XIV
Milano, 29 luglio 1469
Il cavallo morello su cui montava diede uno scatto sbarazzino della testa emettendo un mezzo nitrito. Lorenzo trasse quindi le briglie, di modo che il focoso animale si calmasse un po' all'avvertire la fermezza del proprio cavaliere. La verità era che l'impeto della caccia si faceva sentire e il parco del castello di Porta Giovia era tanto sterminato che pareva quasi impossibile rintracciare il cervo che inseguivano senza sosta dal mattino presto. Cominciava a far caldo, per di più, quel caldo lombardo che appiccica l'aria alla pelle e schiaccia le cervella fino a dare i capogiri. Cosa non avrebbe dato per essere spaparanzato in una radura ombrosa persa nei possedimenti di Cafaggiolo, con uno o due libri con cui discorrere, un fiaschetto di vin rosso e una schiacciata per il desinare. E pensare che la caccia gli garbava tanto! Ma non a quella guisa, non a quell'ora. Lorenzo sbuffò, scuotendo il capo come se l'esempio del morello non gli dispiacesse poi molto.
Gian Galeazzo Maria, pargolo ducale, era venuto al mondo il 24 di luglio, il giorno dopo battezzato e unto; il suo nome era stato scelto sia per ossequiare l'avo Visconti, che tra tante grandi imprese annoverava un tentativo di assedio a Firenze, sia per tener fede al voto di Francesco Sforza di imporre il nome della Santa Vergine a ogni nato. Si erano spesi fiumi di denaro per i festeggiamenti: banchetti a non finire, spettacoli con mirabolanti architetture effimere, musiche fino a tarda notte; e cacce, per deliziare i convitati, nobili o meno, che amavano tanto l'arte venatoria quanto quella pittorica o letteraria.
Lorenzo non era nobile, pure aveva trascorso gli anni della prima giovinezza a cavalcare dietro alle mute di segugi o a guardare la picchiata di rapaci addestrati. Aveva addirittura dedicato un poemetto alle proprie avventure, senza risparmiare agli amici le loro buone figuracce: Dionigi assonnato che casca di sella, Pulci che, preso dall'ispirazione poetica, si aggira ramingo per i boschi in solitaria, Guglielmo de' Pazzi che si vede un falcone guastato da un cane impetuoso.
Il morello diede altri segni di impazienza, forse afferrando, tra una parola e l'altra, l'accento straniero del cavaliere. Proprio allora, mentre Lorenzo dava di speroni per domare gli istinti ribelli dell'animale, il cercatore – servo addetto a rintracciare la preda con i cani – chiamò verso i cacciatori, dichiarando che la corsa era principiata. Erano circa venti partecipanti, ma nessuno si mosse prima del duca Galeazzo. Questi avanzò con sicurezza nella direzione da cui provenivano i latrati dei cani, ansioso di ficcare la lancia nell'esile corpo del cervo; anzi, della cerva, come si scoprì quando la preda fu finalmente avvistata, ormai chiusa tra due file di segugi coi denti digrignati.
La povera bestiola, allo stremo delle forze, vinse proprio allora le titubanze e frenò la corsa vana e precipitosa che non l'aveva condotta alla salvezza; si volse, puntò le zampe nel terreno e cominciò a scalciare a testa bassa. Era l'ultima possibilità, l'ultima mossa ispiratale dall'istinto, quella che nel gergo si denominava latrato. Mossa estremamente rischiosa, quando non letale. Galeazzo rise e il suo volto prese le sembianze di un ghigno cattivo; nulla di nuovo, per chi lo conoscesse. Lorenzo ne rimase un poco impressionato invece, perché, abituato a vederlo nella cornice della corte, non se l'era mai figurato in quella maniera. Voci ne giravano tante su di lui, e certo qualcuna doveva pur essere veritiera, ma solo allora il ragazzo forestiero si convinse che tutte, proprio tutte, corrispondessero alla realtà.
Il duca afferrò l'asta della lancia che gli veniva porta da un valletto, si avvicinò piano, mirò. La cerbiatta lanciò un belato agghiacciante e stramazzò a terra in agonia, scrollando il corpo in un brivido di morte. I veltri ringhiavano ancora, gli occhi iniettati di sangue, le fauci spalancate e la bava mescolata al fango: aspettavano la meritata ricompensa. Galeazzo smontò e trasse il pugnale dalla cintola con un guizzo, si appressò. Raggiunta la vittima, si chinò, le sollevò la zampa posteriore. Prima che le fosse squartato il ventre, Lorenzo poté osservarle il muso inespressivo: le pupille si erano svuotate della vita, della paura e della disperazione che le avevano fatte brillare di lampi convulsi; restavano immobili, mentre la lingua penzolava tristemente tra i denti.
Si udì lo sfrigolio di una lama metallica, il tintinnare del pugnale estratto dalla lunga e impietosa incisione; il terreno, l'erba si inondarono di un sangue scuro come la pece e l'aria assunse un odore ferrigno, una consistenza corposa. Galeazzo, senza esitare, penetrò con la mano nel petto dell'animale. Quando ritirò il braccio, madido per metà della lunghezza, stringeva tra le dita il cuore che aveva strappato di tra i polmoni, aggirando la gabbia toracica risalendo dal basso. Con gesto sprezzante, quasi quel pezzo di carne non valesse niente, lo gettò tra le zampe dei segugi e stette a guardare con quale foga essi se lo litigassero.
«Date loro le interiora e dissanguatela bene», ingiunse ai valletti per poi risalire a cavallo come se il macabro atto non si fosse mai consumato. Saldo in sella, si avviò al passo felice di conversare con i compagni.
Non politicare, il padre tuo s'è raccomandato.
Non diversamente da quanto capitato a Clarice, Lorenzo si sentì tirare per l'orecchio come fosse ancora un fantolino indisciplinato. Inspirò profondamente, spingendo il cavallo dietro il corteo del duca Galeazzo. Aveva fatto scorta d'orecchie tirate, metaforicamente o meno, quando era ragazzino; talvolta aveva l'impressione che, se non l'avesse superata di un buon tratto in altezza, monna Lucrezia non avrebbe esitato a strigliarlo per bene quando rincasava tardi o quando parlava in modo avventato. Emise un sospirone carico di disagio avvertendo una pressione al centro del petto, quasi che la punta della lancia ducale avesse trafitto lui, e non l'agile e prestante cerbiatta.
«Magnifico Lorenzo!» udì chiamare dalla voce profonda e superba di Galeazzo. Si riscosse e: «Eccellenza! Consideravo che bella prova di valore abbiano dato i vostri veltri: un'ottima preda, con grande onore vostro.»
«Venite, non state discosto. A noi piace aver vicini i nostri amici. Fatevi dappresso, su, che tutti vedano in quale concordia di sentimenti sono Milano e Firenze», replicò il duca, accennando sbrigativamente con la mano affinché si facesse spazio al giovanotto.
Non sarai imbasciatore, sicché non far tante melarance, come dice tuo padre.
«Siamo contenti che la caccia vi sia stata gradita. Immagino che sarete affamato», riprese quando l'ebbe accanto. I cinque anni di differenza sembravano assai di più, sia per il portamento fiero dell'uno contrapposto a quello più disteso dell'altro, sia per le tracce che gli eccessi avevano lasciato precocemente sul viso del duca, il quale appariva non venticinquenne, ma già decisamente avviato verso i trenta. Portava i capelli lunghi sulle spalle, Galeazzo Maria, incorniciando l'ovale su cui spiccava un naso importante, aquilino; il suo profilo trasudava autorità e sarebbe parso molto conveniente a un sovrano, non fosse che i suoi occhi mancavano di celare un'indole arrogante e selvaggia, a tratti ferina come quella dei suoi segugi. Di che cosa avesse tanta fame, che cosa bramasse era risaputo: potere, in tutte le sue forme e significati, ed era risoluto a ottenerlo a qualsiasi costo, con una preferenza per i metodi violenti.
Lorenzo, che pure era un giovanotto aitante e non disdegnava il divertimento, aveva un'apparenza più equilibrata e affabile, come pure aveva in odio la ferocia a favore della ragione, della tattica e della diplomazia. Aveva imparato a dubitare, a preferire il giudizio all'entusiasmo, ad avanzare a piccoli passi. Sentì perciò l'esigenza di mantenere una certa distanza, se non fisica, almeno confidenziale con l'illustre ospite, tanto più dopo una così chiara manifestazione della sua passione per il sangue.
«Vostra Eccellenza, sì, sono affamato! Ma come desidera Vostra Eccellenza!» rispose, anche allo scopo di lusingarlo. Fino ad allora non aveva avuto occasione di restare solo con il duca; forse sarebbe stato meglio così. Pure, messer Gentile non era tipo da battuta di caccia, tanto più che l'abito ecclesiastico gli vietava severamente di prendere parte a simili passatempi secolari.
Ad aggravare notevolmente la situazione – nessuno ne parlava, ma tutti sapevano – era il fallimento di un certo affare, verificatosi non più di dieci, dodici giorni prima. Essendo allora in procinto di partire, Lorenzo ne era venuto a conoscenza solo il giorno del battesimo di Gian Galeazzo Sforza; non aveva modo di confrontarsi con il padre, non almeno in tempi celeri. Ed era lì, a Milano, al fianco di un uomo imprevedibile.
«Mi scuserete se vi trattengo, Magnifico Lorenzo. Desidero mostrarvi un sentiero per questi boschi che ci darà riparo da questa calura, con l'agio di conversare un po'», diceva in quel frangente Galeazzo, quindi, voltosi ai cortigiani, comunicò loro che erano licenziati e che andassero ad attenere l'ora del pranzo al casino per la consueta strada, mentre lui avrebbe fatto da guida all'ospite. Quest'ultimo, che aveva già pronta una scusa per affrettare il ritorno, fu piegato a spingere il proprio cavallo dietro quello del suo signore, che già si avviava in solitaria.
Come lo raggiunse, Galeazzo si concesse una risatina. «Non avete più la boria di quanto siete arrivato. Ora siete taciturno e sembrate voler scomparire dalla vista; cosa che vi riesce poco, con quei begli abiti che vi siete portato», commentò, lanciando un'occhiata alla giornea scarlatta di vellutino leggero impreziosita da ricami dorati alle maniche.
«Vostra Eccellenza, se do quest'impressione è solo per riguardo a voi, che m'avete accolto una volta di più nella vostra amicizia», tergiversò l'altro, evitando cautamente di incontrare il suo sguardo. Galeazzo, che oltre a essere superbo era anche vanitoso, soprassedette, dato che aveva argomenti più salati da trattare.
«E la mogliettina vostra vi manca? Certo, ritengo che a lei manchiate tantissimo, soprattutto in una congiuntura sfortunata come questa.»
«Vostra Eccellenza, con permesso, ritengo che definirla sfortunata non sia punto adeguato. La direi piuttosto disperata o disgraziata.»
Il risolino animò nuovamente le labbra affilate dello Sforza. «Sono d'accordo. Non s'è fatto in tempo a festeggiare le vostre nozze, che già bisognerà mettersi a nero.»
«Capirete ora il motivo del mio contegno, Vostra Eccellenza. Così privo degli abiti adatti, mi rimane solo da mostrare il lutto nel viso e negli atti.»
Anche in questo il duca mostrò la propria comprensione, annuendo con piglio improvvisamente severo. «Non è ancora detto che Gian Ludovico vostro cognato debba pagare in verità il prezzo peggiore. Certo ora, con Borso d'Este saldo a Ferrara, temo per l'incolumità mia e per quella di vostro padre, che mi è stato complice e mentore in questa faccenda. Fate attenzione, mentre sarete sulla via per Firenze.»
Annuì, ma i suoi pensieri erano altrove. Non aveva mai visto Gian Ludovico Pio, marito di Aurante Orsini; un presentimento gli suggeriva che non l'avrebbe visto mai. Notizie ne arrivavano, ma troppo confuse: c'era chi lo dava morto, chi vivente, chi prigioniero e chi contumace; si diceva che la moglie e i figli fossero agli arresti nel palazzo di famiglia, privati dei beni e della libertà.
Erano d'accordo: Galasso Pio di Carpi, Piero de' Medici, Galeazzo Sforza ed Ercole d'Este fratello di Borso. Borso, signore di Ferrara, era da tempo in rotta con il ducato di Milano per contese territoriali mai sopite, ma allora più che mai, vedendosi favorevole il papa e la fortuna. Galeazzo non era colui a cui piace restare a guardare e aveva già messo più bastoni tra le ruote del carro trionfale di Borso: non mancava che disfarsi dell'ingombrante vicino, e per lo Sforza sarebbe cominciato un periodo di vero predominio nel nord Italia. I Medici, alleati strettissimi da due generazioni, avevano il loro interesse nel ricambio a Ferrara e sostenevano la successione di Ercole. I Pio di Carpi, oltre che recente acquisto nella parentela medicea, erano una famiglia estremamente numerosa e, di conseguenza, dilaniata da conflitti interni da cui ciascuno voleva uscire vincitore. Si era perciò eletto Gian Ludovico quale capitano dell'impresa: dopo il primo abboccamento con Ercole, la data fissata per la congiura era stata il 17 luglio. I conti sembravano tornare.
«S'hanno più novelle di Ferrara?» domandò, parlando più tra sé che a qualchedun altro, Lorenzo. Galeazzo storse la bocca. «No, niente novelle. Il che è male! Tanto più che Rimini dà da pensare.»
«Il Malatesta regge l'attacco dei pontifici, a quanto so.»
Guardati dal ragionare di Rimini e della guerra, che non è cosa per un garzone di vent'anni.
«Se metterete una buona parola con vostro zio, Napoleone Orsini, forse reggerebbe ancora meglio. Orsù, fate fruttare questo matrimonio: sono stanco di sentire per tutte parti dire solo cose di guerra.»
Lorenzo si schiarì la gola alzando lo sguardo alle cime degli alberi: pioppi, soprattutto, e qualche pianta della famiglia delle querce, le cui ghiande attiravano cinghiali e caprioli per offrirli ai cacciatori, quasi che fossero loro complici nell'inganno. Un dubbio gli balenò per la testa: e se il duca avesse voluto ingannarlo alla stregua della cerbiatta trafitta poco prima? Non gli piaceva, e lo ammetteva senza ipocrisia a se stesso, stare solo in sua compagnia; l'onore gli sembrava eccessivo per un cittadino privato com'era lui, per di più giovane e privo di qualsiasi responsabilità e autorevolezza.
«Vostra Eccellenza sta facendo fruttare il proprio, invece. O non è un anno giusto dal matrimonio con Sua Eccellenza la duchessa?» domandò, sperando di blandirlo con discorsi che nulla avevano a che fare con la politica.
«Un erede è solo l'inizio, perché la dinastia deve essere prolifica per essere sicura. Imparate bene da me, Magnifico Lorenzo», rispose, ma il fiorentino non poté esultare a lungo, perché il duca riprese: «Badate ai bastardi, però, perché vedete quel Roberto Malatesta quanti grattacapi ne dà!»
«Se li considerate grattacapi, i suoi, allora non avreste dovuto stringere alleanza con lui.»
«Chi sta contro il papa veneziano è benaccetto sempre!»
«Dunque perché non dare sostegno alla difesa?» lo interrogò ancora, fingendo di essere, se non del tutto, buona parte all'oscuro dei disegni che si tratteggiavano nella corrispondenza tra la cancelleria ducale e lo scrittoio di suo padre Piero. Galeazzo, schioccando la lingua, rispose in modo piuttosto sbrigativo. «Non ho voglia di guerreggiare.» Seguì un'occhiata acuminata come un dardo intinto nel veleno, una saetta che percosse il giovane Lorenzo facendolo impietrire sulla sella.
Sì, certo, tutto ciò che si raccontava su di lui era vero, era fuori discussione; perché quello sguardo dimostrava la volubilità con cui passava da un ragionamento a un altro nel giro di un secondo.
«Voi siete ancora fanciullo, Lorenzo. Comprendiamo bene che siate acceso da mille e mille passioni: potremmo insegnarvi a domarle, a sfogarle nei modi convenienti. La politica è ben altro da quello che potreste aver visto finora. Il potere è una rosa che ha spine in ogni dove, cosicché colui che si industria di coglierla non vi riesce senza pungersi in qualche luogo.»
Un sesto senso premeva per usare più prudenza possibile. Nel tentativo di trarsi da discorsi che lo intimidivano non poco, Lorenzo cambiò nuovamente soggetto, ostentando superficialità. «Mia moglie ha per stemma di famiglia una rosa».
Galeazzo sorrise, la piega inquietante baluginava ancora nel suo sguardo. Fece mostra di voler ribattere, ma tacque, e restò a fissarlo. Si studiarono a vicenda, benché si conoscessero da lunga data. Il maggiore d'età socchiudeva gli occhi, tendeva le labbra, inspirava piano; il minore, cauto come un gatto stanato dal cane, quasi non batteva ciglio per non perdere di vista lo sgradevole compagno.
«Riprenderemo la caccia quando le ore calde saranno trascorse; il bottino è troppo misero per fare ritorno», disse quegli all'improvviso. «E stanotte, se vorrete accompagnarmi, vi offrirò un assaggio di quanto siano generose le nostre donne e i nostri giovini.»
Galeazzo Maria ammiccò, per dare un tono più confidenziale alla proposta. Lorenzo, dal canto suo, preferì lasciar cadere un momento di silenzio tra loro. Un monstrum, questo era il duca: monstrum, ossia qualcosa che suscita meraviglia, stupore, che pare, insomma, fuori dalla norma comune. Aveva doti all'altezza del suo ruolo – era colto di lettere, buon politico, amministratore capace e osservatore attento all'economia – ed era al contempo incline non solo ai vizi comuni agli uomini focosi, ma anche ai vizi più spregevoli e raccapriccianti. Sapeva bene, Lorenzo, che avrebbe potuto imparare molto da lui; non per niente aveva insistito per partire quando suo padre non si era mostrato del tutto persuaso all'idea. Per il proprio bene, però, era necessario porre un limite, un limite che corrispondeva – metafora azzeccata – con l'ora del tramonto.
«Parteciperò volentieri alla caccia, ma devo declinare il vostro invito per la notte», rispose asciutto.
Il duca sospirò senza nascondere un pizzico di delusione. «Ricordatemi, vi prego: fino a quando avete intenzione di trattenervi a Milano?»
«Non abbastanza, VostraEccellenza.»
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Lorenzo a Milano prende le misure di un personaggio destinato ad avere un certo peso. Non c'è che dire, il Quattrocento è stato davvero prodigo di gente particolare. Almeno non ci si annoia a studiare la storia, se si conosce il carattere di certi uomini e di certe donne!
Vi invito a seguire il mio nuovo profilo Instagram, "lucille_994_". Per il momento non ho pubblicato nulla, ma conto di avviare alcune rubriche per approfondire il Rinascimento e il Seicento, che sono gli ambiti che conosco meglio. Cercherò sempre qualche aneddoto interessante o qualche segretuccio da svelarvi, sperando di farvi appassionare ancor di più a queste epoche meravigliose *-*
Vi lascio con la trascrizione (sempre mia, quindi perdonatemi qualche svista!) della lettera in cui Piero de' Medici affida a Lucrezia il compito di mettere in guardia Lorenzo dal parlare di politica. La lettera è interessante soprattutto per il modo in cui Piero si esprime, dato che è una comunicazione privata. Sembra quasi di sentire la sua voce!
Tu sai che malvolentieri decti licentia a Lorenzo, per molti rispecti, et maxime per non fare dimonstratione di questa mandata, et come hieri restamo d'acordo, non sento quello habbiate seguito; ma comprendo la cosa sia palesata che non dispiace. Tanto t'affermo che stasera bisogna siano qui, e domattina mi [...], et non lo facendo provedrò per altra via. E pertanto da' modo allo spaccio, et di' a Lorenzo che non esca dello ordine in cosa alcuna, e non faccia tante melarance non essendo imbasciadore, ch'io non determino che paperi menino a bere l'oche. Spacciatevi et in a ogni modo ritornare stasera. Ne altro. In Careggi a dì 13 di luglio 1469.
Piero di Cosimo
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