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XVIII

3 dicembre

Piero era tornato dalla campagna, riposava in una sala del palazzo di Via Larga vegliato, ancora una volta, dalle donne della famiglia: era l'ultima occasione, l'ultimo modo per loro di essergli vicine. Anche Contessina, sua madre, gli stava accanto e pregava con la rassegnazione di colei che ha visto morire tanti cari troppo presto.

Aspettarono la sera con angoscia, le donne, perché per loro l'addio sarebbe giunto prima: quando vennero a prenderlo per portarlo nella basilica di San Lorenzo, dove l'attendevano il padre Cosimo e il fratello Giovanni, esse sapevano che solo gli uomini l'avrebbero accompagnato. Il funerale era precluso alla partecipazione femminile e l'unica eccezione si era fatta proprio per madonna Contessina cinque anni addietro. Ella aveva sì potuto assistere alle esequie del marito, a patto che restasse da un canto, bardata di nero al punto di essere irriconoscibile.

La bara, avvolta in uno scuro panno di tela grezza, e non nel drappo con le insegne del re di Francia come quest'ultimo avrebbe desiderato, si mosse lentamente su un semplice carro e compì il breve tragitto verso la meta definitiva. Davanti i chierici della basilica, guidati dai cerimonieri con cantari e torce; dietro gli ambasciatori di Milano, Napoli e Francia. Dietro ancora, i due figli maschi, e accanto quegli zii e cognati che sarebbero stati il loro sostegno nella tempesta. La funzione fu sobria, com'era stato disposto dal defunto, perché anche nella morte i Medici dovevano apparire cittadini come gli altri; alla fine, la sepoltura nell'urna che già conteneva i resti di Giovanni.

Tutto era compiuto. E Lorenzo fu visto uscire dalla chiesa con una mano premuta sul viso e lacrime copiose sulle guance.

4 dicembre

Aveva trascorso la notte insonne; la mattina, uggiosa come si conviene a quel periodo che sfuma l'autunno nell'inverno, scoprì Lorenzo seduto a letto, spalle alla testiera, mani incrociate sul grembo. Clarice, coricata sul fianco, era riuscita ad addormentarsi poco prima e lui l'aveva capito perché, d'un tratto, aveva smesso di girarsi e rigirarsi senza posa.

Aveva troppi pensieri per poter fare lo stesso: il banco da mandare avanti, lettere da scrivere e spedire il più velocemente possibile. E la politica, dannata e benedetta politica, lo attendeva: la notizia della morte di suo padre andava comunicata ufficialmente agli alleati, primo tra tutti lo Sforza, che certo era già stato informato di tutto, per filo e per segno, dal fedele Sagramoro.

E quell'altra questione, che mescolava politica, affari e famiglia in un intruglio di passioni e interessi: Tommaso Soderini aveva ottenuto dall'assemblea quel che voleva, e ora si trattava di chiudere platealmente l'accordo e raggranellare, si auspicava, il sostegno di coloro che stavano ancora in dubbio.

Spinto da tali considerazioni, Lorenzo si convinse che fosse meglio alzarsi. Batté lievemente le mani sul materasso, come a darsi la spinta, e tanto bastò a rompere il sonno leggerissimo di Clarice, che sobbalzò e si volse dalla sua parte. Non parlò: si limitò a guardarlo mentre indossava la camicia e le calzebrache, mentre si gettava una mantella sulle spalle e si avvicinava al camino per accendere il fuoco. Non c'era bisogno che esternasse con lei il peso dei suoi mille e più pensieri; benché fosse poco al corrente dei turbini che agitavano le acque attorno a loro, intuiva con sensibilità femminile quale fosse il modo di trattare con suo marito in quel frangente. Tacque, e mentre taceva pregava per lui, e con gli occhi gli comunicava il suo appoggio incondizionato. Aveva paura, dopotutto, e percepiva dentro di sé novità che non avrebbe saputo mettere in parole, non ancora, e desiderava protezione, per sé, ma non solo.

Lorenzo, intanto, si rinfrescò il viso attingendo da una scodella di porcellana e si rivestì d'abiti puliti, neri come si conveniva, si pettinò e uscì. Prima di uscire, però, sussurrò nella semioscurità: «Dormi, Clarice».

Per prima cosa si recò allo scrittoio, che si trovava in una stanzetta attigua a quelle che erano state le camere di suo padre e che, tempo qualche giorno, sarebbero diventate le sue. Mandò a chiamare i due segretari ser Piero e ser Bernardo e attese con impazienza di vederseli accanto. Alla loro venuta, a un orario insolitamente mattiniero, concertarono il tenore e i modi delle lettere ufficiali, che Lorenzo si impegnò a trascrivere personalmente. Quindi una piccola colazione, per rifocillarsi, e poi di nuovo al lavoro, stavolta sui libri contabili di cui il nuovo capofamiglia si intendeva poco e male, e che quindi richiedevano la mediazione di professionisti del mestiere dei numeri.

All'ora di pranzo, Lorenzo credeva d'aver già consumato il giorno intero e sulla sua faccia non si leggeva altro che stanchezza. Ciononostante, le circostanze imponevano azioni decise e pianificate, non c'era spazio per nessuna forma di debolezza, che fosse fisica o mentale.

Tommaso Soderini, come ci si aspettava, si fece annunciare a metà pomeriggio, quando il sole inclinava già al tramonto. Ammantato di malizia e ambizione, Soderini varcò la soglia della sala grande dell'ormai fu Piero de Medici e si trovò di fronte un giovane uomo e un ragazzo ancora imberbe, coi visi duri, sorrisi spenti e occhi diffidenti. Giuliano, soprattutto, tradiva nella postura e nello sguardo una certa tensione, mentre Lorenzo, già navigato nell'arte della dissimulazione, mostrava un'espressione tutto sommato pacifica.

Sarebbe stato il Soderini, in qualità di portavoce, a parlare per la delegazione di maggiorenti cittadini che l'aveva accompagnato fin dentro il palazzo. Alcuni di quei maggiorenti avevano figurato anche all'assemblea di due giorni prima, che si era infine tenuta presso il convento di Sant'Antonio e non nella saletta affittata appositamente per ospitarla. Lorenzo aveva già ricevuto ogni ragguaglio da diverse voci ed era soddisfatto di quanto s'era detto a suo riguardo; non aveva perciò alcun motivo di presentarsi sulla difensiva.

«Messer Medici, messer Giuliano,» esordì lo zio Tommaso con un cenno del capo, «il caso vostro è tanto doloroso per l'aver perduto la guida di vostro padre in un'età ancora fresca. È invero cosa che muove i cuori a compassione della famiglia e merita il pianto che si spande per queste mura e al di là di esse. Il Magnifico Piero fu grande uomo per saggezza e prudenza, e nelle cose pubbliche e nelle private di tanto senno che pochi potrebbero eguagliarlo. Buon cristiano, gagliardo nello spirito in sopportare il male che lo consumava, sposo e padre d'esempio per gli sposi e i padri di tutta la città. La scomparsa d'un tale autorevole uomo colpisce la Repubblica quand'ella è vulnerabile e viene a danno di ciascuno, sicché vi confortiamo a ritenerci tutti vostri congiunti nel dolore della sua prematura morte.»

Giuliano, giovane e sensibile d'animo, si lasciò scappare un singhiozzo e una lacrima; Lorenzo, stringendogli una mano, trattenne le proprie stesse emozioni e rispose, la voce piana benché un po' fioca: «Accogliamo le parole vostre con gratitudine, messer Soderini, perché ci ricordano i moniti che il padre nostro, morendo, ci diede con grande cristiana pietà. Egli sapeva di lasciarci ancor troppo freschi agnelli in un mondo di lupi e confidava nel sostegno degli amici, e in ciò non fallava. Vediamo che il dolore vostro è sincero e lo accettiamo quale prova di quell'amicizia antica, che oggi, credete, in noi si rinnova».

Dovette riprendere fiato, poiché la voce cominciava allora a tremargli. Avrebbe voluto aggiungere altre considerazioni, ma evidentemente il Soderini non amava i fronzoli non necessari e colse l'occasione per procedere con le proprie istanze. «Figlioli, che tali per me siete, quel che il Signore stabilisce non è dato agli uomini di comprendere, e così è la morte del Magnifico Piero. V'è però cosa che l'uomo può governare. E voi, Lorenzo, benché vi professiate a ragione fresco d'età, noi veniamo a confortarvi d'assumere la cura della città e dello stato come fecero prima di voi Piero e Cosimo vostro avolo, e sull'esempio loro costumarvi. »

Un momento di silenzio; Lorenzo chinò la testa con fare pensieroso e si sfiorò il mento con due dita, gli occhi piccoli e acuminati. Giuliano rimase zitto, in disparte per quanto fosse al fianco del fratello, improvvisamente escluso dal discorso, e forse non troppo dispiaciuto che così fosse.

«Messeri,» esordì Lorenzo, «non ho ancora ventuno anni, e voi mi state chiedendo di prendere una responsabilità che mio padre e mio avolo sopportarono a malapena in età matura.»

Giuliano, non visto, storse il naso a quelle parole. Perché tergiversava, quando per tutta la mattina non aveva fatto che comportarsi come un re appena salito al trono? Stette al suo posto, aguzzò l'udito quasi volesse percepire i palpiti dei cuori dei presenti per intuire quali fossero i loro sentimenti di fronte a tanta modestia. Le facce, però, bastavano a comunicare un certo spaesamento.

«Messere, noi confidiamo che lo farete», insistette Soderini, colto pure lui alla sprovvista. Lorenzo rialzò il capo ritto e obiettò: «Ciò che mi chiedete è cosa di grande carico e pericolosa; avrò grattacapi nel futuro per campare negli affari che il padre mio aveva in bottega e a questo la mia mente sarà intenta, acciocché io possa conservare le ricchezze».

«Ebbene sì, messere, è pesante e pericoloso reggere uno stato, ma lo è pure, non avendo lo stato, conservare le ricchezze, e non conservando le ricchezze si perde la reputazione», intervenne un uomo nel numero di quelli. Gli occhi di Lorenzo brillarono, quasi che con una battuta i suoi intenti fossero mutati. Giuliano badò bene a cogliere quei segnali di ambizione, moltopiù ingenua di quella dello zio, che di tanto in tanto riluceva nell'atteggiamento del fratello maggiore. Era una pecca di carattere dovuta all'ambiente in cui era cresciuto, al ruolo per cui era stato preparato: Lorenzo era fermamente convinto di volere ciò per cui era nato, di meritarselo o di averlo di diritto, come fosse un principe di sangue. Un difetto davvero imbarazzante per il figlio di un ricco mercante, per non dire scambiatore d'oro, per colui che discendeva da venditori di lana e contadini del Mugello; era l'arroganza che si perdona facilmente a chi si conquista il potere con le armi, ma non a chi se lo compra col denaro.

«Accetterò, dunque», concluse l'interpellato, con tono grave; la delegazione tirò un sospiro di sollievo. Era probabile che più d'uno contasse su quella dimostrazione di fedeltà per prosperare nell'avvenire, e un diniego del Medici, se confermato, avrebbe guastato più di un rapporto. Lorenzo non aveva mai avuto intenzione di infrangere alleanze interne che gli erano tanto preziose quanto quelle esterne. Così, tra strette di mano, baci sulle guance e pacche sulle giovani spalle, i due fratelli congedarono i maggiorenti e, vedendoli lasciare il palazzo affacciati alla finestra che dava sulla via principale, provarono un comune senso di liberazione.

Lorenzo non perse tempo e, richiamando il minore con un colpetto affettuoso alla nuca, gli disse: «Suvvia, che c'è da arrangiare tante cose e sbrigare più faccende che tu non credi». E, come se con quella frase volesse attirarsele, le faccende misero il naso nella sala proprio allora. Lo rimisero nella figura dell'onnipresente Sagramoro che, volendo seguire da vicino le macchinazioni fiorentine per riferirne i punti salienti al duca Galeazzo, aveva chiesto e ottenuto un colloquio.

Giuliano sarebbe voluto restare anche per questo abboccamento, ma Lorenzo fu irremovibile. Il ragazzo ebbe poco da protestare e, indispettito dal trattamento, uscì e chiuse la porta. Per poco non si scontrò con Lisabetta, la giovane serva romana della cognata, che stava aiutando a trasferire gli abiti di madonna Lucrezia dall'antica camera coniugale a un ripostiglio. «Oh, messere, perdonateme, perdonateme de core, ché co' 'sta pigna de vesti e panni 'un v'avevo visto!»

«Non fa nulla, Lisabé, ché me ne stavo andando a far un giro per la città, giacché mio fratello mi scaccia dalle cose importanti.»

«Oh, messer mio, pigliate allora 'ste robbe de la matre vostra e dateme 'na mano, che siete sì gentile voi!» disse questa, e consegnò il proprio fardello alle braccia ben più robuste del Medici senza che egli potesse sottrarsi all'incarico. Così, uno accanto all'altra, percorsero il corridoio che dava sul cortile di Michelozzo. Cadeva una leggera pioggerella che velava appena la vista, e il cielo era tra il grigio e il bianco, senza chiaroscuri, uniforme e morbido come la bambagia. Giuliano mandò un paio di occhiate all'esterno, sbuffando, e Lisabetta si mise a canticchiare una nenia romana a mezza voce. Arrivati alla meta, la serva prese uno ad uno i panni ripiegati e li sistemò in cassoni con ordine impeccabile. Poi, tra una cosa e l'altra, ella considerò tra sé: «Quella malafemmina 'un s'è più fatta vedè in giro! E pure madonna tarda a ingrossarsi, ma posso giurà che finché non è stato Avvento non hanno mancato al loro dovere una sola notte! Ce scommetto la testa che è per cagione della strega!»

Che il suo intento fosse rinnovare le accuse che Cammilla propinava ad ogni occasione contro la donna di San Martino, come la chiamava lei, o distrarre il ragazzo dal lutto opprimente, fatto sta che Giuliano rise di gusto e, borbottando, ribatté: «Ma che strega! Se mai è mio fratello lo stregone...»

«Avete detto qualche cosa, ser Giuliano?»

«No, no! Anzi, se volete, io lo so dove sta di casa quella femmina», disse, sottovalutando la caparbietà delle donne, e massime delle serve. Difatti, Lisabetta si drizzò immediatamente, tese tutti i muscoli e ripeté: «Voi sapete dove sta?»

«Si capisce! Sta alla locanda della Baldracca, giù al rione di Santa Croce.»

«E magari l'avete conosciuta pure, 'sta sgualdrina di pessima lega!»

Giuliano sfoggiò un gran sorriso. «Me ne guardo! Non frequento certi postacci», rispose, e aggiunse a bassa voce: «Non ancora...». Lisabetta, che non poté udirlo, approvò con un sonoro: «Oh!»

«Vi ci porto anche subito; voi e la Cammilla, e anche la Caterina se vuol venire. Tanto io andrò a girovagare, ché star fermo non ci riesco.»

«Vado a chiamarle!»

E quasi non fece in tempo a dirlo, che le tre Romane furono schierate, pronte alla spedizione. Andarono sotto la pioggerella, quattro figure solitarie e ammantate, per le vie semideserte della città. Nessuno o quasi li riconobbe, e chi ci riuscì si tenne alla larga: di quel passo furono in breve tra le stradine soffocanti del Lungarno e, arrivati sotto una finestra precisa, Giuliano la indicò e le serve, parlottando tra loro, gli dissero di chiamarla. Volevano avere la certezza che fosse lei.

Giuliano fu sul punto di obbedire, ma l'ombra di suo fratello lo sovrastò appena in tempo per impedirgli di fare una sciocchezza. Lorenzo, a dire il vero, non aveva ancora lasciato la sala grande e, d'altro canto, non era dotato del dono dell'ubiquità: semplicemente, Giuliano lo teneva per punto di riferimento e la sua coscienza lo richiamò all'ordine con la suggestione. «Non conviene, non adesso!» spiegò. «Se mi faccio sentire, la gente penserà che sia venuto a divertirmi, e non si conviene...»

Cammilla, accantonando malvolentieri la curiosità, gli diede ragione. «Ben detto, magnifico Giuliano. Ben detto. Dopotutto una tale sgualdrina non si merita tante attenzioni di persone oneste!»

La passeggiata riprese silenziosa, il giovanotto in testa e le donne dietro. E approfittandone, Lisabetta ebbe tutto l'agio di sussurrare alle comari: «Appena le cose se sistemano, gliela famo vedè noi a quella!»

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