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7

ROSEMARY

Il pomeriggio mi esercitai al piano per ben tre ore. Ero esausta. Forse Georgie non aveva tutti i torti quando diceva che dovevo pensare a divertirmi. Ma io ero più romantica e sensibile di lei. Solo una volta mi ero legata a un ragazzo: avevo quindici anni e mi stavo preparando per gli esami d'ammissione all'anno seguente. La Moz-Art era una delle scuole di musica più prestigiose e non era per niente facile rimanerci. Non bastava avere passione. Servivano forza di volontà, concentrazione e (lo ammetto) anche due genitori con un buon conto in banca. Le borse di studio erano limitate.

Conobbi Paul nella biblioteca della scuola. Dopo uno scambio di sguardi, si avvicinò e mi propose di studiare insieme. Tra i libri, ci innamorammo. Poi si diplomò e decise di lasciarmi per un motivo ancora oggi incomprensibile. La mia reazione? Ci rimasi così male che non mi presentai agli esami. Mio padre dovette usare tutte le sue conoscenze per farmi sostenere l'esame a parte. Spiegò al preside Pennet e alla commissione che ero malata e per quella volta chiusero un occhio. Lui con me fu abbastanza indulgente, al contrario di mia madre che mi proibì di uscire per un mese e mi disse che se fosse ricapitata una cosa simile non mi avrebbe più salvata. E probabilmente, mi avrebbe iscritta di nuovo in una stupida scuola di ballo.

Da quel momento, avevo abbandonato l'idea di legarmi di nuovo a qualcuno. Avevo paura di soffrire ancora. L'amore rende impotenti e, quando ci sei dentro, è la fine. Ed era anche per questo che mia madre era diventata così severa ed esigente. Aveva il timore che potesse ricapitare.

Ricordare Paul mi innervosì e decisi di preparare un bagno caldo per rilassarmi. Riempita la vasca, mi spogliai e mi immersi. Chiusi gli occhi e ripensai alla mattinata con Robert. Era stato piacevole fare colazione con lui, mi aveva ascoltata. Io di lui, invece, non sapevo niente.

***

«Rose, Rose, sveglia!», gridò mia madre. «Rose, svegliati! Vuoi rimanere nel letto, stamattina? Sono le otto!»
Che cosa? Le otto? Spalancai gli occhi. Accidenti! Non ho proprio sentito la sveglia. Com'è possibile?
«Buongiorno, mamma», risposi con un filo di voce e gli occhi ancora assonnati. «Mi alzo subito, tranquilla». Sbadigliai, allungai le braccia per stiracchiarmi, poi afferrai il cuscino e me lo portai sul viso. Quella luce era pericolosa di prima mattina.
«Muoviti che fai tardi!»
Sì, se no che succede? Mi bocciano, per caso?
Sbuffai. «Nemmeno il giorno del mio compleanno?» Sentii la porta chiudersi. Non mi avrà sentita. Che brutto risveglio da maggiorenne.

Arrivai a scuola con quindici minuti di ritardo. Per fortuna, il professor Rogers fece finta di nulla e non interruppe la lezione. Non mi ero svegliata bene e speravo che quella giornata si concludesse meglio.

«Auguri, ritardataria. Pensavo che mi avresti offerto la colazione», mi sussurrò all'orecchio Georgie.
La guardai, sorrise beffarda, e risposi: «Ti offro il pranzo, se vuoi». Feci un occhiolino, poi iniziai ad ascoltare la lezione.
«Preferisco da bere. Andiamo in un locale movimentato stasera...», mormorò maliziosa.
«Io non bevo», replicai senza guardarla.
«Io sì, invece. Dai che ci divertiamo!»
Ci pensai su, poi incrociai il suo sguardo e sorrisi. «Vedremo».

Alle quattordici, concluse le lezioni, Sam ci raggiunse nell'atrio della scuola.
«Buon compleanno!», gridò correndo verso di me. Aveva lo chignon spettinato e le scarpe da ballerina ancora ai piedi. Alcuni studenti e professori si girarono a guardarmi e io arrossii.
«Grazie», dissi abbracciandola.
«Ma hai appena finito di fare sesso?», la scrutò Georgie.
«Perché?», chiese stordita.
«Ti sei guardata allo specchio?» Scoppiò a ridere. «Eppure ne avete così tanti...»
Risi anche io.
«Rose, davvero sembra che ho fatto sesso?», mi domandò preoccupata.
Annuii con convinzione e ironizzai: «Ma solo per le scarpe, tranquilla». Io e Georgie tornammo a ridere.
Si fissò i piedi. «Ah, già, le scarpe... Le ho ancora ai piedi».
«Non preoccuparti, a noi non devi spiegare nulla», la rincuorò Georgie toccandole il braccio.
«Sì, infatti. Può capitare, tra una piroetta e un plié...», continuai con uno sguardo di comprensione.
«... di fare altre posizioni», aggiunse Georgie sottovoce.
«Ragazze, smettetela!», ci ammonì Sam. Si alzò su una punta, tolse una scarpa e fece lo stesso con l'altra. «Vogliamo pensare a come festeggiare un compleanno?» Mise una mano sul fianco, i piedi scalzi sul pavimento.
«Ma almeno è stato bello?», insisté Georgie con occhi civettuoli.
La mia amica danzatrice sospirò esausta, poi si voltò verso di me e sorrise. «Tesoro, cosa vorresti fare stasera?» In quel momento, Robert ci passò di fianco. Stava andando via con una collega, quella dai folti ricci neri. Mi regalò un breve sorriso e poi uscì dalla Moz-Art.
«Ehi, Rose, ci sei?», mi richiamò Sam, mentre Georgie mi tirava per il braccio.
Ritornai sui loro volti. «Non ne ho idea», ammisi.
«Io ti ho detto cosa dovresti fare. Pensaci», disse Georgie spavalda.
«A cosa dovresti pensare?», chiese Sam mentre si infilava un paio di sneakers.
Sospirai. «Ragazze, dai, vi dirò nel pomeriggio. Ora andiamo a casa».
Annuirono un po' deluse, ci dirigemmo fuori la Moz-Art e le salutai.

Stavo per entrare nella Mini Couper, quando una mano mi toccò la spalla. Trasalii, poi mi voltai. Era Robert.
Sorrise. «Ehi, ti ho spaventata?»
«No, niente affatto». Appoggiai la schiena alla portiera.
Si grattò la nuca. «Mi stavo chiedendo una cosa. Insomma, ti andrebbe di uscire stasera?»
«Mi stai chiedendo un appuntamento?»
Socchiuse un po' gli occhi, come se stesse cercando la risposta migliore. «Sì».
Lo fissai indecisa. Non sapevo cosa dire. «Beh, Robert, non...»
«Scusa, forse sono stato troppo sfacciato», mi interruppe. «Non devi dirmi per forza di sì». Sorrise con dolcezza. «Posso lasciarti il mio numero? Così, se avrei voglia di uscire, di fare una passeggiata o di bere un ginseng, potrai contattarmi tu».
Lo guardai, sorpresa da quella sua iniziativa. Grazie, mi hai facilitato le cose. Anche se non ne ero del tutto convinta. «Va bene, non c'è problema», gli risposi, poi sfilai il cellulare dallo zaino, mi dettò il numero e lo salvai in rubrica.
«Okay, io vado. Ci sentiamo, allora», disse e mi fece un occhiolino.
Annuii e lo salutai.

Quando tornai a casa, trovai mia madre nell'ingresso con una torta tra le mani. «Buon compleanno», disse e mi baciò sulla fronte, come se fossi ancora una bambina.
La guardai con sorpresa. «Grazie, mamma».
«Scusa per stamattina. Non avrei dovuto gridare in quel modo...»
Sorrisi. «Non fa niente».
«Andiamo in cucina, ora. Il pranzo è pronto».
Lasciai per terra lo zaino e la seguii.
Quando terminammo di mangiare, piantò una candelina al centro della torta ricoperta di panna e fragole. La canzoncina non me la cantò, però mi chiese con insistenza: «Esprimi un desiderio!» Così, prima di soffiare, pensai: Spero che mia madre resti sempre così.

Il pomeriggio lo passai a rimuginare sulla proposta di Robert, ma non ero sicura che trascorrere il compleanno con lui fosse l'idea migliore. In fin dei conti, lo conoscevo da poco. Mi alzai dal letto e decisi di suonare un po'. Forse la musica mi aiuterà a scegliere. Mezz'ora dopo, però, lo squillo del cellulare interruppe la mia meditazione. Era Georgie che mi chiedeva notizie per la serata. Le proposi di andare su Skype e di avvisare anche Sam. Avevo bisogno di un loro consiglio.
«Allora, hai deciso cosa fare?», chiese Sam dall'altra parte del pc.
Georgie sbuffò. «Secondo me, no».
«Ragazze, il problema è un altro», dissi seria.
«Non mi dire che tua madre ha invitato parenti a casa!», si allarmò Sam.
«Ah, ho capito», intervenne Georgie con sicurezza.
La guardai meravigliata. «Hai capito?»
«Non hai nulla da mettere, giusto?», scattò dalla sedia e si allontanò verso l'armadio alle sue spalle.
Sbuffai, Sam invece scoppiò a ridere. Vidi Georgie scartare una sfilza di vestiti. «Questo no, quello nemmeno». Secondo me, stava cercando qualcosa che non aveva. Le concessi solo cinque minuti nell'armadio di Narnia, poi la richiamai: «Georgie, basta! Non è quello il problema!»
Si girò verso di me con ancora un vestito tra le mani. «Sono le scarpe?»
Sam si stava divertendo un mondo, le lacrimavano persino gli occhi.
Sospirai. «Torna qui per favore». E con lo sguardo confuso, ritornò a sedersi. «Non c'entrano i vestiti, le scarpe o il trucco. C'entra un ragazzo, okay?»
«Davvero?», gridarono entusiaste.
Annuii. «Sì».
Georgie sbuffò divertita. «Potevi dirlo prima. Per colpa tua, ora sembra che sia entrato un ladro nella stanza».
Ridacchiai.
«Chi è questo tizio?», chiese sorridente Sam.
«Non importa chi è. Mi ha chiesto di uscire stasera ma non penso di poter accettare...»
Georgie si avvicinò alla webcam e mi lanciò uno sguardo ammiccante. «Tesoro, se prometti che te la spasserai e che mi offrirai da bere la prossima volta... allora sì che puoi accettare».
«Rose, pensavi che ci saremmo offese se avessi accettato senza dircelo?», chiese Sam colpita.
Sorrisi. «Beh, anche. Robert lo conosco da poco, invece voi...»
«Robert?», intonarono.
«Ehm, sì».
«Robert, Robert...», rifletté Georgie con una mano sotto il mento. «Cognome?»
Scrollai le spalle. «Boh, non lo so».
«Come l'hai conosciuto?», indagò circospetta. Stavo per risponderle, quando aggiunse: «Non mi dire in un sito di incontri!»
La fissai contrariata. «Cosa? No! È vero che non esco spesso e che non conosco molta gente... ma non sono quel tipo di ragazza».
«Stavo scherzando, calmati!», disse ridendo.
Guardai l'ora sul cellulare: le sei. Dovevo prendere una decisione. Sbuffai. «Dovrei accettare, secondo voi?»
«È carino?», domando Sam.
Sorrisi. «Molto».
«Sexy?», chiese Georgie.
«Molto anche quello», ammisi. Che caldo! Stavo di sicuro arrossendo!
«Allora, vai! È solo un appuntamento. Consideralo come un modo alternativo di trascorrere il compleanno», mi consigliò la mia amica d'infanzia.
«Poi se ci vai a letto, tanto di guadagnato», rise Georgie.
«Ma cosa dici? Non potrei mai!», esclamai sconcertata.
«Ma cosa ti salta in mente?», la prese in giro Sam. «Rose è romantica come me», mi fece un occhiolino e io risi.
«Sì, certo!», sbuffò Georgie. «Senza contare il tipo di oggi».
Tutte e tre scoppiammo a ridere, poi le ringraziai e decisi di mandare un messaggio a Robert. Mi imbarazzava troppo telefonargli.

"Ciao, sono Mary. :) Dove ci vediamo?"
La risposta non tardò ad arrivare:
"Alle 21.00 davanti alla Moz-Art?"
"Perfetto!"

Poi mi assalì il panico. Cosa mi metto? Aveva ragione la svaligiatrice di armadi! L'abbigliamento era un problema. Non ero mai stata un'amante dello shopping, ma iniziai comunque a rovistare nei cassetti alla ricerca del capo perfetto. Dopo mezz'ora, scelsi un vestito nero senza spalline, sobrio ed elegante. Il meglio che potessi avere. Infilai un tacco modesto e un paio di ballerine nella borsa, mi truccai più di quanto facessi di solito e ondulai un po' i capelli. Di solito non amavo fare i selfie, ma mi scattai una foto e la mandai a Sam e Georgie. Approvarono entusiaste! Okay, ero pronta per andare. 

«Sei bellissima, amore», disse mia madre mentre scendevo le scale.
Sorrisi.
«Dove andrai con Sam e Georgie?»
Mi infilai la giacca, poi la guardai titubante. «Non lo so. È una sorpresa», sorrisi e uscii di casa. Non mi andava di dirle la verità. Non quella sera, almeno. Mi piaceva quando era di buon umore.

In macchina fui colta da un attacco d'ansia. Erano due anni che non uscivo con un ragazzo. Inspirai, espirai. Su, è solo un appuntamento. Tolsi i tacchi, li sostituii con le ballerine e partii.
Di giorno, sulla Massachusetts Ave c'era un flusso di studenti che chiacchieravano ai bar o passeggiavano all'Harvard Square. Di sera, diventava un posto isolato e anche un po' inquietante. Per fortuna avevo la macchina.
Appena svoltai l'angolo, lo vidi: era illuminato da uno dei lampioni del marciapiede. Indossava un paio di pantaloni scuri e una giacca di pelle nera. Parcheggiai qualche metro prima, mi rimisi i tacchi e gli andai incontro. Inspirai, espirai. Le mani iniziarono a sudare e il cuore aumentò i battiti. Robert incrociò il mio sguardo, sorrise e io ricambiai.
«Ciao, Mary».
«Ciao, aspetti da molto?»
«No, signorina. Sono arrivato da poco». I suoi occhi mi scrutavano deliziati, poi aggiunse con un sorriso: «Andiamo? Ho prenotato in un ristorante qui vicino».
Annuii. «Va bene».
L'aria era più fresca del solito, nonostante fosse una serata primaverile. Camminammo l'uno accanto all'altra in un imbarazzante silenzio. Due isolati dopo, arrivammo in un ristorante italiano, Il Barone.
«Ci sei mai stata?», mi chiese prima di entrare. Risposi di no. Non avevo mai mangiato cibo italiano ed ero curiosa di assaggiarlo.

Il ristorante aveva mura in pietra che davano la sensazione di essere in un castello, tovaglie bianche e celesti su tavoli tondi, candele e fiori, un tocco di eleganza. Mi sentivo coccolata da quell'aria calda e invitante, mista al profumo di cibo che dall'aspetto sembrava squisito. Il cameriere però ci fece accomodare all'esterno. Mi dispiacque, fin quando non vidi la terrazza illuminata da tante lucine bianche. Sopra di noi, le stelle contribuivano a rendere l'atmosfera ancora più romantica. Rimasi senza fiato.

Era imbarazzante averlo di fronte. Lo guardai e sorrisi.
«Ti piace il posto?»
Annuii. «Davvero molto bello». Un fungo calorifero ci stava riscaldando perciò mi tolsi la giacca.
«Fa caldo?», mi chiese e notai come i suoi occhi si posarono sulle spalle nude e la scollatura a cuore. Mi sentii avvampare.
«Sì, abbastanza. A te no?»
«Non ancora». Aveva sul volto un'espressione seducente. Intimidita, abbassai lo sguardo e aprii il menu. Lo sbirciai fare lo stesso.
«Posso consigliarti qualcosa? Prendi le lasagne. Sono uno spettacolo».
«Davvero?»
Annuì. «Sì, e di secondo...», riabbassò gli occhi e scorse verso il basso col dito. «Preferisci la carne o il pesce?»
«Entrambi. Decidi tu», gli diedi fiducia con la speranza che i suoi gusti fossero simili ai miei.
Mi osservò con attenzione e caricò di un significato più profondo le parole, quando disse: «Okay, ti puoi fidare».
Il modo in cui mi aveva rassicurata mi fece irrigidire. Come se volesse in qualche modo tranquillizzarmi, come se qualcuno gli avesse parlato del mio passato. Afferrai il tovagliolo di stoffa appoggiato sulle ginocchia e lo stritolai nervosa. Non volevo che lui mi vedesse come un cucciolo indifeso, come una facile preda da far innamorare.
«Tutto bene?»
«In che senso?»
Robert mi scrutò con attenzione. «C'è qualcosa che non va? Sembri un po' tesa».
Scossi la testa. «No, sto bene». E mi sforzai di sorridergli. Dovevo provare a nascondergli i miei sbalzi d'umore, ma Robert non era un tipo distratto. Anzi, sembrava riuscisse a cogliere ogni mio spostamento, un'alzata di sopracciglia, un sospiro di troppo o la tensione delle mie spalle.
Robert annuì, ordinò due piatti di lasagne, una frittura di mare e una bottiglia di vino bianco. Poi i suoi occhi si spalancarono come se avesse dimenticato qualcosa e aggiunse: «Ah, cameriere?»
Il ragazzo ritornò verso di noi e sorrise.
«Per favore, ci porti anche una bottiglia d'acqua naturale». Robert mi guardò e strizzò un occhio.
«Naturale? E se l'avessi voluta gasata?», lo punzecchiai.
Mi osservò divertito, una mano giocherellava con la mollica del pane. «Se l'avessi voluta, mi avresti corretto, no?» Sollevò un sopracciglio.
Che mascalzone! Aveva sempre la battuta pronta... Ridacchiai e gli diedi ragione.
Poi tutto il resto sembrò sparire. C'erano soltanto i miei occhi dentro i suoi, il cuore che palpitava più velocemente. Mi persi in quel mare infinito, non sapevo come ritornare sulla terraferma. Dovevo parlare, trovare un argomento di discussione, ma la bocca era secca e il mio cervello non era in grado di formulare frasi che non fossero sciocche o senza senso. Al bar, non avevo avuto difficoltà. Quella sera, invece, sentivo nell'aria delle forti vibrazioni. Due ragazzi messi in tiro a una cena romantica, un posto suggestivo, la musica di sottofondo. Sembrava di essere in un film. Tutto perfetto. Troppo bello per essere vero.
«Mary?» Gli occhi di Robert si socchiusero straniti.
«Sì?» Non potevo continuare in quel modo. Perché la mia mente si estranea dal mondo così facilmente?
«Sicura di stare bene?»
Annuii convinta. «Sì, non preoccuparti». Cosa posso mai dirgli? Che il mio corpo sembra vibrare quando mi guarda in quel modo?
«Com'è andata la giornata oggi?», domandò.
«Bene, e a te?» Mi tornò in mente la scena con le mie amiche nell'atrio della scuola, il momento in cui Robert mi era passato davanti sorridendo. Poi pensai alla divertente videochiamata e mi scappò una risata.
«Perché ridi?» Robert mi fissò stralunato con in mano il calice di vino riempito a metà. Il cameriere era già passato a versarlo e io nemmeno me ne ero accorta!
«Ehm... beh», esitai. Sentivo la faccia andarmi a fuoco. «Stavo solo pensando a una cosa. Lascia stare».
Mi fissò incuriosito. «Dai, fai ridere anche me!»
Guardai il mio calice e lo sollevai. «Invece che ne dici se brindiamo?»
Sorrise scuotendo la testa. «Va bene, signorina, come vuole lei». Alzò il suo bicchiere e propose: «Alla nostra conoscenza?»
«Alla nostra conoscenza!»
I bicchieri tintinnarono, bevemmo un po' di vino, poi mi punzecchiò: «Comunque, mi hai incuriosito con la tua risata asociale. Non puoi comportarti così».
«Asociale?»
«Sì, esatto. Asociale è una risata non condivisa».
Scoppiare a ridere.
«Non farlo, non ridere!», mi puntò un dito contro divertito. «Questa, invece, è una risata impertinente! Non lo sapevi?»
Scossi la testa, la bocca coperta da una mano per trattenere un'altra risata. Tirai un forte respiro e mi calmai. Robert mi osservava in silenzio, serio, pronto a dirmi "No, non farlo!" se tentavo di ridere. Non sapevo a che gioco stessimo giocando, ma era divertente. Mi sembrava essere tornata bambina, ai tempi in cui per svagarmi bastava così poco. Ero finalmente rilassata, la mia mente non era più attraversata da paranoici pensieri.
«Ora ti senti meglio, vero?», chiese soddisfatto.
Lo guardai confusa. «Sì, ma non capisco».
Robert si avvicinò. «Mary, ascolta». La sua mano era a pochi centimetri dalla mia e sembrava volesse toccarla. «Me ne accorgo se qualcuno è nervoso o distratto. Devi stare tranquilla con me, okay?»
Non mi aspettavo parole simili e annuii stupita. «Okay».
Tornò dritto. «Questo gioco lo facevo sempre con mio fratello. Sai, quando i bambini fanno i capricci devi pur inventarti qualcosa di sciocco». Sorrise un po' imbarazzato mentre passava un dito sul bordo del calice.
«Hai un fratello più piccolo?»
Mi guardò e annuì. «Sì, ha quattordici anni».
«Deve essere bello avere un fratello». Bevvi un sorso d'acqua.
«Sì, e anche molto impegnativo. Devi dare il buon esempio».
Lo fissai colpita.
Arrivò il cameriere con la prima portata. Le lasagne avevano davvero un bell'aspetto.
Prima di addentarne un pezzo, mi chiese incuriosito: «E tu, non hai fratelli o sorelle?»
«Ehm, no, purtroppo», risposi. «Mia madre non può più avere figli». Mi strinsi nelle spalle, come a dire "Che ci vuoi fare? Pazienza".
Robert mi guardò pietrificato con la forchetta a mezz'aria. «Oddio, scusami! Non volevo».
«Non preoccuparti. Non potevi saperlo». Abbozzai un sorriso per rassicurarlo.
Annuì anche se era ancora desolato, poi mi incitò ad assaggiare le lasagne e gli diedi ragione: erano fantastiche!
Anche la frittura si rivelò una delizia e, una volta terminata, gli chiesi: «Ti piace la musica?» Nel frattempo, dalle casse risuonava My heart will go on, di Céline Dion.
Robert si pulì le labbra con il tovagliolo, poi rispose con un sorriso: «Sì, molto».
«Davvero? Suoni qualcosa?»
«Suonavo anche io il pianoforte. Mia madre era una pianista. È grazie a lei se ho imparato».
Lo guardai con curiosità. «Si è ritirata?»
Scosse la testa. «No, non si è ritirata». Bevve un sorso d'acqua.
«Ah, no?»
Stavo per chiedergli cosa fosse successo, quando lui con un sorriso più spento mi rivelò: «È morta in un incidente stradale».
Mi sentii in colpa. Senza volerlo, mi ero avvicinata a un argomento troppo personale. «Mi dispiace, Robert. Non volevo».
«Non preoccuparti», mi rasserenò. «Non potevi saperlo».
Sospirai affranta, poi domandai: «E tuo padre, invece? Suona anche lui?»
Bevve un sorso di vino. «No, anche lui è morto in quell'incidente. Che fortuna, eh?» Emise una risatina nervosa.
Lo fissai paralizzata, la bocca spalancata, il rimorso che cresceva a dismisura dentro di me. D'istinto, allungai il braccio e posai una mano sulla sua. «Scusami, davvero. Sono un disastro».
Robert sorrise. «Stai tranquilla», intrecciò le sue dita alle mie in un gesto spontaneo, come se l'avesse fatto mille altre volte, mi guardò e io smisi di respirare. Le guance si infuocarono per l'imbarazzo.
«Prima ho fatto anche io una figuraccia», mi ricordò ridendo. «Non male come primo appuntamento».
Risi. «Hai ragione. Io però l'ho fatta davvero grossa! Devi ammetterlo». Poi sciolsi l'intreccio delle nostre dita e aprii la bottiglia per riempirmi il bicchiere, un po' come scusa e un po' perché avevo sete.
«Aspetta, faccio io», si affrettò a dire, prese la bottiglia e mi versò l'acqua.
Sorrisi timida. «Grazie».
«Non hai fatto proprio nulla. Smettila di preoccuparti».
Mandai giù l'acqua, lo guardai sorseggiare il vino e pensai a qualcosa da chiedergli che non fosse imbarazzante o indiscreto. Poi però mi distrassi: Robert si era inumidito le labbra per leccare via alcune goccioline di vino. Un movimento lento e sexy. Gli osservai il labbro inferiore, era più carnoso rispetto a quello superiore. Avrei voluto toccarlo per testarne la morbidezza. Ma a cosa penso?
«Mary?», mi richiamò e incontrai il suo sguardo. Era sull'attenti come un soldato di fronte al suo superiore. «Ho qualcosa tra i denti per caso?», chiese incuriosito.
Scossi la testa. «No, no, sei perfetto. Cioè, voglio dire, sono perfetti». Scoppiò il solito calore dovuto all'imbarazzo. Era partito dalla faccia, fin su ad arrivare alle punte dei capelli.
«Sei gentile», rispose con uno sguardo divertito.
«Sai? Oggi è il mio compleanno!», rivelai per sviare il discorso.
Spalancò le palpebre per la sorpresa. «Davvero?»
Mi strinsi nelle spalle, imbarazzata. «Eh, già».
«Perché non me l'hai detto prima?»
Esitai. In realtà, me n'ero proprio dimenticata. «Beh, te l'ho detto adesso».
«Buon compleanno, allora!» Sorrise. «Arrivo subito». Si alzò, raggiunse un cameriere e gli riferì qualcosa.
Oh, no! Cosa vuole fare? Il cuore prese a battermi più velocemente. Poi ritornò a sedersi e lo fissai smarrita.
«Che hai?», chiese.
Scossi la testa. «No, niente». Ma avrei voluto chiedergli: "Dove sei andato? Hai intenzione di fare qualcosa che possa attirare attenzione?". Non volevo gli occhi dei presenti incollati a noi. Magari, qualcuno avrebbe pure battuto le mani. No, no! Per favore, no!
Poi arrivò il cameriere. Sorrise, appoggiò sul tavolo un pezzo di torta con sopra una candelina, l'accese e mi sentii avvampare. Non mi vorrà cantare la canzoncina? Ma per fortuna se ne andò subito.
«Su, spegnila ed esprimi un desiderio», mi incitò Robert con un sorriso.
No, un'altra volta!
Osservai la torta, gli occhi di Robert, poi di nuovo la torta. Cosa desidero davvero? Rialzai la testa, Robert aveva un'espressione interrogativa, e soffiai senza nemmeno guardare la candelina. Mi sorrise e io sperai che il desiderio che da tempo dimorava nel mio cuore diventasse finalmente realtà. Un amore vero, senza veli e rimpianti. Qualcuno per cui valeva la pena rischiare.

Quando uscimmo dal ristorante, decidemmo di fare una passeggiata. L'aria era fresca e piacevole. Robert aveva le mani nelle tasche del giubbotto e lo sguardo pensieroso. I suoi erano davvero dei bei lineamenti: mascolini e sexy se lo fissavi di nascosto, dolci se ti scopriva mentre lo facevi. Ed era proprio quello che era accaduto. Arrossii e distolsi lo sguardo.
Camminavamo a passi lenti e rilassati, in silenzio, nella tranquillità di quella stradina un po' isolata. Erano le undici e tutte le imposte e i recinti erano ben chiusi. Si sentivano solo i nostri passi e un paio di cani che abbaiavano in lontananza. Warren Street era una di quelle vie che bisognerebbe evitare di percorrere da soli, ma con Robert al mio fianco mi sentivo al sicuro.
D'istinto, ci guardammo e sorridemmo. Poi fui spinta dalla curiosità di fargli una domanda.
«Robert?»
Si voltò.
«Quanti anni hai?»
«Lo sai che non si chiede l'età?», mi prese in giro.
Ridacchiai. «Beh, se per questo, è alla donna che non si chiede». Mi bloccai e gli domandai seria: «O per caso lo sei? È tutta una copertura, vero?»
Robert mi fissò incredulo. «Dannazione!» Diede un gancio destro all'aria. «Ma come hai fatto?» Trattenni una risata, poi si avvicinò di più e mi irrigidii. «Ero certo di assomigliare a un ragazzo. Anzi, a un bel ragazzo», scherzò presuntuoso.
Feci roteare gli occhi. «Oh, ma quanta sicurezza che abbiamo!» Poi lo sguardo mi cadde sulle sue labbra, non riuscii a evitarlo. Anche lui fissò le mie. La mia bocca era così vicina alla sua che l'avrei sfiorata se solo mi fossi mossa di un solo centimetro.
Di punto in bianco, come se cercasse di sfuggire al bacio che sembrava volesse darmi, esordì: «Comunque, se tanto vuoi saperlo, ho...» Ma si interruppe quando sentimmo della musica. Non era lontana. Girammo l'angolo e capimmo da dove proveniva tutta quella confusione. Risate, applausi, schiamazzi. Due isolati più avanti, sulla Chelsea Street, avvistammo una folla.
«Ma che sta succedendo?», chiesi curiosa.
«Andiamo a scoprirlo, no?», mi prese per mano, il mio cuore sussultò, e corremmo verso lo sciame impazzito. I miei piedi intanto piangevano dal dolore. In quell'istante, mi chiesi perché le donne insistessero tanto a mettere i tacchi. Per sembrare alte? Basta trovare un uomo più basso e il problema è risolto, no?
Mancava poco all'arrivo, quando capitò qualcosa di impensabile, che si vede solo nei film. La scena comica di una ragazza imbranata. Tac! Un tacco si ruppe. Mi sentii come Jennifer Lopez in Prima o poi ti sposo, quando il tacco le si incastra in un tombino e l'affascinante Matthew McConaughey le salva la vita.
Robert mi acciuffò al volo, le mie mani sulle sue spalle, le sue intorno alla mia vita, i nostri occhi in contatto.
«Ops!», dissi imbarazzata.
«Appena in tempo!», commentò tra il divertito e il preoccupato. «Per fortuna che ti tenevo per mano», mormorò e mi guardò le labbra.
Mi raddrizzai all'istante, anche se "dritta" non era la parola più idonea, e mi tolsi le scarpe.
«Che stai facendo?»
«Me le tolgo, no? O vuoi avere accanto La torre di Pisa?»
Robert scoppiò a ridere. «Hai ragione. E scalza sia!»
«Tieni». Gli porsi i tacchi, «A te l'onore di buttarle».
Spalancò le palpebre, incredulo. «Le vuoi buttare?»
Socchiusi gli occhi. Pensavo non dicesse sul serio. «Sono solo un paio di scarpe!», scrollai le spalle. «E non ho nessuna intenzione di aggiustarle».
«Agli ordini, signorina». Fece il saluto militare e le gettò in un cestino per la spazzatura lì vicino. Io lo osservai divertita.

Poi ci avvicinammo al gruppo di spettatori per curiosare, anche se non era molto piacevole camminare scalza sull'asfalto. Mi sentivo inerme, temevo di farmi male, magari con un pezzo di vetro o qualcosa del genere.
Lo spettacolo lo aveva organizzato un artista di strada. Portava un cappello a forma di cono, un mantello viola, due lunghi baffi e a tempo di musica batteva le mani su un tamburo. Accanto a lui, una scimmietta con un papillon rosso sbatteva i piatti correndo felice. Poi il suo padrone fece finta di svenire e l'animale suonò ancora più forte come se ci incitasse a battere le mani per risvegliarlo. Ogni tanto, durante lo spettacolo, io e Robert ci guardavamo e ridevamo. Dopo l'imbarazzo e le gaffe iniziali, quell'appuntamento stava procedendo nel migliore dei modi.
Lo spettacolo finì, Robert lasciò qualche moneta e andammo via. Con l'allegria stampata ancora sul viso, percorremmo la strada del ritorno. Io la feci quasi tutta sulle punte. Ero stremata. L'asfalto era freddo e ruvido.
«Non ce la fai più, eh?», chiese Robert.
Lo guardai. «Tranquillo! Sto solo facendo qualche ripasso di danza classica».
Sbuffò divertito e dopo qualche minuto di silenzio si offrì di prendermi in braccio.
«No, ce la faccio». Tirai un forte respiro. L'idea che potesse farlo mi imbarazzava troppo.
«Insisto».
«Robert, dai, sono pesante», tentai di scoraggiarlo, ma non funzionò perché mi sollevò in un batter d'occhio. Mi coprii gli occhi con le mani per la vergogna.
«Si tenga forte, signorina. E se vuole, può anche guardare». Che spiritoso!
Mi scoprii piano gli occhi. Robert mi osservò beffardo, poi proseguì a camminare e io mi strinsi a lui. Avevo ceduto, mi ero arresa. Tra le sue braccia mi sentivo così vulnerabile! Ed era quello il punto. Bastava poco per farmi innamorare, però lui non avrebbe dovuto saperlo.

«Bene. Siamo arrivati», commentò davanti alla Moz-Art e mi guardò. Era il momento di farmi scendere, ma per qualche motivo non si mosse.
Avevo ancora le mani intorno al suo collo, tracciavo delle piccole linee verticali, dalla nuca verso il colletto della camicia. Avvertivo il suo calore sotto le dita. Non sapevo perché lo stessi facendo, era un gesto involontario, ma mi rilassava. Per un attimo, desiderai scendere più in basso per accarezzare qualche centimetro di pelle in più. Un'idea irrazionale, la mia mano non sarebbe mai passata dal colletto della camicia.
«Ti piace stare tra le mie braccia?»
Sussultai. «Cosa?» Levai le dita dal suo collo.
«Quante storie per niente», commentò divertito.
«Beh...» Spostai un momento lo sguardo, poi mi affrettai a dire: «Forse dovrei scendere». Appena toccai terra, i piedi pulsarono e mi sfuggì una smorfia.
Ammiccò. «Visto? Era meglio se non scendevi».
Risi. «Sì, mi sa che hai ragione».
Poi ci fissammo. Il mio piede che, nonostante il dolore, si muoveva speranzoso di riempire il silenzio. La serata stava giungendo al termine e non volevo che finisse in quel modo. «Quindi...»
Robert guardò in basso, incrociò i miei occhi e ridacchiò. «Sembri Cenerentola».
«Per l'orario, dici?»
«No, perché non hai le scarpe», spiegò divertito e mi accarezzò i capelli.
Sorrisi impacciata, poi riflettei: «Ti sbagli, Cenerentola perde solo una scarpa! Al massimo, posso sembrare la piccola Fiammiferaia».
Robert rise, le sue dita giocherellavano con i miei capelli.
Sospirai. Lo stomaco si contorceva per il nervosismo. «Ti sei divertito?» Anche se era ovvio, dopo tutto quello che era capitato, non mi venne nient'altro in mente. Non riuscivo a concentrarmi: i suoi occhi non smettevano di fissarmi, seri, come se stesse pensando alla prossima mossa da fare. Baciarmi o non baciarmi, probabilmente. E io, cosa dovrei fare se ci provasse? E se mi tirassi indietro, ci rimarrebbe male? Ma voglio davvero tirarmi indietro? È questo il punto.
«Tanto, e tu?», rispose. Lasciò i miei capelli, mi sfiorò il braccio e rabbrividii.
«Anche io», dissi, poi mi prese una mano, se la portò alle labbra e mi baciò le nocche. Quel gesto galante mi colse di sorpresa, non me l'aspettavo. Lo osservai stordita, non sapevo cosa dire.
Mi lasciò lentamente la mano. «Penso che ora dovremo salutarci. Se no Cenerentola perde la sua carrozza».
«Già, devo andare», mormorai. Il mio corpo rimase immobile, aspettando qualcosa che però tardava ad arrivare.
Robert con la punta delle dita mi accarezzò il volto. Poi la mano scivolò dietro la mia nuca, un brivido mi attraversò la schiena e... mi baciò la guancia. Due labbra morbide, un gesto lento e caldo, così vicino alle mie labbra che sembrava volesse raggiungerle, senza però farlo davvero.
Poi si distanziò, avvertii il suo respiro sulla pelle e un pizzico di delusione nel cuore.
Ci salutammo con quel bacio sospeso nell'aria. In macchina toccai la guancia e il calore di Robert era ancora lì, come se non volesse lasciarmi andare.

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