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XVII

1° dicembre 1469

«Piero sta morendo, non si può esitare oltre.»

«Lo so, zio.»

Lorenzo aveva lo sguardo basso, le mani giunte e la voce stanca. Il crepitio del fuoco lo pizzicava, il suo calore lo percuoteva in viso, sulla guancia destra, quella rivolta al camino, ma faceva finta di nulla; o forse, davvero, non percepiva alcunché.

Lo zio che gli parlava, seduto di fronte a lui, era Tommaso Soderini. Tommaso Soderini era un uomo assai maturo, sessantacinque anni sulle spalle, innumerevoli incarichi ricoperti con successo e una rigorosa, sebbene non disinteressata, fedeltà al cognato Piero de Medici. Aveva sposato Dianora Tornabuoni, sorella di Lucrezia, e, per quanto ella fosse perita sotto l'infierire della malaria presso Pisa e lui avesse contratto nuove nozze, restava un famigliare di casa Medici, un personaggio di tutto rispetto e di grande autorevolezza.

«Dunque comprendi che è giunto il momento di radunare la brigata e la clientela per assicurarci del loro appoggio.»

«Sì», annuì esausto Lorenzo, quindi tese la mano a un tavolino e raccolse una coppa quasi con riluttanza, la portò alle labbra e sorseggiò un poco di vino. Tommaso lo scrutò; l'impazienza viziava il suo sguardo, conferendogli un aspetto di biasimo e di rimprovero. Perciò il nipote raramente contraccambiava le sue occhiate.

«Oggi, al più tardi domani. Anzi, domani sarà meglio. Oggi manderò messi ad avvisare ognuno. Ho affittato una sala nel vicolo dei macellai, dove nessuno verrà a ficcanasare. Non è necessario che tu venga; tu resterai qui, accanto a tuo padre, come si conviene.»

«Non ho mai pensato di lasciare Careggi prima che...» replicò, irritato dal tono di comando che gli veniva usato, a suo parere, ingiustamente. Nonostante il dolore lo affliggesse, sentiva di essere perfettamente in grado di condurre i propri affari; ma lo zio Tommaso aveva un peso diverso dal suo tra i sostenitori della famiglia, perciò era opportuno tenerselo stretto e sorvegliarlo senza che se ne avvedesse. Com'era da immaginare, Tommaso lavorava prima di tutto per se stesso e il fatto che avesse affittato la sala della riunione senza consultare né Piero né suo figlio tradiva un intento egoistico dietro al pretesto di voler essere d'aiuto a una difficile successione. Lorenzo, perciò, decise di sbrigarsi rapidamente, e concluse: «Domani sera andrà bene. Voglio essere informato dell'esito dell'assemblea, non m'importa se sarà notte fonda. Mandate un messo e, prima di proseguire, attendete la mia risposta».

«Sarà fatto; bada a tua madre, per ora. E manda per me quando sarà il momento.»

Non c'era altro da dire e nessuna delle due parti aveva intenzione di dilungarsi in chiacchere inutili; la conversazione era stata essenziale, senza fronzoli, come si addiceva al contesto funereo che aleggiava per tutta la villa di Careggi. Tommaso si alzò, prese il mantello e se lo mise addosso con un movimento lento e solenne, poi uscì seguito da alcuni uomini di sua fiducia.

Lorenzo attese qualche istante, giusto per essere certo di non provocare equivoci spiacevoli, quindi guardò un servo e gli disse: «Fallo entrare».

All'ordine seguì in fretta l'esecuzione: la porta si aprì nuovamente e, questa volta, entrò un uomo più o meno coetaneo di quello appena partito, ma con tutt'altra grinta. Era una persona affabile, di solito, e la circostanza gli ombrava un po' il viso. Lorenzo, vedendolo così, sentì rinnovarsi il groppo in gola che lo coglieva ogni qual volta entrava nella camera dove il padre languiva.

«Messer Domenico,» lo accolse alzandosi, «vi prego, sedete qui.»

Forse lo commuoveva tanto il fatto che Domenico Martelli fosse il padre del suo carissimo Braccio; ma non era per questa ragione che l'aveva convocato in fretta e furia, cosa di cui si scusò immediatamente. «Mio zio Tommaso», spiegò, «prepara un'assemblea dei nostri partigiani. È sicuro che vi vorrà presente. Ebbene, voglio che vi andiate e parliate per me.»

L'anziano uomo sbigottì a quella richiesta. «Magnifico Lorenzo, che mi chiedete voi?»

«Mio zio non è quella persona cui affiderei la mia vita, messer Domenico. Non gli affiderei nemmeno un'ambasciata al mio fattore in Mugello se non avessi la certezza che sia accompagnato da persone più accorte e meno infide di lui. Quello sarebbe capace di rubarmi le uova dal pollaio e di far credere d'averlo fatto per il mio bene.»

Domenico, tuttavia, scosse la testa. «Usate parole troppo dure per l'uomo che, probabilmente, salverà lo stato vostro e il potere.»

Lorenzo era pronto a ribattere, ma un lieve bussare lo interruppe. Preso da un subitaneo timore, balzò in piedi e incontrò la timida figura di Clarice sulla soglia, poggiata languidamente allo stipite con entrambe le mani; era molto pallida e il contrasto con la pellanda color morello lo metteva ancor più in risalto.

«Lui è...?» balbettò, sentendosi freddo in tutta la persona. La vide negare piano, gli occhi fissi sull'ospite che non si aspettava di vedere. «No», confermò a voce. «Ma venite, Lorenzo, è notte ormai e dovete riposare...»

«Non ne ho bisogno, ma tu va'. Nelle tue condizioni non dovresti stare in piedi.»

Una mano si staccò dallo stipite e scivolò sul grembo, lo accarezzò e risalì alle labbra livide che piegavano inesorabilmente in giù. Gli occhi, invece, puntarono dritti agli occhi di lui e non vacillarono. «Vi prego, dovete riposare...», ripeté; poi, per convincerlo, aggiunse: «Non mi addormenterò se non sarete accanto a me».

Domenico Martelli, inteso il compito che gli era affidato, si alzò a propria volta e, richiamando l'attenzione del Medici, disse: «Madonna ha ragione. Avete una pessima cera e la situazione richiede lucidità; qualche ora di sonno vi farà bene. Io per me so cos'avete a cuore e parlerò per voi, come m'avete chiesto».

E Lorenzo non tentò nemmeno di opporre un diniego: Domenico salutò e prese la propria strada, pronto a fare del proprio meglio. Clarice, dal suo posto, attese silenziosa che il marito la raggiungesse, quindi si fece prendere a braccetto. Benché avesse cento, mille cose da dire, e tutta l'abilità per farlo, Lorenzo restò muto per un buon tratto di strada e camminò strascicando i piedi, come andasse di malavoglia e portato a forza da quel figurino di donna che gli stava accanto. Faceva freddo, era dopotutto dicembre e l'inverno, se non poteva dirsi arrivato, s'apprestava a invadere la campagna con la brina e le lunghe notti di nevicate.

E proprio in quel punto dell'anno in cui tutto sembra morire, anche Piero moriva. Era dato per certo, ormai, che dall'ennesima crisi non si sarebbe ripreso più. Come quegli animali che, chiamati dall'istinto, avvertono vicina la propria fine e torcono il cammino verso la meta dove gli antenati avevano concluso la vita, così Piero si era fatto portare a Careggi per morire dov'era morto suo padre. Giaceva nella stessa camera sua e, per raggiungere le scale e salire al piano di sopra, Lorenzo e Clarice dovettero passarci davanti e non poterono trattenersi dall'entrare: la stanza era in penombra, poiché la minima luce arrecava enorme fastidio al moribondo: poche, dunque, le candele accese. Nessuno sapeva con precisione che ora fosse: il tempo era fermo, sospeso, e ogni stentato respiro dell'infermo toglieva fiato ai suoi parenti. Le donne, radunate tutte vicine da un canto, pregavano, ma lo facevano così sommessamente che dalle loro labbra non parevano uscire che sibili. Gli uomini, più taciturni, stavano in piedi e si scambiavano sguardi tesi.

Conoscendo prossima l'ora del trapasso, i cittadini più illustri si avvicendavano ancora nel cortile, si fermavano chi qualche minuto, chi un'ora o più, nella speranza di essere ammessi oltre la soglia della villa. Che fosse curiosità, la loro, o devozione o desiderio di vedere come si annulla un uomo assai potente, certo la loro determinazione era grande e talvolta qualcuno si scocciava di essere lasciato ad aspettare.

Solo pochi avevano ricevuto l'assenso dei parenti. Uno di questi, Sagramoro, era l'ambasciatore milanese in città, orecchi, occhi e bocca del duca Galeazzo Maria Sforza all'interno delle cerchie più alte della società fiorentina. Aveva con la famiglia Medici un rapporto molto stretto e questo lo autorizzava ad avere confidenza con i giovani, che lo guardavano come si guarderebbe un maestro o uno zio e gli indirizzavano lettere e gli domandavano consigli. Si presentò pochi istanti dopo l'arrivo di Lorenzo e vederlo nel momento della prova fu per tutta la famiglia di gran consolazione, benché bastasse rivolgere gli occhi verso il letto per perdere d'un colpo ogni speranza.

Piero era stato colpito da paralisi, a stento aveva parlato nei giorni precedenti e ora comunicava solo attraverso le tenui, quasi impercettibili strette di mano. Sagramoro gli si accostò con grande rispetto, gli prese la destra e gli rivolse qualche parola sottovoce; il moribondo aveva gli occhi sbarrati, la bocca sigillata come fosse già trapassato, ma le iridi scure guizzavano disperate. Anche a Sagramoro strinse la mano, gliela strinse più forte che poté, ma all'ambasciatore parve solo una leggera contrazione delle dita, una contrazione che avrebbe potuto attribuire alla sua misera condizione se non fosse stato per uno sguardo ai figli maschi che scrutavano in silenzio la scena. Sagramoro si volse un poco, benché sapesse chi Piero gli stesse indicando, e poi, tornato a lui, sussurrò: «Avrò cura di loro, non lascerò che accada loro alcun male».

Le labbra di Piero ebbero un tremito, poi la mano allentò la presa e Sagramoro capì che era giunto il momento di congedarsi per sempre da colui che era stato un fido alleato e un sincero amico. Fece per uscire, lasciando dietro di sé soltanto gli intimi di famiglia e conducendo via tutti gli intrusi che ancora sostavano in attesa di un'ultima macabra udienza. Lorenzo, a quel punto, si chinò all'orecchio di Clarice e bisbigliò: «Sta' qui con mia madre, io tornerò subito». Quindi, drizzati gli occhi al fratello, gli accennò di seguirlo. Gli uomini presenti, zii, generi e cognati, non sapendo a che cosa attribuire quella subitanea partita dei figli maschi, fecero loro da scorta.

Le donne ricominciarono a piangere, presaghe che non si dovessero più contare le ore, bensì i minuti. La morte apparteneva al sesso femminile, al sesso fragile per eccellenza, ma l'unico in grado di alleviare i dolori della malattia e la paura del passaggio da un mondo che si tocca ad uno in cui si può solo nutrire fede. L'essere rimaste tra loro, desolate, significava che il momento era giunto.

Morire senza confessione non si addiceva a un buon cristiano, ma Piero si trovava in quella delicata situazione per via dell'impedimento posto all'improvviso dalla debolezza del corpo e ora, attanagliato da mille timori, fremeva e sudava, arrancava e agonizzava, consumandosi sotto gli occhi della moglie, delle figlie, della nuora, delle cognate. Lucrezia, con la premura che le era propria, di quando in quando sfiorava la fronte del marito con un fazzoletto, quindi lo accarezzava, si chinava a dargli baci e intanto lo bagnava di lacrime. Maria, la figlia maggiore, la figlia illegittima, accomodava il cuscino sotto il suo capo; Bianca, sposata de' Pazzi, stringeva le mani giunte e le portava alle labbra bisbigliando ad occhi serrati; Nannina, la più giovane delle tre, stava pronta al minimo cenno per dare aiuto al bisogno.

Clarice, ora in piedi, ora inginocchiata, indecisa su quale fosse il proprio ruolo in quel triste frangente, incerta se doversi comportare come figlia devota o assumere già le responsabilità della matrona, esitava, sussurrava ordini alle serve, faceva portare acqua, faceva accendere nuove candele, tutto per dar sollievo agli afflitti. Lei, orfana di padre da qualche anno ormai, orfana di un padre andato a morire lontano, su un campo d'arme, morto forse di malattia, forse d'infezione, morto per qualche causa che alle sue orecchie non era mai arrivata, dimenticava se stessa e piangeva, gemeva, portava le mani al grembo e poi alle spalle, come ad abbracciarsi. Aveva paura anche lei, una paura diversa, una paura che sapeva di cambiamento, un cambiamento cui aveva appena appena cominciato a prepararsi.

A nessuno sembrava importare che fosse notte, forse perché all'interno della villa medicea era già notte da giorni interi. In compenso, una quiete soprannaturale li avvolse tutti nell'attesa. A Careggi, il silenzio era sempre tanto perfetto da sembrare irreale. Lorenzo, tuttavia, non intendeva disertare il padre negli ultimi attimi: un altro proposito l'aveva spinto a fuggir via di fretta dalla camera, sicuro che avrebbe fatto in tempo a tornarvi per l'addio definitivo. Camminava svelto, avanti agli altri, verso un'altra camera al pianterreno, la camera dove, da qualche giorno, teneva la corrispondenza interna ed estera. Non era un caso che, insieme a loro, si muovesse anche quel Sagramoro che poco prima aveva stretto affabilmente la mano di Piero. Il duca di Milano, dopotutto, aveva le orecchie tese a ogni notizia che arrivasse dalla città alleata, e massime dalla penna di Lorenzo e dell'ambasciatore, sicché entrambi volevano saziare la fame dello Sforza con lettere su lettere.

«Ma gli hai già scritto stamane!» brontolava infatti Giuliano, gli occhi ancora rossi e le guance rigate di lacrime. «Che s'ha tanto da dire che tu debba scrivergli ancora?»

Avrebbe preferito restare di là, presso il padre, finché sua madre non l'avesse cacciato fuori. Lorenzo scosse la testa, agitando i capelli spettinati. «Tu non capisci niente! Il babbo sta morendo, Sforza sarà la nostra salvezza.»

Una scelta difficile gli era toccata: la guerra di Rimini era giunta a un nodo decisivo, le milizie avversarie sconfitte, papa e Veneziani disposti alla pace; ma Ferrante d'Aragona re di Napoli insisteva a voler combattere ancora e ancora, fino a imporre condizioni umilianti ai nemici d'una vita. Con lo schierarsi per Milano, Lorenzo dava uno schiaffo non indifferente agli Aragonesi; certo, però, era fin troppo pretendere che un ragazzo come lui, con il peso di una successione tutt'altro che scontata sulle spalle, potesse impegnarsi per prima cosa in una guerra tanto squilibrata.

Lorenzo, dunque, sedette allo scrittoio, Giuliano da un canto e Sagramoro dall'altro, afferrò il pennino, distese il foglio di carta e, alla luce dei doppieri rettigli dai segretari, cominciò a tracciare righe fitte fitte.

«Almeno cambia un po' il succo del discorso, che pari disperato per quel che dici», si lamentò ancora il fratello minore. «Di' che lo zio Tommaso ci appoggia, di' che abbiamo dalla nostra tutti i migliori uomini di Firenze, e che non c'è d'aver paura.»

«Mentirei se lo facessi, giacché più d'uno m'ha già voltato la schiena. E Galeazzo vorrà sentire anche un po' le cose come stanno. E dello zio Tommaso, forse, è meglio non far menzione in questa circostanza, visto che allo Sforza non piace punto!»

I timori sull'ambigua figura del Soderini derivavano, stavolta, da un matrimonio, quello del figlio con una rampolla della nobiltà milanese, che aveva indispettito il duca. Perciò Lorenzo continuò a scrivere di propria mente, finché non ebbe riempito la pagina di accorati appelli al soccorso di Galeazzo, in nome dell'antica alleanza tra le loro famiglie e del sostegno che il banco Medici aveva e avrebbe sempre corrisposto ai di lui desideri.

Sagramoro annuiva mentre la ceralacca veniva fatta gocciolare sul girolo della lettera, mentre il sigillo mediceo vi imprimeva la propria impronta; quindi attese che Lorenzo annotasse sul dorso due righe scarne e porse la mano quando questi volle consegnargliela. «Col corsiero più veloce che avete, messer Sagramoro.»

«Sarà fatto. E io stesso mi profonderò con l'Illustrissimo duca a vostro favore. Prove di fedeltà come la vostra sono rare a vedersi oggigiorno.»

*

2 dicembre 1469

Clarice pendeva dalle sue labbra; aveva obbedito, e i bagagli erano pronti, aspettavano solo che i servi li montassero sulla carretta. Lorenzo, però, indugiava a indossare i panni del lutto, come l'idea di tornare a Firenze lo disgustasse.

Piero, alla fine, si era addormentato; addormentato per sempre. Lucrezia l'aveva cullato di preghiere per tutta la notte, senza mai separarsi da lui. Lucrezia l'aveva carezzato e benedetto, Lucrezia s'era accorta che il respiro si era interrotto, Lucrezia, con un singhiozzo, aveva annunciato alle donne il trapasso. Clarice aveva chinato il capo e intonato un'Ave Maria ad alta voce, cui tutte erano andate dietro, chi più chi meno convinta. Poi era stata lei, la nuova matrona, ad aprire la porta, a guardare Lorenzo negli occhi, e poi Giuliano, e poi Pierfrancesco e Giovanni e gli altri parenti, giovani e vecchi.

«Il Magnifico Piero non è più; egli è con il Signore Nostro nell'Alto dei Cieli.»

Li aveva fatti entrare per il compianto. E, voltandosi al letto, aveva considerato come il volto del suocero, scavato dall'agonia, non apparisse più sofferente, ma semplicemente sereno. Non avrebbe più dimenticato quel momento.

Lorenzo finalmente le tese la mano; tremava impercettibilmente. Lei gli si aggrappò, gli risalì il braccio, gli si strinse al fianco; lui, con atto quasi superstizioso, le accarezzò il ventre e sussultò.

«Se pur non è vero, lo sarà presto...» disse sibillina Clarice, per rinfrancarlo. Lo vide annuire: avevano fatto girar voce che fosse gravida, per sedare ogni pettegolezzo dopo l'affare di Linora, e la voce era corsa così bene e così lontano che a Roma gli Orsini s'erano lamentati di non essere stati avvisati per primi della bella notizia.

Si maravigliono che non ne diate alcuno aviso a loro, aveva scritto puntualmente Francesco Tornabuoni una settimana prima, anch'egli all'oscuro della strategia. Clarice, tuttavia, se n'era dispiaciuta per davvero e Lorenzo le aveva solennemente promesso che l'avrebbe fatta madre entro l'anno.

«Sì, lo sarà, e ne verrà fuori un bel fanciullino, e mio padre sarà fiero, fierissimo di noi», convenne lui prima di baciarla sulla fronte e sui capelli. Clarice deglutì e, sollevatagli la mano, la premette contro le proprie labbra. «Quando si potrà, dovremo accomodare la faccenda di quella donna, ché temo che per cagione sua noi dureremo fatica a concepire... E pure per il bene suo, della sua anima...» sussurrò, che a malapena poté udire lei stessa la propria voce. Lorenzo alzò un poco le spalle e la condusse con sé fuori dalla camera; subito tre paggi, scattanti, provvidero a caricarsi dei due bauli per portarli a pianterreno.

Lorenzo non dava peso all'episodio di San Martino e lei lo sapeva, gliel'aveva detto che quella miserella, Linora, non era capace di volere il male di alcuno; ciononostante, lei, da buona cristiana, temeva per le malie del diavolo, e temeva che, se anche fosse rimasta incinta, i demoni infernali le avrebbero rapito il puttino dal grembo. Così, mentre camminavano, lo tirò un poco dalla manica per strappargli un assenso, e lo ottenne, benché borbottato. Le bastava, per il momento.

Prima di partire, entrambi si volsero indietro istintivamente. Erano soli nel viaggio di ritorno, poiché Lucrezia, Giuliano e gli altri parenti avrebbero atteso che si potesse procedere al funerale. Erano soli, e la solitudine era l'unica loro compagna. Passata la nostalgia, salirono sulla carretta; Lorenzo, in verità, salì per primo di slancio, poi protese fuori la mano e, afferrata Clarice per il polso, la issò a bordo. Nel salire ella emise un singulto, poiché subito sedette e non con la grazia cui era abituata. Solo allora, solo quando si distrasse dal proprio dolore per via di un incauto movimento, si accorse che suo marito piangeva. Lo faceva sommessamente, niente di paragonabile agli strepiti e alle urla delle donne in camera; era una sofferenza composta, matura, che si addiceva a un capofamiglia. Nel giro di un battito di ciglia, lo vide diverso, diverso in tutto; lo vide più uomo, più responsabile, più saggio. Si sporse in avanti e, attenta a non perdere l'equilibrio, gli asciugò le poche lacrime che erano sfuggite al suo controllo.

«Siamo uguali, ora; siamo orfani», sussurrò, la voce tremante. Lei annuì, inghiottendo un gemito e abbassando gli occhi. Lorenzo riprese: «Che uomo era Jacopo?»

«Per quel poco che l'ho conosciuto, m'è parso una persona dabbene con i vizi comuni agli uomini d'arme», rispose semplicemente.

«E somigliava a mio padre?»

«Per nulla, si direbbe. Non ha mai avuto molta considerazione per l'arte, leggeva poco e, quanto allo scrivere... son più buona io che lui», disse ironica, strappandogli un sorrisetto velato di tristezza. «Forse è per questo che siam così diversi, per via dei nostri padri...» continuò, stringendo al collo il lembo di mantello orlato di pelliccia per scaldarsi. Lorenzo, vinto dalla tenerezza, sospirò forte, quindi si sforzò di parlare senza vacillare. «Siam diversi per tutto, ma possiamo volerci bene, anzi dobbiamo, e tanto.»

«Voi mi vorrete bene, messer Lorenzo?» lo interrogò, stavolta guardandolo fisso in viso. Non voleva suonare incredula, ma suo malgrado fu questa l'impressione che gli fece. Lui si incupì, ma fu un'ombra passeggera che gli velò il viso, una nuvola spinta immediatamente via da un alito di vento. «Sei mia moglie, Clarice, e io te ne voglio assai, di bene. E la faccenda di Linora la sbrigheremo in fretta, che ho già un proposito su di lei.»

«Non intendevo...» si scusò, chinando il capo. «Voglio dire che voi dimostrate in modo molto bizzarro il vostro affetto per me.»

«E io, che dovrei dire? T'ho chiesto di far come mia madre, di darmi del tu come lei usa... usava con mio padre. Ebbene? Mi dici sempre di no!»

«Non m'hanno cresciuta così», obiettò.

«E se ti bacio davanti ad altri, tu ti sottrai, e se ti dico che c'ho gran voglia, tu mi scappi, e se ti dico belle parole, tu fai la vergognosa... Qual è il concetto d'amore che avete voi Romani? È vero quel che si dice tuttavia...»

«Che si dice?» fece Clarice, inanimitasi non poco dopo quell'arringa. Sì, lei aveva un altro concetto di costumata vita coniugale, e proprio in quelle cose che il marito le rinfacciava lei vedeva nient'altro che mancanze di rispetto. Ora lo affrontava, non sapeva perché, ma decisa a difendere la propria opinione come mai era stata prima. Lorenzo si morse la lingua, non volendo offenderla. Dopo un respiro, disse: «Le nozze coi forestieri son difficili da mandare avanti. Vedi come io ti chieda una cosa e tu me ne chieda un'altra? E siamo entrambi convinti di far del nostro meglio, e ci si fa solo del male. Ma io non ti capisco a volte, Clarì, e certo mi figuro che talvolta tu non capisca me! O come si fa?»

Clarice sospirò a propria volta. Un'altra abitudine che lui aveva preso era quella di chiamarla con quel nomignolo, Clarì, che sapeva di vernacolo romano, di intimità e di affetto. Quell'affetto che non riusciva a vedere negli atteggiamenti spiritosi tipicamente fiorentini e che, appunto, la facevano sentire straniera. Aveva centrato il punto, come sempre. Dopotutto, Lorenzo non era un giovanotto stupido, e stupido non era nemmeno quando vestiva i panni del marito.

«Si fa che, se ci si vuole bene, alla fine un accordo si trova», concluse allora, abbozzando un mezzo sorriso. Non era l'occasione migliore per litigare: e questo non l'avrebbe negato né un Romano né un Fiorentino, per quanto i costumi potessero essere diversi. Lorenzo le fu grato di quella nota di saggezza, le sorrise e le guardò di nuovo la pancia. Da quello sguardo, Clarice intese che sì, era gravida, gravida per davvero.

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Eccomi di ritorno dopo tanto (troppo) tempo.

Sono state settimane difficili. La situazione non è delle migliori e le mille preoccupazioni soffocano la mia fantasia.

Spero di riprendere un ritmo di pubblicazione accettabile.

Vorrei infine dedicare questo capitolo in particolare a un amico che non c'è più. Un piccolo omaggio, un ricordo.

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