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Capitolo 39 : Pillole di vita



Infilai le mani nella tasca centrale della felpa grigia antracite trovata nel cassetto. Faceva stranamente freddo, nonostante il sole gigantesco in mezzo al cielo apparentemente sgombro. Camminavo veloce in direzione dell'infermeria, logorandomi il fegato dal nervoso. Mi chiesi dove fosse finito l'arciere, ma dopotutto non aveva importanza. Meglio così, meglio che non fosse nei dintorni. Beccai Spencer imbracciare un fucile pronto per dare il cambio al turno di guardia. Non appena mi vide, mi salutò con un cenno ed attraversò la strada per raggiungermi. Non avevo voglia di tante chiacchiere, ma non potevo certo essere scortese. In fondo era stato gentile con me la notte scorsa.

-Ehi Kendra, come stai stamani? – sorrise, portando l'arma sulla spalla.

-Assolutamente meglio di ieri. – mentii – A proposito, devo restituirti la giacca.

Gesticolò come per dirmi che non aveva importanza.

-Fa' con comodo. – rise – Basta che poi me la rendi, mi piace un sacco.

Non sapevo se fosse sempre così spiritoso o se lo facesse per provarci. Fatto stava che almeno mi rubava qualche sorriso. Ne avevo bisogno effettivamente.

-Ah! – esclamò, come se si fosse ricordato qualcosa di importante – Pete mi ha detto che oggi pomeriggio ti deve visitare. Non mi ero accorto che fossi ferita. O meglio, ieri zoppicavi, ma non per quello.

Già, Pete. Me ne ero completamente dimenticata.

-Oh sì, ma non è niente di che. Non preoccuparti. – risi, massaggiando i riccioli – E non prendermi in giro, ti prego.

Annuì

-Scusa, ma eri troppo divertente. – esclamò, salutandomi. – Il dovere mi chiama.

E menomale, pensai. Continuai la mia missione, giungendo in fretta e senza altre interruzioni all'infermeria. Bussai due volte. Speravo che nessuno mi vedesse. La strada sembrava fortunatamente deserta. La porta si mosse, permettendomi di scorgere una donna che alla festa non avevo intravisto.

-Perdonami se ci ho messo tanto. – disse impacciata – Stavo riordinando dei libri. Prego, accomodati.

-Fa niente, davvero. – risposi, entrando.

La casa era stata sistemata a mo' di ambulatorio. Nel soggiorno erano stati disposti diversi lettini. Vidi varie porte. Mi chiesi quale fosse la dispensa dei medicinali.

-Io sono Denise. – si presentò – Diciamo che faccio da infermiera, anche se non lo sono a tutti gli effetti. Quindi se hai bisogno di qualcosa di serio ti tocca aspettare Pete. E' lui il vero dottore.

La rassicurai.

-Tranquilla, non è niente di urgente. Una scemenza, anzi. – dissi, fingendomi tranquilla – Comunque, mi chiamo Kendra.

Sembrò esserne sollevata. Forse non era ancora molto ferrata nella materia, ma data la grande presenza di libri sparsi sul pavimento, credo che si desse un gran bel da fare.

-Bene Kendra. – sorrise, aggiustandosi gli occhiali – Di cosa hai bisogno? 

Non avevo intenzione di sbandierare ai quattro venti che me l'ero spassata la notte precedente. Avevo bisogno di una scusa plausibile, qualcosa che non fosse troppo articolato, qualcosa di banale ma sensato. In tal modo avrei potuto osservare l'ubicazione dei medicinali. Sarei entrata dal retro in un secondo momento, magari da una finestra. E per la cronica, non si tratta di furto. Era più una necessità impellente.

-Ti sembrerà strano, visto che veniamo dall'esterno, ma sto morendo per uno stupido mal di testa.

Rise, per mia fortuna.

-Anche Glenn è stato qui per la stessa cosa. – informò, avvicinandosi all'ultima porta sulla sinistra – Non è che avete alzato troppo il gomito ieri?

Bene, come scusa aveva retto senza problemi.

-Forse. – esclamai, in modo che potesse sentirmi anche se nell'altra stanza.

Tornò con un pacchetto di aspirine.

-Tieni. – fece una smorfia – Anche per gli altri.

Aveva capito che le serata era stata bella alcolica.

-Non eri alla festa, giusto? – chiesi, afferrando l'oggetto.

-Esatto. Le feste e cose del genere non fanno proprio per me.

La guardai dispiaciuta. Sembrava tutto sommato una ragazza simpatica. Era paffuta, bionda. Mi dava l'idea di essere molto intelligente e molto sola, sebbene non ne sapessi il motivo. Comunque la ringraziai ed uscii. Misi in tasca la scatola sottile e mi guardai attorno per capire se potevo agire indisturbata, senza occhi indiscreti addosso. Feci il giro della casa, una volta aver spiato Denise. Era seduta a terra a leggere un altro mattone di Medicina. Sembrava un libro di Anatomia. In un attimo fui sul retro. Qui, fortunatamente, nessuno poteva vedermi, grazie alle grandi ed alte siepi che costeggiavano il giardino. Potevo quindi muovermi con calma. Raggiunsi la finestra che doveva allinearsi con il magazzino, sperando di non sbagliare. Purtroppo un parasole scuro non mi permise di osservarne l'intero. Tastai la cornice della finestra, cercando il punto giusto dove sforzarla, ma a mio stupore era già aperta. Forse in questa comunità nessuno trasgrediva, tanto che non c'era bisogno di bloccare le serrature degli infissi. Quando ero sul procinto di alzarla, essendo questa a scorrimento, udii dei rumori. Merda. Lasciai immediatamente la presa, appiattendomi contro la parete. Questa si aprii ed io deglutii già nel panico. Se mi avesse beccata non avrei saputo come dare un senso alla situazione. Ma non fu Denise ad affacciarsi, bensì qualcun altro. Daryl sgattaiolò fuori senza vedermi, almeno in principio, e chiuse la finestra con una mano cercando di non far rumore. Appena si voltò e mi vide, si pietrificò. Incrociai le braccia al petto.

-Buongiorno (?) – dissi incerta.

-Oh, anche tu qui.

Ci guardavamo seri come per non tradire l'enorme, e non esagero, imbarazzo che si era creato.

-Suppongo per lo stesso motivo. – osservai, fissando la sua mano.

Teneva qualcosa in pugno. Avrei scommesso l'anima che fosse entrato per rubare le stesse pillole anticoncezionali che tanto bramavo. Me le lanciò e le afferrai al volo. Una volta in mio possesso, le osservai, due pillole ovali gialle ed arancioni.

-Almeno non sono dovuto venire a cercarti.

Fece per andarsene, ma lo bloccai.

-Dobbiamo parlare.

Si avvicinò serio al mio volto.

-Non c'è niente da dire. Questo è quanto. – sussurrò con fare affatto gentile.

Lo bloccai di nuovo, insistendo.

-Daryl dannazione. – sbottai – Ti avevo avvertito, te lo avevo detto che ce ne saremmo pentiti.

-Quindi? – grugnì, allargando le braccia come se non capisse – Cosa vuoi che ti dica, che avevi ragione?

I suoi modi di fare mi stavano ferendo più del solito. Era come se la notte scorsa mi avesse privata del mio scudo, della mia armatura, delle mie barriere. Vederlo lì di fronte a me impassibile, quasi non fosse successo assolutamente nulla fra noi, mi spezzava. Fissavo quei suoi glaciali occhi nella speranza di scorgere qualcosa, qualcosa che lo tradisse, qualcosa che mi facesse capire che stava soltanto fingendo, come per mascherare i propri sentimenti. Il che era possibile, dato il carattere complicato che si ritrovava. Ma non vi era traccia alcuna di queste possibilità. Le sue iridi sembravano sincere. Ero davvero io l'unica ad essersi fatta delle aspettative su di noi? Ero davvero io ad essermi legata emotivamente in quel letto? Mi sentivo una stupida. Gli lasciai il braccio che stavo stritolando inconsciamente, arretrando di qualche passo come se volessi discostarmi dal mio stesso carnefice.

-Perciò, è stato solo sesso. Giusto? – chiesi inespressiva.

-Ovviamente. – rispose freddo – Avevo solo voglia di divertirmi un poco.

All'udire di quelle parole cacciai immediatamente in bocca quelle schifose pillole, uccidendo a priori anche la più minuscola e remota probabilità di restare incinta di quel bastardo.

-Buono a sapersi. – sentenziai, lasciando il giardino.

Una parte di me desiderava che mi raggiungesse, che si scusasse, che mi dicesse di essere stato un egoista bastardo, ma che era pronto per qualcosa di serio, o semplicemente che si scusasse per i suoi modi privi di tatto. Non volevo obbligatoriamente una fine romantica nella nostra relazione, dopotutto non sapevo nemmeno se lo amassi o odiassi, non sapevo assolutamente cosa diavolo volessi da lui, ma era chiaro che l'approccio usato era del tutto sbagliato. Insomma, mi aveva appena detto che ero stata una botta e via, niente di più e niente di meno. Una sana e innocente scopata. Camminavo a testa bassa, fissando le punte degli anfibi adesso lucide. Riuscivo davvero sempre a complicarmi la vita, mai una volta che avessi un attimo di pace. Incrociai Abraham seduto sugli scalini di una delle nostre case. Si massaggiava le tempie. Gli lanciai la scatola di aspirine ai piedi ed egli mi ringraziò con un cenno. Tutti se l'erano spassata in un modo o nell'altro, uscendone illesi emotivamente ma distrutti fisicamente. Io, al contrario, mi ero distrutta completamente. Entrai in casa e staccai la giacca da quella maledetta luce in cucina, come per sbarazzarmi di un ricordo di quella notte. Raggiunsi il cancello principale intenzionata a rendere il giubbotto a Spencer e ad uscire per spaccare la faccia a qualche putrido. Avevo un impellente bisogno di sfogarmi o avrei ucciso qualcuno, chiunque mi sarebbe capitato a tiro o chiunque mi avrebbe innervosito, non aveva importanza di chi si trattava. Spencer si affacciò dalla sua postazione sorridendomi, ma intuì dal mio sguardo che ero di brutto umore. Scese per prendere la giacca e ringraziarmi, ma per mia fortuna non aggiunse altro. Aveva capito che non ero nello stato emotivo per chiacchierare come se niente fosse e per questo lo apprezzai. Tornò immediatamente alla propria occupazione, lasciandomi fare come volessi. Stavo per aprire il cancello ed uscire quando qualcuno mi trattenne per un braccio, obbligando il mio corpo a voltarsi. Avrei voluto scorgere il volto di Daryl, ma vidi Rick.

-Cosa vuoi fare? – domandò nervoso.

Lo osservai meglio. Indossava una divisa da poliziotto.

-E questa cos'è? – chiesi, indicandolo dalla testa ai piedi.

-Non cambiare discorso.

Sbuffai. Non avevo voglia di altri inutili bisticci.

-Volevo uscire, è un problema forse?

-Certo che lo è. – osservò arrabbiato – Non hai dietro nemmeno un'arma.

Mi guardai la vita come se fossi convinta di avere il mio arsenale con me, quasi mi fossi dimenticata di essere ad Alexandria completamente disarmata.

-Cazzo. – sibilai, rendendomi conto di quanto fossi cogliona.

-Sei ancora ubriaca per caso? – domandò accigliato.

Scivolai a terra, sedendomi con la schiena poggiata al cancello.

-Magari. – confessai.

Aveva capito che qualcosa non andava, ma era troppo arrabbiato ed orgoglioso per chiedermelo.

-Deanna ha nominato me e Michonne poliziotti. – informò – Insomma, abbiamo il compito di tenere al sicuro la cittadina.

-Capisco. – parlai affatto interessata – Fa uno strano effetto vederti vestito così, ma ci stai bene.

Fece una smorfia squadrandosi dubbioso e poi si allontanò per fare la ronda fra le vie.

-Non azzardarti ad uscire. – ordinò ormai distante.

Rimasi lì a sedere col naso all'insù sperando di svegliarmi nel mio letto, magari ancora a fianco di Daryl. Forse avremmo dovuto parlare, chiarirci prima che fosse mattina. Probabilmente le cose sarebbero andate diversamente. Ma erano tutti se e forse, niente di concreto. Soltanto supposizioni inutili. Passai poi a fissare la gente passeggiare o tagliare l'erba del giardino con un tranquillità tale da farmi impazzire. Fortunatamente il mio campo visivo fu bloccato, obbligato ad inquadrare delle gambe magre fasciate da una divisa blu.

-E' proprio una bella mattinata, non trovi Michonne? – chiesi ironica.

-Ho come la sensazione che qualcosa non sia andato per il verso giusto.

Inclinai la testa e i riccioli mi ricoprirono il volto. La poliziotta appena assunta si sedette al mio fianco, massaggiandomi la schiena come se fossimo amiche da una vita. Da quando ci eravamo trasferite, si era stranamente avvicinata. Non mi lamentavo. Meglio lei che qualcun altro.

-Vuoi parlarne?

Soffiai, spostando leggermente una ciocca ci capelli dalla faccia.

-Lo prendo per un no.

La guardai affranta.

-Colpa sua? – domandò, scrutando avanti a sé.

Spostai la sguardo e notai Daryl parlare con Aaron. Stavano camminando nella direzione della casa di quest'ultimo.

-E questo lo prendo come un sì. – esclamò.

-Cosa? – domandai, alzando finalmente la testa.

Rise.

-Avevi una sguardo della serie 'Ringrazia il cielo che non ho un lanciafiamme, perché altrimenti..' .

Mi imbronciai, tornando a fissare l'arciere. Era così rilassato.

-Se solo lo avessi. – sbuffai, riferendomi all'arma.

Mi afferrò per un braccio e mi obbligò a tirarmi su. Probabilmente aveva già capito cos'era successo fra me e Daryl, non che non fosse facile intuirlo.

-Sono uomini. – parlò, prendendomi il volto fra le mani – Non cambieranno mai. 

-Davvero rassicurante. – biascicai, avendo la sue mani pigiate sulle guance.

Ridacchiò lasciandomi il volto libero.

-Non sono brava in queste cose. – affermò impacciata – E poi sono troppo emozionata.

Si vedeva che le dispiaceva per la sottoscritta, ma allo stesso tempo era davvero felice per il lavoro che le era stato assegnato. E sinceramente, lo ero anch'io. Questo posto ci stava permettendo di cominciare una nuova vita, ci stava concedendo una seconda chance. Sospirai, sorridendo.

-Non ti preoccupare, mi è già passata. – mentii – Adesso va' a lavorare, scansa fatiche.

Mi abbracciò in una stretta asfissiante e tornò al proprio impegno, più raggiante che mai. Avrei voluto trovare anch'io qualcosa da fare. Deanna alla festa ci aveva detto che avrebbe pensato a quale compito fossimo più portati. Stavo soltanto aspettando che comprendesse il mio ruolo. Preferivo esser obbligata a fare qualcosa, giusto per distrarmi. Ora che non avevo niente da fare, nessun vagante da uccidere, nessun animale da cacciare, nessun riparo da trovare, le giornate scorrevano più lentamente del solito. Mi rigettai a terra, battendo una schienata al cancello. Avevo preso male le misure.

-Devi proprio stare qui? – parlò Spencer.

Sbuffai.

-Perché, ti do noia?

Staccò gli occhi dal mirino e si affacciò.

-Mi distrai.

-Ma se non c'è nessun putrido.

Non udivo alcun rumore dall'esterno. La strada doveva essere pulita.

-Sono parecchio lontani. – spiegò – Ma sto cercando di cecchinarli.

Lo guardavo provarci, prendere la mira e sparare. Il silenziatore fatto in casa sembrava ottimo. Ma a giudicare dalle smorfie, non riusciva a prenderli in testa.

-Da' qua. – borbottai, salendo la scala – Ti faccio vedere come si fa.

Mi guardò con un sorrisino indispettito, come se pensasse che non ne fossi capace. Non mi passò il fucile, anzi, lo strinse maggiormente.

-Non è che perché sei stata fuori, allora sai come si fa. Sprecheresti proiettili.

Mi massaggiai la tempia, cercando di essere pacata. Non volevo litigare, anche se molto nervosa. Afferrai la canna dell'arma e gliela strappai dalle mani, imbracciandola.

-Sono stata nell'esercito, stronzo. – spiegai, controllando il mirino.

Fece un passo indietro per osservarmi meglio. Si accorse che sapevo impugnarlo per bene, ma potevano esserci svariate spiegazioni. Non voleva credermi. Forse si sentiva ferito nell'orgoglio, non voleva ammettere che una ragazza fosse più capace.

-Tu? – ridacchiò incredulo – Mi prendi in giro?

-E perché dovrei? – risposi con una domanda, ricaricando il fucile. – Forze speciali, per l'esattezza.

Scosse la testa, incrociando le braccia al petto. Perché era così difficile credermi? Lo guardai con occhi da sfida.

-AR 15. – illustrai, maneggiandolo – Fucile semi automatico. Origine americana. In servizio dal 1958. Ce ne sono diversi tipi, ma vedo che lo avete equipaggiato come fucile di precisione. Peso 3 – 4 kg. Proiettili 5.56×45mm NATO.

Spencer mi fissava a bocca aperta. Mirai la testa di un putrido zoppicante. Sembrava un ragazzo, per quello che ne restava. Premetti il grilletto. Aveva il giusto rinculo. Il vagante si accasciò al suolo.

-Velocità di fuoco..mh..siamo sui 975 m/s. – aggiunsi, ripassandogli il fucile.

-Wow. – esclamò, passandosi una mano fra i mossi capelli – Non l'avrei mai detto.

Gli feci cenno di provare. Era il suo turno. Si posizionò cercando di non ridere.

-Perché poi? – domandai curiosa – Perché sono una donna?

Fece spallucce, chiudendo un occhio per mirare con più precisione.

-No. O forse sì, non lo so. – rispose ancora incredulo – E' che sembri una ragazza così dolce.

Risi.

-Lo dici solo perché non hai vissuto con me qualche giorno là fuori.

Avrebbe sicuramente cambiato idea. Sorrise e sparò ad un putrefatto dai lunghi capelli mori. La testa si aprì. Parte del cranio volò via. Cadde al suolo, ma continuò a strusciare.

-Dannazione. – borbottò.

Posai due dita sul mirino, aggiustando con l'altro braccio la sua postura.

-Se con il rinculo la canna ti sfugge in alto, allora mira qualche centimetro più in basso.

Si scostò dal mirino per guardarmi, ma gli tirai una sberla in fronte.

-Concentrati sugli zombie, scemo. – lo ammonii.

Era importante che imparasse ad utilizzare al meglio l'arma, in caso di necessità. Era sempre probabile che qualche gruppo potesse attaccare Alexandria. Forse Maggie aveva davvero ragione. Avremmo dovuto rafforzare le mura, addestrare gli abitanti. Mi sarebbe piaciuto allenare qualche fessacchiotto come Spencer. Agganciò il bersaglio e fece fuoco. Il putrido cadde a terra con il cranio frantumato. Fu così che passai la mattinata nella postazione di guardia col novellino, parlando di armi e quant'altro. Migliorò col passare delle ore. Dopotutto, non ero affatto male come insegnante.

Angolo autrice
Mi aspetto gli insulti 🙈

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