ammiccò: «Madonna, a Calendimaggio s'è tutti un po' folli, come a Carnasciale».

«Voi mi fate preoccupare», scherzò lei, ma il suo sorriso aveva ora un che di nervoso, di teso. «Madonna Costanza sarà disonorata, se suo marito offre impudente fiori a un'altra... No?»

«Disonorata? No, non direi. È un gioco, madonna, a noi ci garba corteggiare le belle dame», e nel dir così Giuliano diede un colpetto di gomito al braccio del fratello maggiore, che ristette a fissarlo serissimo. «Che? Che c'è?» balbettò infatti il ragazzo, accorgendosi troppo tardi di non avere complici. Lorenzo sbuffò e scosse la testa con fare di disapprovazione; bastò una rapida occhiata alla propria sinistra per capire che Clarice, già stuzzicata dalle parole di Linora, tempo addietro, era sospettosa di lui. Stringeva un brandello di focaccia in una mano ed esitava a portarlo alle labbra, che gli parvero livide, mentre si mordeva la guancia sdegnosa.

«Avete partecipato anche voi al gioco?»

Ecco che tornava l'austera aristocratica venuta da Roma, la forestiera che non voleva accostumarsi agli usi della città adottiva. Quei suoi occhi verdi erano gli occhi di Medusa: pietrificavano. Perciò Lorenzo non li volle incontrare e, con lo sguardo basso, raccogliendo l'intingolo dal piatto con un pezzo di crosta di pane sciapo, disse: «Lo sai già, credo».

Clarice aggrottò anche le fini sopracciglia rossicce. «A chi l'avete appiccato, il ramo?»

«Mmh.»

«Se non me lo direte voi, me lo dirà Giuliano», minacciò, girando lo sguardo al cognato che aveva davanti. Anche Giuliano, però, se ne stette con la bocca chiusa, questa volta, dato che si prefigurava una solenne punizione per quel poco che gli era già sfuggito per imprudenza e ingenuità.

A chiudere lo spiacevole inconveniente ci pensò, come sempre, la mamma. Con voce secca pronunciò chiaro: «Ardinghelli, vero?»

«Mmh-mmh», annuì il figlio, furente. «Ma voi lo sapete che l'ho fatto per amor di maniera, e non perché io ci abbia qualcosa con lei...»

«Sarà anche, ma tu sei sposato, e lei è sposata. Piantala, contentati di scrivere poesie. La gente parla e le chiacchiere non ci fanno bene. Clarice,» riprese poi, assumendo un tono più morbido, «non avete da angustiarvi per questo gioco, come dicono loro: il figliolo mio ha sogni da poeta in testa e sono anni, ormai, che scrive della fanciulla per seguire la tradizione dell'amor cortese.»

Lungi dall'essere convinta dell'onestà di certe consuetudini, ma nemmeno disposta a contraddire la suocera, Clarice prese un profondo respiro, si sforzò di tranquillizzarsi, schiuse i pugni che nel frattempo aveva serrato. Avrebbe voluto chiedergli conferma, ma le sembrò indelicato farlo di fronte ai parenti. Si limitò a uno scambio di sguardi carichi di parole non dette; si intesero nel reciproco silenzio e poi si volsero altrove.

Al loro arrivo, Gentile Becchi e Matteo Franco trovarono una gelida mensa e si ingegnarono di ravvivarla come poterono, con qualche scarso risultato.

La questione, si capisce, non era chiusa. I giorni a Cafaggiolo si assestarono su un equilibrio precario, che tuttavia resse quanto necessario. Il ritorno a Firenze, colpevole la vicinanza della rivale, riaccese nel cuore di Clarice la più schietta gelosia che avesse mai provato. Decise di adottare una tattica paziente: cominciò, con finto disinteresse, a domandare di più sull'attività poetica di suo marito, badando bene di non farsi mai scoprire da lui mentre ne parlava. Chiese qualcosa a un suo segretario, qualcos'altro a una serva, senza mai nominare l'Ardinghelli. Prima di allora aveva sentito parlare di quella coppia in cui il marito era spesso assente per affari di mercatanzia, ma non aveva mai fatto attenzione e ora se ne pentiva, perché altrimenti si sarebbe risparmiata una buona parte delle indagini: tutto era più difficile, adesso, con la famiglia che si premurava di non accennarvi più.

Un pomeriggio, mentre oziava in giardino, scorse una figura conosciuta venirle incontro. Era Luigi Pulci, che veniva a salutare prima di prendere la via del Mugello, dove si sarebbe trattenuto alcuni giorni. Le venne incontro, dunque, e, col suo permesso, le sedette accanto.

«Oh, madonna, come vi siete fatta grossa!» fu la prima cosa che disse. Lei, sorridente, replicò: «Messere, voi esagerate! Non sono che al sesto mese, se le levatrici hanno ragione».

«Perdonatemi se affretto, ma non vedo l'ora di conoscere il frutto del vostro grembo, madonna mia! Se vi somiglia, e speriamo di sì, sarà un bel fantolino.»

«Non dovrebbe somigliarmi, secondo voi?» lanciò l'esca con quel pretesto. Pulci non comprese. «A chi dovrebbe somigliare?»

«Non è opinione che, se nella mente del marito c'è un'altra donna, il bambino che concepisce somiglierà a quella invece che alla madre?» domandò, come per scherzo.

Luigi Pulci afferrò qualche accento inquietante nelle sue parole e insistette: «E quale donna potrebbe prendere il posto vostro nella mente di Lorenzo? Parola mia, non avete da invidiare a nessun'altra donna!»

«Nemmeno a una certa Ardinghelli?» sussurrò, mettendolo stavolta alle strette. Egli rimase di stucco, non pensando più che lei sapesse. Impallidì un poco sulle gote e balbettò: «Alla Lucrezia? De', non dite così! Bella è bella, questo non si può tacere... Ma...»

«Ma...?»

«Via, Lorenzo le ha portato un rametto che non era nemmeno metà del vostro, e l'ha fatto per una questione di poesia.»

Clarice alzò un sopracciglio. «E il medesimo vale per la giostra dell'anno passato, presumo. Sì, lo so che s'è battuto per lei quella volta; e anche allora Francesco Tornabuoni m'aveva detto che era cosa da nulla... Ditemi come può essere una cosa da nulla se prosegue da anni!»

Pulci si alzò in piedi, come a disfarsi di un peso che gli gravava addosso. «Se volete sapere se abbia mai avuto commercio con lei, vi dico di no. Tante belle parole e bei concetti, ma non s'è mai spinto più in là del consentito. E ad Ardinghelli sta bene così, perché alla fine è stato Lorenzo a combinargli il matrimonio con la donna più bella di Firenze, nonostante lui fosse esiliato, e sempre per quel matrimonio l'ha fatto ritornare da Costantinopoli. Se qualcuno qui è soddisfatto del matrimonio, quello è l'Ardinghelli, e sappiate che non ha da temere della fedeltà di sua moglie come voi non avete da temere di vostro marito.»

Clarice tacque un momento, poi riconobbe: «Se lo dite voi, che avete in così piccolo conto il vincolo e la religione, allora vi credo. Tuttavia io sono gelosa di lui, vorrei incontrare questa donna. Potrei incontrarla?»
«Madonna, voi giocate con il fuoco! Ché a lui non gli garba punto che noialtri si metta il naso nelle sue cose...» temporeggiò Pulci, aprendo le braccia. Alla giovane saltò la mosca al naso e: «Suvvia, è mio marito! Le cose sue son pure mie: voi partite domani, vero? Bene, dunque potreste andare ad arrangiare un colloquio, una visita?»

«Adesso? Ma prima devo...»

«Oh, messer Luigi, non mi rattristate...»

*

La mattina seguente, Lorenzo aveva in mente di organizzare una nuova gita in campagna per la caccia con il falcone. Ne aveva una gran voglia e, giacché si era ormai al cominciare di giugno, meglio approfittare di ogni momento libero prima della nascita del bambino. Rientrò da un giro in piazza dei Priori pronto ad annunciare le proprie intenzioni e a distribuire incarichi tra i servi, quando si trovò di fronte a un quadretto alquanto inquietante.

C'era Clarice seduta sul letto della camera a pianterreno, la finestra spalancata e le tende vagamente accarezzate dalla brezza estiva carica di profumi; aveva tra le mani alcuni fogli di carta spiegazzati a guisa di lettera e li scorreva uno per uno con aria davvero interessata. Ma fu il resto a scuotere profondamente l'animo di Lorenzo: Lucrezia Donati Ardinghelli sedeva infatti accanto a sua moglie e le indicava ora qui ora là.

Fece fatica a trovare la voce per salutare. «Madonna Ardinghelli, qual buon vento?»

Non aveva timore di averla ospite in casa propria; aveva timore piuttosto del motivo che l'aveva condotta lì senza alcun preavviso. Lucrezia Donati aveva ventitré anni ed era ormai una donna florida, nonostante la sua unione non fosse stata ancora benedetta dall'arrivo di un figliolo. A quanto si diceva, però, il marito non difettava in nulla, al contrario era comune opinione che fosse stato baciato da sorte benigna. Lucrezia, dalla sua, mostrava un aspetto e un contegno così tranquilli da confermare in modo naturale quelle voci. I figlioli sarebbero venuti al momento opportuno.

Dunque, quando Lorenzo entrò, le giovani sollevarono il capo e lo guardarono fisso con un sorrisetto birichino. «Messer Lorenzo,» ribatté l'ospite inattesa, anticipando le sue prevedibili domande, «la moglie vostra m'ha sì caramente invitata che non avrei potuto rifiutare una visita. E aveva ben ragione, ché io stessa avrei voluto incontrarla, ma non ardivo di chiedere tanto.»

«Mi rallegro con la moglie mia, allora, per così felice intuizione», concluse lui, fattosi attento e guardingo. Ora che pensava di averla scampata, ecco che la rosa degli Orsini lo pungeva di nuovo: aveva poi una certa aria di vittoria sul viso paffutello che lo chiamava a stropicciarne teneramente le guance, ma si trattenne con lo scopo di comprendere quale sarebbe stato il prossimo tiro mancino.

«Che avete lì? Che leggete?» domandò alzando appena l'indice destro. Clarice gli tese un foglio dicendo: «Guardate un poco se lo riconoscete...»

Il testo, scritto nella sua inconfondibile grafia veloce e spigolosa, principiava:

I miei vaghi pensieri ad ora ad ora
parlano insieme della donna mia
sí dolcemente, che il mio cor si svia
per girne a lei e di poi l'alma ancora.

Lorenzo lo lesse per intero due volte, poi rispose a mezza voce: «L'ho scritto a Napoli, mi pare...»

Clarice affilò lo sguardo. «E chi sarebbe la donna in questione? Madonna Ardinghelli oppure io? Non riusciamo proprio a venirne a capo!»

Preso tra l'incudine e il martello, Lorenzo si pentì di essere rientrato proprio allora, e passando per il cortile senza salire immediatamente al primo piano. L'istinto gli suggeriva di prendere la via della porta e sfuggire al supplizio, ma sarebbe stato davvero poco onorevole per lui; siccome, inoltre, non aveva nulla di veramente serio da rimproverarsi, decise di affrontare l'argomento e chiudere la questione una volta per tutte, come aveva fatto con la tradizione del Calendimaggio.

«Madonna, mia consorte adorata,» la vezzeggiò, prendendole la mano e accarezzandola soavemente, «per quanto il ricordo di voi fosse fisso negli occhi della mia mente, vi farei torto a dire che quella donna eravate voi. E mentirei pure dicendo che fosse madonna Ardinghelli, per quanto potrebbe sembrare così. Se però dovessi dire a chi più inclinasse la mia anima allora, dovrei dire con onestà che inclinata verso costei; e non lo dico con villania, ma appunto con onestà, sicché voi sappiate di potervi fidare se vi dico che la canzone che ho composto pochi giorni or sono l'ho dedicata tutta a voi.»

Vide gli occhi di lei colorarsi di tanti toni quanti erano i sentimenti che le sue parole suscitavano: rabbia, delusione, poi speranza e infine curiosità. Fu lui, adesso, a sfoggiare un sorrisetto malizioso, ammiccando ora all'una e ora all'altra. Pendevano dalle sue labbra, sebbene entrambe abbastanza orgogliose da non farlo trasparire spudoratamente.

«De', non è bene che io vi disturbi nelle vostre letture, gli affari mi traggono da sì bella compagnia...» disse, facendo per voltarsi.

La voce di sua moglie, velata di disappunto, lo riprese: «E ci lasciate così sospese? Com'è dunque questa canzone?»

«Oh, mi pare meglio cantarla stasera, tra noi e noi...»

«Perché mai? Ho piacere che la cantiate ora...»

«E sia, dunque, ma venite più vicina, ch'io vi possa insegnare come si balla.»

E Clarice subito, benché rotonda, avanzò verso di lui, gli diede la mano e, fissandolo negli occhi, gli fece cenno di cominciare.

«In mezzo d'una valle è un boschetto
con una fonte piena di diletto.
Di questa fonte surgon sí dolci acque,
che chi ne gusta un tratto, altro non chiede:
io fui degno gustarne, e sí mi piacque,
ch'altro non penso poi, per la mia fede:
questa dolcezza ogni altro dolce eccede,
pur ch'altri sia a tanto bene eletto.»

Nel cantare il motivetto, mosse prima un passo a destra, poi a sinistra, una giravolta e infine, con un inchino particolarmente profondo, si piegò di fronte alla moglie facendo il verso alle danze cortigiane. Non distolse per questo lo sguardo dal viso di lei, godendo nel vederlo tendere sempre di più al rosso della sua pudica vergogna. Certo non le sfuggiva più il nesso con quanto era accaduto tra loro pochi giorni or sono, nel segreto della loro camera da letto, e udire la faccenda messa in rima con un doppio senso facilmente interpretabile la colse del tutto alla sprovvista.

«Volete che vada avanti con la prossima strofa?» la pungolò divertito.

«No, no, basta così! Ho inteso abbastanza», tagliò corto ritirando la mano. Credeva, Lorenzo, di aver chiuso la discussione con quella stoccata, e stavolta era proprio indirizzato all'uscita da vincitore quando, di nuovo, Clarice lo trattenne. Gli si accostò, mentre Lucrezia si dirigeva all'opposto verso la finestra che dava sul giardino, per non origliare la loro conversazione. Per abbondare in prudenza, la Romana si aggrappò languida al suo braccio e sussurrò all'orecchio: «Siccome v'è tanto piaciuta quella fonte, vi condanno per la vostra impertinenza a farvi ritorno a mio dispetto, ogni volta che io vorrò. Così imparerete a non mettermi più in imbarazzo!»

Contenti, in fin dei conti, tutti e due, si congedarono. E contenti furono di rivedersi soli quella notte.

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