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Capitolo 40 : Anestesia


Con ancora l'ottimo pranzo preparato da Michonne sullo stomaco, passeggiavo cercando di controllare l'ansia pre visita. Una parte di me non vedeva l'ora di farsi rammendare una volta per tutte quella penosa ferita, ma allo stesso tempo provavo un enorme imbarazzo al solo pensiero di dover spogliarmi dei pantaloni. Sulle gambe avevo ancora le orme di Daryl, le tracce lasciate la notte scorsa. Sarebbero durate giorni. Giorni che non potevo permettermi di attendere ancora. Forse, con tutti gli sforzi che avevo già fatto, la gamba era irrecuperabile. Insomma, è facile capire quanto fossi in paranoia. Qualche nuvola grigia occupò parte del cielo. Non sembravano esageratamente zuppe d'acqua, ma non esclusi la possibilità di una pioggerella nel tardo pomeriggio. Accelerai il passo, arrendendomi al fatto che, in un modo o nell'altro, Pete si sarebbe fatto una brutta idea sulla sottoscritta. Vidi in lontananza quella porta bianca, la stessa porta alla quale stamattina avevo bussato per mentire a Denise. La stessa porta della casa dove avevo appreso l'indifferenza che l'arciere provava nei miei confronti. Mi bloccai, quasi stessi rivivendo quel momento. Mi sentivo una stupida. Ma, per mia fortuna, qualcuno mi sorprese alle spalle, bloccando quel marcio flusso di pensieri.

-Ehi. – esclamò Abraham, porgendomi la scatola di aspirine – Mi hai salvato la vita questa mattina.

Afferrai l'oggetto di cartone, giocherellandoci fra le mani. Passai un dito sulla scritta in braille.

-Figurati. – sospirai – Non ti fa strano?

-Cosa? – rispose, arrotolando la maniche all'altezza dei gomiti.

Ero davvero l'unica a pensare costantemente ai vaganti?

-Non mi hai mai ringraziato per aver ucciso qualche putrido, per averti salvato la vita in quel senso insomma.

Ridacchiò storcendo le labbra in una smorfia. Barba e capelli erano più fiammeggianti del solito.

-Effettivamente. – ammise, guardando i cancelli – Ma la festa di ieri è stata bella pesa.

Volevo soltanto dimenticarmene, ma tutti non facevano altro che parlarne. Stava diventando un vero e proprio incubo.

-Concordo. – affermai secca.

D'un tratto mi accorsi di star dialogando col rosso come se niente fosse, come se fossimo stati sempre dei grandi amiconi. Forse Alexandria lo stava davvero cambiando. Mi sembrava strano vederlo gentile nei miei confronti, date le precedenti discussioni. Solo al pensiero ricordai il dolore provato all'impatto col suo pugno.

-Stai andando anche tu da Deanna? – domandò poi, interrompendosi da solo.

Scossi la testa in segno di negazione. Si voltò, notando che stavo osservando qualcosa alle sue spalle. Accese poi un sigaro.

-Di nuovo in infermeria? – domandò col sigaro fra le labbra – Allora stai messa davvero male.

Rise, pensando si trattasse ancora della sbornia.

-Magari. – ammisi – In realtà devo vedere Pete.

Si massaggiò la barba, come se stesse riflettendo.

-Pete, Pete.. – ripeté – Ah, quell'uomo alto, biondiccio, faccia a stronzo?

Una descrizione scarna e coincisa.

-Proprio lui.

Buttò nell'aria una cospicua percentuale di fumo.

-E' un medico, qualcosa del genere?

-E' un chirurgo. – spiegai, abbassando la testa – Deve sistemarmi la gamba. Sempre che sia possibile.

Fece qualche passo indietro per osservare la zona lesionata in questione.

-Davvero? – chiese stupito – Cazzo, non ne avevo idea. E' messa così male?

-Più o meno. – minimizzai – Sai, non volevo essere di disturbo fuori. Ho cercato di non farlo notare.

Si gustò il sigaro, squadrandomi intensamente.

-Kendra, sei davvero la donna più matta che abbia incontrato.

Sorrisi. Dopotutto, era come un complimento se detto da lui.

-E quella più cazzuta. – aggiunse, incamminandosi verso la casa di Deanna – E fammi sapere cosa ti dice quel tipo. Ci conto.

Rimasi in silenzio a fissarlo. Quei cinque minuti di chiacchierata mi avevano rallegrato. Era bello vederlo cortese e premuroso nei miei confronti. Sospirai e continuai la mia camminata in direzione di quella maledetta porta bianca. Bussai, ma stavolta fu Pete ad aprirmi. Mi salutò con un sorriso leggermente nervoso, come se stesse pensando ad altro, e mi scortò in una delle stanze che non avevo avuto modo di ispezionare. Mi ritrovai in un ambiente simile ad un ambulatorio. Avevano giusto lo stretto necessario, ma per come andavano i tempi ultimamente, beh, era paragonabile al lusso. Mi indicò il lettino su cui mi sarei dovuta sdraiare. Verde chiaro, imbottitura apparentemente comoda. C'era soltanto un piccolo problemino. Le mie maledette gambe.

-Dovresti toglierti almeno i pantaloni. – disse, vedendomi imbambolata – Altrimenti posso fare poco.

Feci un sorrisino cercando di mascherare l'imbarazzo. Si voltò, come per darmi della privacy. Vidi che aggeggiava con degli strumenti chirurgici. Era già convinto di poter fare qualcosa al riguardo, dato l'odore che imperniò la stanza. Stava pulendo i ferri con una sostanza alcolica, tanto da sterilizzarli nel caso di bisogno. Mi adagiai sul lettino, concentrandomi sul lampadario posto al centro del soffitto. Udii la sedia d'ufficio cigolare su quelle rotelle consumate. Infatti, Pete arrivò al mio fianco, sfruttando quella. Continuai a fissare il soffitto, evitando così di poter scorgere il suo sguardo o le sue possibili smorfie riguardanti i succhiotti e i morsi vari.

-Qualcuno si è dato da fare. – osservò, tastando la ferita.

Non ottenne risposta.

-Mh, abbiamo un bel problema muscolare. – rivelò, continuando a toccare la zona lesa – Siamo su una percentuale di fibre lese del 50 – 60 %.

Non era una buona notizia.

-Hai assunto antidolorifici?

-Solo i primi due giorni. – risposi, ricordando Kioshi.

Spostò la sedia vicino al mio viso, sperando che lo guardassi.

-E quanto tempo è passato?

Cercai di fare mente locale.

-Quindici, venti giorni? – ipotizzai – Non ne ho idea.

Sbuffò, incrociando le braccia.

-Sai come andrebbe trattata una lesione del genere?

-Non del tutto.

In realtà ne avevo una vaga idea e ripensando a tutto ciò che avevo fatto fino ad oggi, mi resi conto di aver peggiorato sicuramente la situazione.

-Ottimo. – disse ironico – Una lesione del genere necessiterebbe di ghiaccio, per prolungato tempo, antinfiammatori e miorilassanti, il Myotenlis ad esempio.

Mi tirai su, sedendomi e lasciando la gambe dritte.

-Non avevamo nessun farmaco del genere. – obiettai – Non siamo stati fortunati come voi.

Fece un smorfia.

-In quella ventina di giorni circa.. – continuò - .. l'hai tenuta a riposo?

Digrignai i denti, dondolando la testa. Sospirò affranto, tornando al banco di lavoro.

-Suppongo che vi siate fatti un bel po' di miglia a piedi prima di incontrare Aaron e il suo amichetto.

Pronunciò l'ultima parola con fare critico, quasi avesse a noia che fossero una coppia omosessuale.

-Purtroppo sì..

Si voltò di scatto, osservandomi come se fossi una pazza.

-Mi spieghi come hai fatto?

-Intendi a reggermi in piedi? – annuì immediatamente – Beh, ad essere sincera, non lo so nemmeno io.

Invece, lo sapevo eccome. Ogni passo, ogni centimetro di asfalto superato, ogni sosta, ogni minuto della giornata. Ogni secondo di vita era un dolore fisso. Avevo sopportato, in silenzio, quasi volessi punirmi di tutti i miei fallimenti, delle vite non salvate, degli sbagli, delle promesse infrante. Ero poco distante da essere definita masochista.

-E i tuoi compagni non ti hanno aiutato in alcun modo?

Feci spallucce.

-Loro, ignorano tutto questo.

Sbarrò gli occhi incredulo e passò ad arruffare più cassetti in cerca di qualcosa.

-Ti avverto, Kendra. – proferì serio – Sono sicuro di poter sistemare il problema, ma ho bisogno al cento per cento della tua collaborazione. Posso fidarmi? Altrimenti sarebbe del tutto inutile.

Osservai la ferita contornata da un morso dell'arciere.

-Hai la mia parola.

-Bene. – roteò soddisfatto – Dopo che avrò finito, nei casi standard ti spetterebbero minimo due settimane di completo riposo, dopo le quali sarebbe necessaria della riabilitazione. Ma dato il soggetto, credo che potresti fare a meno di quest'ultima.

Lo speravo. Già non ero felice di dovermene stare sdraiata ad oziare per così tanto tempo, l'idea poi di dover perdere altri giorni in inutili esercizi motori non mi allettava affatto.

-Capito. – dissi affranta.

Pete si alzò, affondando l'ago di una siringa in una boccetta.

-Iniziamo?


*


Percepivo le mani del chirurgo trafficare nella mia carne. L'anestesia locale aveva fatto fortunatamente effetto. Non provavo dolore alcuno, solo un leggere fastidio. Sentivo le membra tirare e l'ago saturare. L'operazione era giunta al termine. Vedevo soltanto la testa paglia di Pete muoversi leggermente, parandomi la ferita e la zona interessata. Mi sarebbe piaciuto dare un'occhiata alla sezione, mi ero sempre appassionata di medicina. L'uomo pulì il sangue ormai secco ai lati della zona cucita e passò alla parte finale della medicazione : la fasciatura. Alzai senza problemi la gamba, essendo sotto antidolorifici, ed egli rinvolse la coscia in una garza elastica dopo aver unto la lesione con dell'unguento. Mi sedetti sul lettino, lasciando le gambe a penzoloni. Pete si tolse i guanti, si lavò le mani ed aprì un mobile d'acciaio. Scorsi dietro la sua figura una marea di piccoli contenitori arancioni. Ne prese un paio, controllando le etichette. Mi ordinò di prenderne una ciascuna al giorno.
Afferrai i jeans, sperando di riuscire ad infilarli. Non appena li vide, li prese al volo.

-Non puoi metterti roba del genere. – brontolò – Sono troppo stretti, premerebbero sulla ferita.

Da un cassetto sfilò un paio di grosse ed affilate forbici.

-Non osare.

Si voltò divertito.

-Sono solo pantaloni.

-Mi piacciono.

-Non credo sia questo il punto. – disse schietto, indicando le gambe – Ti vergogni, non è così?

Mi imbronciai, pur restando seria.

-Non posso andarmene a giro in shorts in questo stato.

I succhiotti avrei potuto spacciarli per vecchie contusioni, ma con i morsi c'era poco da inventare.

-Prima fai la zoccola e poi te ne penti? – sfotté.

Scesi dal lettino infuriata, scattando d'istinto senza pensare ai punti. Gli strappai di mano i pantaloni, fregandomene del suo giudizio. Li avrei indossati lo stesso.

-Non ti taglio la gola solo perché potresti essermi utile in futuro.

Si fece scuro in volto, ricordandomi lo sguardo da pazzo che aveva alla festa. Zoppicai fino alla porta ed egli non mosse un dito per aiutarmi. Aprii questa e mentre la chiudevo alle spalle, parlò.

-Dì al tuo amico di stare lontano da mia moglie.

Sbattei la porta, ignorandolo. Gli ero grata dell'intervento, ma l'ultimo commento poteva risparmiarselo. Sia quello sulla mia attività sessuale, sia quello su Rick. L'effetto dell'anestesia non era ancora svanito del tutto, ci avrebbe messo del tempo. Percepivo la gamba come un ammasso insensibile. Non potevo appoggiarla a terra, non mi avrebbe sostenuto. Denise sbucò dal magazzino.

-Cosa ci fai in piedi?

Sembravo un fenicottero.

-Stavo appunto cercando qualcosa per camminare.

Si aggiustò gli occhiali con la punta del medio.

-Forse ci sono rimaste un paio di stampelle, sempre che siano della tua misura.

Corse al piano superiore. Mi avvicinai al tavolo e sfogliai qualche libro incuriosita. Stava appunto studiando le diverse tipologie di traumi muscolari. Non appena arrivò, rimisi le pagine al posto precedente. Si avvicinò e controllò l'altezza delle stampelle. Erano leggermente più alte del necessario, ma le avrei utilizzate comunque. Avrei potuto aggiustarle in un secondo momento. Mi aprì la porta gentilmente.

-Sicura di farcela?

Feci qualche passo.

-Ho affrontato di peggio.

Ci salutammo. La porta si chiuse, ma una figura apparve alla finestra. Pete fissava qualcosa in lontananza. Seguii il suo sguardo e notai Rick uscire da una casa. Avrei scommesso che si trattasse di quella di Pete. Ormai era inutile negare l'ovvietà. Lo sceriffo si era preso una cotta per una donna sposata. Ne avremmo viste delle belle, ne ero certa. Avanzavo lentamente sul marciapiede, dirigendomi verso la nostra bella casetta. Ma non appena girai l'angolo, trovai l'intero gruppo ad attendermi sul porticato. Abraham mi sorrise e lì capii che aveva riferito la cosa a tutti. Persino Daryl era presente, sebbene se ne stesse in disparte spaparanzato sul bordo in legno del porticato stesso. Glenn, che era seduto sul primo gradino, si alzò impacciato.

-Com'è andata?

Lo guardavo stupita ed incredula. Erano davvero lì per me?

-Abraham ci ha informato del problema. – parlò Rick, vedendomi sorpresa – Non sapevamo che fosse così grave.

-Non lo davi a vedere. – aggiunse Carol.

-Perché non ci hai detto nulla? – domandò Tara – Magari avremmo potuto aiutarti in qualcosa.

-Se lo avessimo saputo, ci saremmo organizzati meglio. - borbottò Rosita.

Vederli lì, tutti di fronte a me, sinceramente preoccupati e dispiaciuti per la mia salute, sciolse ogni nodo che avevo all'animo. Ogni bisticcio, ogni incomprensione, ogni risentimento. Svanì ogni cosa. Avrei voluto rispondere ad ogni loro questione, ma d'un tratto percepii le gote umide. Rick, essendo il più vicino, fu il primo ad abbracciarmi. Seguirono subito dopo Michonne, Eugene e il resto. Fu un abbraccio di gruppo, fu come ricevere la conferma di essere un membro effettivo della famiglia, fu come se finalmente avessi capito di essere accettata da ognuno di loro. Da tutti, meno uno. Daryl fu l'unico a non avvicinarsi, fu l'unico a restare indifferente. Nel mentre che avevo tutti intorno, e sebbene mi sentissi felice e completa, io e l'arciere continuavamo a fissarci negli occhi senza proferire parola. Fu proprio lui ad anestetizzarmi il cuore.

Angolo autrice
Percepisco l'odio farsi sempre più grande 🙈

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