XIX
27 gennaio 1470 (1)
Il cortile di Michelozzo era gremito di persone ed era così da parecchi giorni. Sembrava che tutta Firenze avesse abbandonato le piazze e le strade principali per transitare da Via Larga e potere, quando la ressa lo consentiva, insinuarsi tra le colonne di quel preciso cortile e mandare occhiate in giro, chissà che Giuliano o Lucrezia o Lorenzo in persona passasse di lì.
La finalità della visita era duplice: da un lato, porgere le condoglianze per la recente morte di Piero – che fossero passate già diverse settimane non era motivo di variare la litania abituale –, dall'altro avanzare piccole richieste, raccomandare parenti o interessi personali, ricordare la fedeltà passata come promessa di fedeltà futura.
Nessun Medici veniva risparmiato dai questuanti, non c'era riguardo per il lutto che ancora si protraeva e veniva ostentato dagli abiti scuri e castigati che tutti i membri della famiglia portavano e avrebbero portato ancora per molti mesi. A complicare ulteriormente la circostanza c'era l'assoluto imperativo di ogni buon re senza corona: la condiscendenza. Bisognava dar retta a ogni preghiera, a ogni lagna, e accomodare ogni faccenda, dalla più banale alla più spinosa, e promettere l'interessamento, l'intervento, l'ammonimento, e mettere d'accordo le parti litigiose e consigliare per il meglio gli indecisi. Clarice non ne poteva più.
Clarice era cresciuta in un ambiente del tutto estraneo a usanze come quelle, che a Roma avrebbero definito sfacciate, villane, usuraie. Nessuno osava avvicinare i gran signori, soprattutto se a dividerli da essi c'era un consistente divario sociale. Ci si raccomandava attraverso le lettere di persone un poco influenti e si risaliva la scala finché c'erano gradini per farlo. Ma mai a voce, mai stringendosi le mani l'un l'altro, mai usando di quella confidenza che i Medici concedevano a chicchessia, solo per il fatto di ritrovarselo nel cortile. E se a Roma non si approcciavano gli uomini, figurarsi le donne e massime le fanciulle giovani: le nobili fanciulle romane uscivano di casa, di norma, solo per seguire le funzioni religiose, e solo quelle più solenni, perché le famiglie più altolocate avevano tutte a disposizione cappelle private all'interno dei propri palazzi. Non v'erano altre occasioni, per loro, di mostrarsi in pubblico, cosa che solitamente aveva l'aspetto positivo di condurre alla messa anche i giovanotti scapoli che cercavano moglie. Le nobili fanciulle romane, di cui Clarice si fregiava d'essere una delle esponenti più riguardevoli, non frequentavano i ceti inferiori, ad eccezione dei fidatissimi servitori, e certo non erano costrette ad attraversare folle di clienti per andare da un lato all'altro del pianterreno, o a sottostare allo sguardo di cento curiosi nel momento in cui decidevano di passare un'ora nel giardino privato invece che a ricamare in camera da letto.
Clarice, la giovane sposa straniera, era comunque una Medici, sebbene la sua lingua inclinasse troppo agli accenti meridionali e non avesse ancora partorito un pargolo al marito. Forse anche in ragione dell'intimità particolare che sussisteva tra due coniugi, veder comparire la novella matrona equivaleva a veder comparire messer Lorenzo. Le donne avevano meno scrupoli ad accostarla e le picchiettavano il braccio, le prendevano la mano, le tiravano la pellanda senza porsi il problema del fastidio che istintivamente le suscitavano.
Era il pomeriggio di un giorno di fine gennaio, il tempo era bigio e tale era anche l'umore della Romana. Lorenzo era barricato nello scrittoio con i segretari, sebbene non fosse chiaro di cosa si occupasse, se di politica o di affari; era divenuto assai sfuggente, parco di parole e prodigo di scuse.
Clarice aveva appena lasciato la camera senza passare a disturbarlo, ché sapeva che le avrebbe dedicato solo un cenno sbadato e uno sguardo a malapena, troppo occupato a dettare lettere e prendere appunti su fogli sparsi, come faceva spesso. Solo di notte pareva accorgersi di lei, quando, coricandosi al suo fianco, tendeva una mano semplicemente per toccarla e sapere che era lì, che era viva e fatta di carne e d'ossa. Talvolta si abbracciavano e allora lo sentiva singhiozzare, pressato com'era da mille e mille istanze e tirato da una parte all'altra, senza posa.
Tuttavia, siccome era ancora pieno giorno, la mente di Lorenzo non avrebbe potuto includerla tra i principali argomenti degni di attenzione, cosa per cui Clarice aveva infine optato per scendere in giardino. Giunta ai piedi della scalinata, scivolò vicino al muro per passare inosservata. Mentre avanzava a testa bassa capitò sotto l'arco dell'ingresso principale e, di sfuggita, guardò fuori, sulla via. La situazione era tutto sommato tranquilla, forse a causa di una brezza fredda che spirava da nord e si insinuava in ogni viuzza come una biscia, raggelando gli incauti bighelloni.
Le tornò in mente come un fulmine una frase che aveva udito giorni prima da Caterina, sua fantesca. Da ribaldi mette' 'na mignotta sotto l'ombra della cattedrale. Non sapeva di chi parlasse, ma per intuito aveva pensato a Linora. Dunque, aveva congetturato subito dopo, le sue donne conoscevano la locanda dove quella lavorava e viveva, forse l'avevano addirittura incontrata. E ora che l'ingresso del palazzo le si presentava così insolitamente sgombro, la tentazione fu di uscire, cercare la città, raggiungere la camera di quella disperata e chiederle che le togliesse il malocchio.
Si morse il labbro per richiamare la mente a pensieri più cristiani e prudenti, ma il desiderio di dare alla luce un figlio la assillava e i mancati progressi la prostravano. Lorenzo, ora, era un capofamiglia e un erede era necessario a consolidare il suo potere, soprattutto poiché l'incertezza penetrava qualsiasi parvenza di coraggio e costringeva a pensare quattro volte prima di agire. Temeva che, presto, in assenza di quella prole per cui s'era fatto il matrimonio, i Medici l'avrebbero rimandata a Roma con vergogna. Una vergogna che sarebbe stata doppia per lei: essere scacciata perché sterile, essere scacciata lei così nobile da un marito mercante.
Il fato volle che dalla scalinata scendesse pure Cammilla, la fantesca di età più matura e di spirito più focoso, che, adocchiata la padrona immobile poco più avanti, la raggiunse e domandò: «Madonna mia, che c'avete voi? Non vi sentite bene?»
Clarice, per tutta risposta, le illustrò il piano, in fretta e bisbigliando per timore di essere scoperta da qualcheduno. Non avrebbe potuto trovare donna meglio disposta di Cammilla ad assecondarla: pur essendo colei che, in ragione dell'esperienza, avrebbe dovuto distrarla da un simile proposito, Cammilla la prese per mano e la condusse con sé di nuovo su per le scale, oltre il piano nobile, nelle soffitte dei servi.
Lo scopo era chiaro. Se fosse uscita con quella pesante pellanda di ermellino indosso, Clarice non avrebbe potuto muovere un passo senza che i pochi passanti la assaltassero, e la notizia che madonna Medici girava sola soletta per la città sarebbe corsa veloce da una bocca all'altra. Certo Lorenzo ne sarebbe rimasto molto scocciato e Lucrezia, sua suocera, l'avrebbe rimbrottata duramente. Perciò serviva che si cambiasse d'abito alla svelta, e indossasse piuttosto una veste umile, sui toni del marrone e dell'ocra, un velo in testa per celare l'inconfondibile chioma fulva e un mantello di lana sulle spalle per non avere freddo lungo la strada.
Riuscirono a sgattaiolare fuori con una facilità sorprendente, entrambe più audaci ad ogni passo e persuase che tutto sarebbe andato per il meglio. Camminavano a braccetto come madre e figlia e parlottavano a bassa voce per non palesare l'accento straniero. Cammilla aveva ottima memoria e non sbagliò percorso, volgendosi con sicurezza ora a destra ora a sinistra.
Clarice cominciò ad esitare quando sentì avvicinarsi la meta. Lasciata la piazza del Duomo per scendere in direzione del fiume, le case assumevano un aspetto fatiscente: schiacciate l'una all'altra, con sostegni di legno a reggere le balconate dei piani rialzati, piccole case costruite di malagrazia sembravano contendersi lo spazio. Erano colorate, e ai toni accesi dell'intonaco si accostavano le insegne delle locande e delle osterie: tutto per attirare l'attenzione. Clarice, d'istinto, alzò gli occhi, perché altro non avrebbe potuto fare. Le mancava il respiro e l'unica cosa che riuscì a balbettare, resistendo un minimo alla furia scatenata di Cammilla, fu: «Non sarei dovuta venire qui».
La sua mano destra strinse il velo sotto il mento e la sensazione di soffocamento si inasprì, cogliendola impreparata con un lungo brivido tra le spalle. C'erano tanti uomini lì, tante facce straniere come la sua, ma anche tante facce fiorentine, tutte accomunate da un'espressione che significava malizia, lussuria e altre perversioni peggiori.
«Madonna mia,» rispose Cammilla gagliarda, «ormai semo qui! Semo 'rivate, guardate là. Messer Giuliano disse che quella è la finestra sua.»
Finalmente la ricerca di Clarice ebbe un punto fermo cui aggrapparsi. Benché gli scuri fossero accostati a prevenire sguardi indiscreti dal vicinato, ella non aveva difficoltà a figurarsi Linora in una squallida stanza di bordello. E pensare che non sapeva nemmeno come fosse fatta, una stanza di bordello, ma di certo comprendeva un brutto letto sfatto, un cassone di legno tarlato e sporcizia in ogni dove. Arricciò il nasino, lei che era abituata a tutt'altro ambiente, e le sue esitazioni si fecero più palesi di prima, col ritrarre la mano dalla stretta della serva e un volgersi indietro come per fuggire.
«Madonna, che fate voi? Ora che siete qui non ve lo volete far levare, il malocchio? Non lo volete fare un puttino al marito vostro?» la rimproverò Cammilla, sbigottita. Clarice si arrestò di colpo, il cuore trafitto dal dubbio, e quando si girò nuovamente alla sua guida aveva le lacrime agli occhi. «Non è bene che si faccia... Se qualcuno mi riconoscesse?»
«Sempre meglio provare, e poi quando vi ricapiterà l'occasione? Così conciata parete né più né meno d'una serva come me, madonna.»
E, ripresala per mano, Cammilla la condusse alla porta della locanda e, senza aggiungere altro, la sospinse dentro avanti a sé. Una pioggia di sguardi le rovinò addosso, tanto che si sentì nuda e si strinse nel mantello, facendosi ancor più minuta. Il mormorio che si sollevò appena cominciò ad avanzare verso l'oste non aveva nulla di buono, ma Cammilla la spronava tenendole una mano sulla spalla. Si fece coraggio e domandò dove potesse trovare la Linora da Parma, perché Lorenzo le aveva detto che così era conosciuta in città. A quel punto, i mormorii si cambiarono in risatine licenziose e qualcuno ebbe l'ardire di risponderle: «Vi ci accompagno io, bella fanciulla, se mi farete restare».
Disgustata, e stavolta senza preoccuparsi di farlo notare chiaramente, Clarice ripeté la domanda sforzandosi di dissimulare l'accento per non essere smascherata, e i suoi sforzi furono premiati: al piano di sopra, prima camera a destra. Cammilla, ancora una volta, la seguì dappresso, per impedire che qualche farabutto allungasse le mani sulla padrona. Giunte alla porta indicata, bussarono educatamente, sperando di non incontrare situazioni imbarazzanti al di là dell'uscio. L'imbarazzo, però, fu tutto di Linora, che andò ad aprire pensando a uno scherzo perché mai nessuno aveva picchiettato alla sua stanza con quella delicatezza. Non la stupì il fatto di trovarsi di fronte a delle donne, ché di amiche e colleghe che venivano a trovarla ne aveva, ma i volti che le apparirono davanti, sul momento, non le parvero familiari, complice la penombra.
Clarice entrò sola. Cammilla restò di guardia. Dovette ricredersi, una volta dentro: la camera era in ordine, un po' spoglia forse, ma dignitosa. Non avrebbe detto, di primo acchito, che fosse un luogo di commercio carnale quello, sicché si tranquillizzò e la mano che ancora fermava il velo sotto il mento allentò la presa, scoprendole i capelli. Linora, intanto, l'aveva guardata bene in viso e, ad ogni secondo, sentiva mancare le forze. Quando finalmente la sconosciuta le si rivolse dicendo: «Siete voi Linora da Parma?», allora non ebbe più dubbi.
«Madonna Medici!» trasalì, e immediatamente si coprì la faccia con le mani. «Oh, non mi consegnate all'inquisitore, ve ne prego!»
Il pianto le impedì di supplicarla più a lungo. Fu tanto prepotente, quell'accesso di lacrime, che cadde in ginocchio, ormai disperata della vita, e le abbracciò le cosce, baciandogliele devotamente, e si prostrò ai suoi piedi novella Maddalena. Clarice, che non si aspettava una simile accoglienza, si commosse e pianse insieme a lei.
«Voi m'avete maledetto...» singhiozzò, incerta se piangesse per se stessa o per quel dramma vivente che si strusciava implorante contro di lei. «Voi m'avete mandato i demoni addosso...!»
Indubbiamente c'era rabbia nella sua voce, ma anche un briciolo di quella disperazione che risuonava invece nei gemiti di Linora. Che in lei, forse, vedesse il destino che la aspettava, se non nella realtà almeno nell'immaginazione, nel caso non avesse saputo dare un erede a suo marito? Linora era in fin dei conti una donna ripudiata, ripudiata dalla società perché non aveva alcun tipo di onesta protezione.
«Non v'ho maledetta, madonna, vi prego, non lo dite, che è bugia! Io non v'ho maledetto!»
«E dunque a che fine m'avreste imbrattato l'abito col carbone, se non per offrirmi ai diavoli d'inferno, dove tutto è carbone che brucia le anime dei peccatori?» ribatté, divincolandosi con violenza da un abbraccio non voluto. Linora si piegò allora sul pavimento e, dando un'occhiata alla porta, temendo che presto sarebbero venuti a condurla via, ripeté: «Non v'ho maledetto, non v'ho maledetto vi dico! Non mi consegnate, non v'ho fatto del male!»
«Toglietemi il malocchio; voi me l'avete messo, voi me lo toglierete!»
Linora si rimise inginocchiata e, afferrandosi la gonna, picchiò i pugni. «Dubito che voi abbiate il malocchio, madonna, ché se lo aveste io non sarei tanto infelice!»
Clarice trattenne il respiro e arrossì d'ira, strinse i denti e si irrigidì tutta nella persona. «Che volete dire, che siete infelice? E io vi paio invece allegra?»
«Se aveste avuto il malocchio, vostro marito ora sarebbe qui con me, invece è da che v'ha sposata che qui non s'è visto più, nemmanco per sbaglio! E da San Martino in qua non solo egli non v'è più, ma così pure la sua brigata, e me ne sto sola il più delle notti. Sicché presto dovrò andarmene, andarmene senza il becco d'un soldo, nemmeno d'un ramino, e sapete voi che cosa vuol dire viaggiare, lasciar tutto e cercar fortuna altrove?»
«E sapete voi che, se non concepirò, sarò ripudiata?»
Tacquero. Poi, Linora avanzò piano una mezza osservazione: «Ma, madonna, tutta Firenze sa che siete gravida...»
«Firenze sa quel che i Medici vogliono che sappia», disse. «E a volte fa più comodo una menzogna che una verità.»
«E voi sapete per certo di non esser gravida? Ossia, per quale motivo credete voi di non esserlo?» domandò ancora Linora, squadrandola dal basso. Clarice si trovò del tutto priva di argomenti e, aprendo le braccia, constatò: «Io so che le donne gravide si fan grosse sul ventre per via del fanciullo che vi cresce, e io non son punto grossa!»
«Non si diventa grosse subito e, come saprete, l'esser gravide dura più tempo e la pancia cresce via via...» poi, rialzandosi piano, ragionò tra sé a voce alta: «Ma se ben comprendo, voi non avete mai veduto una donna gravida in vita vostra...»
«No... mio fratello più piccolo è nato ch'ero ancora piccina pur io e poi nessun'altra donna gravida è mai stata ammessa a palazzo.»
Palazzo Orsini a Roma, s'intendeva. Linora, invece, nonostante non fosse madre, ne aveva viste eccome, e aveva conosciuto per esperienza come va la gravidanza. Perciò le chiese il permesso di tastarle la pancia e di farle qualche domanda. Clarice, incuriosita, le diede il permesso.
«Il sangue, lo perdete sempre?»
Arrossì. «Sì, un poco, di tanto in tanto.»
«E segue il ciclo naturale?»
«Non l'ha mai fatto, dicono perché sono giovinetta.»
«Sì, è possibile. E vi svegliate bene la mattina?»
«Il più delle volte sì, ma capita che abbia dolore alla schiena, talvolta, o mi facciano male le ginocchia.»
«E il seno?»
Linora, animata da buone intenzioni, spostò una mano a tastarle il petto, ma Clarice se ne risentì e si scostò muovendo un passo indietro; quindi ammise: «A volte mi pare gonfio, ma è un'impressione...»
«Fate più piscio del solito?»
La sequela di domande continuava cadenzata, sì da confondere l'ingenua fanciulla che non sapeva se le risposte avallassero o meno la possibilità di aver già concepito e non saperlo. Linora era metodica e, a prima vista, indifferente, mentre in realtà considerava tra sé se la sperata gravidanza della Medici non fosse altrettanto auspicabile da lei, nel tentativo di riallacciare la relazione con suo marito per via della separazione che i coniugi avrebbero dovuto affrontare per il bene del nascituro.
Clarice, comunque, rimase zitta per valutare se ci fosse effettivamente stata una qualche variazione dell'abitudine, ma la voce di Cammilla al di là dell'uscio la distrasse. Meno di un battito di ciglia, la porta si spalancò e sulla soglia apparve un uomo alto e magro, che subito rinserrò l'uscio dietro di sé. L'Orsini voltò d'istinto le spalle e tirò il velo sulla testa, ma le sue premure erano inutili, giacché quello sapeva benissimo chi ella fosse.
«Madonna mia, in ogni luogo avrei pensato di dovervi cercare meno che qui. Lasciate che vi dica che non son posti per voi, questi, e che stareste meglio in una chiesa o in un giardino fiorito che qui. Venite, che se Lorenzino viene a sapere dove voi siate finita, accoppa la Cammilla, Giuliano e tutti noialtri, voi compresa. E sarebbe un peccato!»
«Oh, siete voi, Luigi...» replicò, gli occhi grandi come quelli di un gattino indifeso. «Per un momento ho temuto che...»
«Che fossi un amico? Beh, con Linora lo son già e noi si può diventarlo, se vi garba, anche se Lorenzino non ne sarà contento.»
«Oh, via, smettete di burlarvi di me. Ho inteso, torno immediatamente. Aspettatemi fuori, che non ci vedano uscire insieme.»
Luigi Pulci, soddisfatto dell'accordo, si avviò lasciando la porta socchiusa. Clarice allora, approfittando di quell'ultimo momento concessole, tornò a Linora e sussurrò: «Dunque, son gravida o no?»
«Non ne sono certa... Una donna, una volta, m'insegnò un modo per scoprirlo grazie ai liquidi: se avete desiderio, ve lo potrò dire. Ma mi serve che facciate una cosa...»
E, traendo una piccola ciotola da uno scaffaletto, gliela porse e, guardandola intensamente, aggiunse: «Vi giuro su Sant'Anna patrona delle gravide che non v'è maleficio né sortilegio blasfemo, è solo la natura delle cose così come Nostro Signore le ha volute».
Clarice raggiunse Pulci, alla fine, dopo averlo fatto aspettare più a lungo del previsto; camminò sempre a testa bassa e mantenne un'aria vergognosa anche oltre il confine del rione della Baldracca. Pulci rimediò al suo silenzio con la propria sciolta parlantina e, a forza di doppi sensi e parole acuminate, riuscì a suscitare un sorrisino sulle labbra serrate della sua protetta. Avendo sommo bisogno di non pensare ai fatti propri, Clarice, indossati di nuovo i panni della ricca moglie ben accasata, prolungò quella inusitata compagnia fino al tramonto, scoprendo che anche un animo piccante e irriverente come quello di Pulci poteva risultarle simpatico. Lorenzo, quando li trovò a conversare amabilmente in una camera, dapprima rimase di stucco, quindi decise di unirsi a loro per sgravarsi delle fatiche della giornata. Quella sera suonarono il liuto e cantarono, poiché si erano privati fin troppo del piacere della musica e la primavera, ormai, si appressava.
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(1) La datazione è data secondo il sistema attuale (con inizio il 1° gennaio) Il sistema di datazione a Firenze non corrispondeva infatti a quello corrente: l'anno cominciava il 25 marzo (era definito Ab Incarnatione, perché in quel giorno la Chiesa ricorda il concepimento di Gesù da parte di Maria). Lorenzo, quindi, avrebbe scritto ancora 1469, perché appunto non era ancora iniziato l'anno nuovo.
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