11
ROBERT
Alle quattro del pomeriggio arrivammo all'aeroporto di Seattle. I nonni erano all'uscita che ci aspettavano. Appena ci videro, abbracciarono forte Alex e lo riempirono di baci; io li salutai con freddezza e anche loro non furono da meno. Poi salimmo in auto.
«Alex, tesoro, hai fame?», gli chiese la nonna voltandosi.
Sorrise. «Sì, tanta». Anche io ce l'avevo, ma evitai di dirlo. Sapevo che non sarei stato preso in considerazione.
«Cosa vuoi mangiare?», continuò lei con premura.
Alex ci pensò su, poi chiese: «Andiamo al McDonald's?»
«Ma certo!» E ritornò a guardare davanti a lei.
«Alex, come è stato il viaggio?», domandò il nonno mentre guidava.
Sbuffò. «Lento e noioso».
«Ah, ma ti piacerà Seattle. È qui che è nata tua madre», replicò lui, poi mi guardò attraverso lo specchietto retrovisore. «Vero, Robert?»
Fui sorpreso dal suo richiamo. «Ehm, sì, gliel'ho detto anche io».
«Lo so che è nata qui...», borbottò Alex a bassa voce.
Alex e la nonna presero posto a uno dei tavolini, io e il nonno andammo alla cassa.
«Al telefono è stata un po' dura, mi dispiace», esordì il nonno mentre attendevamo il nostro turno. Io avevo lo sguardo fisso sui menù in alto, come se stessi scegliendo cosa ordinare. In realtà, non mi andava molto di riprendere quel discorso. Volevo solo passare una giornata serena con Alex, prima di lasciarlo nelle loro mani.
«Vogliamo solo il meglio per Alex. Non te lo porteremo via».
Incrociai i suoi occhi azzurri come i miei, sembravano sinceri, e annuii. «Lo spero. È l'unica cosa che mi rimane».
Il nonno posò una mano sulla mia spalla. «Hai anche noi, Robert. Ricordatelo».
Avvertii gli occhi più umidi e distolsi lo sguardo. «Grazie», mormorai un po' stupito dalla sua affermazione. La folla era diminuita, a breve avremmo ordinato.
«Lo sai? Assomigli molto a tua madre». Lo guardai con interesse.
«Voleva fare sempre di testa sua. Non immagini la nonna quanto si arrabbiava!», rise e io feci lo stesso. Poi mi fissò. «Lo so, manca molto anche a me». Avvertii una fitta al cuore e gli sorrisi con amarezza.
Al momento di pagare, mi occupai io del conto. Erano sempre i miei nonni, anche se mi ero opposto alla loro tutela. La mia gentilezza non avrebbe di certo sistemato le cose, ma intendevo dimostrare la mia buona volontà.
Mentre mangiavamo, capii che mi era mancato tutto quello. Io e Alex avevamo vissuto soli per quattro anni, tranne le rare visite di cortesia, e notai la sua felicità nello scherzare con nonno Frank o quando nonna Charlotte gli baciava la testa con affetto. Gli avevo negato l'amore che meritava. Che ogni bambino dovrebbe ricevere. E mi sentivo in colpa, soprattutto dopo ciò che era capitato.
La casa dei nonni era come me la ricordavo, solo più consumata dagli anni. Appena entrai avvertii il forte odore delle piante all'ingresso, poi il profumo di Marsiglia nelle stanze. Le foto di mia madre erano ordinate per età l'una accanto all'altra sul camino. Le guardai
con attenzione e mi accorsi che ce n'era una nuova, che non avevo mai visto: mamma, papà, io e mio fratello, uno dei tanti Natali lì. Io dovevo avere dodici anni, Alex quattro. C'erano anche il nonno e la nonna che sbucavano dai lati. Sembravamo davvero felici.
«Bella, vero?», commentò il nonno appoggiando una mano sulla mia spalla.
Sospirai. «Già. Bei tempi».
«Ti va un caffè?» Lo guardai e annuii. «Andiamo a prepararlo».
Sorrisi, colpito dalla sua disponibilità.
Alex era uscito con la nonna a fare delle commissioni, io e il nonno ci sedemmo in cucina a parlare. L'aroma del caffè aleggiava ancora nell'aria.
Mi raccontò della sua vita, da un paio di anni, meno frenetica. Prima, il lavoro in ospedale lo impegnava di più e la stanchezza rendeva le giornate brevi. Adesso, gestendo solo lo studio privato, i giorni erano meno serrati, e quel posto vuoto nel cuore si faceva sentire maggiormente. «Se mi soffermo a pensarci, non dormo più e non posso permettermelo», sospirò ai dolorosi ricordi.
Lo osservai in silenzio, mi sembrava di ascoltare me stesso.
«Avrei voluto altri nipoti», mi confidò fissando un quotidiano, due dita lisciavano una pagina un po' sgualcita. «Mi è sempre piaciuta l'immagine di una famiglia numerosa. Questa casa è così vuota». Sospirò e alzò gli occhi verso di me.
Annuii malinconico. Non avevamo mai avuto una conversazione simile.
Aveva l'aria di chi non riusciva più a trattenersi. «Ho sbagliato anche io, mi dispiace. Non avrei dovuto permetterlo».
«In che senso?» Fuori, la luce del giorno iniziava ad affievolirsi.
«La stupida guerra per l'affido di Alex. Dopo un lutto, bisogna restare uniti non allontanarsi. Noi siamo una famiglia». Tornò a guardare il giornale con aria colpevole.
Il mio cuore si riscaldò a quelle parole. Per la prima volta, dopo tanto tempo, sentivo che tutto si sarebbe sistemato. La solitudine non sarebbe stata più un problema.
Gli toccai la mano, lui alzò lo sguardo. «Dispiace tanto anche a me. Non avrei mai voluto questo».
«Pensavamo solo di fare la cosa giusta», disse con voce tremante. Sembrava in procinto di piangere, un uomo possente come lui, con il sorriso sempre stampato in volto. In quel momento, gli occhi vivaci e birichini erano stati sostituiti da due pozze scure in cui galleggiavano frustrazione e pentimento.
Cacciai indietro le lacrime, deglutii, poi mi alzai e lo abbracciai.
«Nonno», mi uscì come un lamento. Mi faceva star male vederlo in quello stato.
Gli baciai la guancia e lui sorrise con lo sguardo arrossato. «Tutto si sistemerà».
Più tardi, andammo in salotto e ci sfidammo a scacchi. I volti rilassati, le risate complici. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo, ai miei quindici anni, quando per la prima volta mi insegnò a giocare.
«Scacco matto!», esultò sollevando il pugno come fosse un trofeo.
Sbuffai. «Il solito fortunato. Ringrazia che sono anni che non ci gioco».
«Sì, sì, quante scuse». E scoppiammo a ridere.
In quel momento, rincasarono Alex e la nonna con una dozzina di buste tra le mani.
«Che succede qui?», chiese stranita. Non si aspettava di trovarci così affiatati. Alla sua espressione stizzita, mi irrigidii.
«Niente», le rispose il nonno. «Ho vinto a scacchi come al solito», ridacchiò e tornai a sorridere.
Alex corse da me per mostrarmi cosa la nonna gli aveva comprato: vestiti nuovi, videogiochi, una playstation. Felice del suo entusiasmo, guardai nelle buste con interesse, poi posai lo sguardo sulla nonna: era ancora immobile sul ciglio del salotto. Sospirò stanca e chiese ad Alex di aiutarla con la spesa. Si allontanò a passo svelto, come se vedermi le desse fastidio.
La sera cenammo in armonia, ma la nonna non disse una parola. Si limitò ad annuire e a sorridere al suo nipote preferito. Io sembrava che non esistessi.
Il mattino seguente mi svegliai molto presto. Avevo prenotato il primo volto disponibile perché non potevo lasciare il lavoro per troppi giorni. Al momento dei saluti, abbracciai forte il nonno. Ero felice che mi fossi riavvicinato almeno a lui.
«E tu fai il bravo», raccomandai ad Alex. «Mi mancherai», mormorai in un abbraccio.
«Certo! Non ti deluderò», rispose con gli occhi un po' lucidi.
Faceva male anche a me salutarlo. Guardai un'ultima volta dietro di lui: il nonno era sorridente, la nonna aveva un'espressione indifferente. Sospirai, un po' deluso dal suo distacco. Poi tornai a rivolgermi a mio fratello: «Allora, io vado. Ci sentiamo presto».
Annuì e si gettò di nuovo tra le mie braccia, come se non volesse staccarsi più. «A presto, fratellone».
Uscii di casa, ma nonna Charlotte mi seguii per parlarmi in disparte. «Robert, cosa pensavi di fare?», chiese minacciosa e si chiuse la vestaglia, infreddolita dall'aria mattutina.
La guardai confuso. «A cosa ti riferisci?»
Ti comporti come se non fosse successo nulla»
«Che cosa? Non...» Guardai un attimo dietro di lei: c'era Alex alla finestra che ci osservava.
«Ti ho lasciato partire con Alex, mi sono fidata», continuò e incrociai i suoi occhi delusi. «Il nonno è troppo buono, quindi sarò io a dirtelo: d'ora in poi tu non avrai più voce in capitolo su Alex. Non sei capace di badare a un adolescente. Ti comporti come un amico, invece dovevi fargli da padre. Se fosse cresciuto con noi, non sarebbe successo niente». Parlava come se avesse davanti a sé un estraneo. Cazzo, sono pur sempre suo nipote!
«Ma...» Strinsi i pugni per la rabbia. Non potevo credere alle mie orecchie. Mia nonna era una donna orribile, disgustosa. Come si può essere così crudeli?
«Non dire nient'altro. E non provare più a tornare qui». Non mi diede nemmeno il tempo di replicare, si voltò e rientrò di fretta in casa.
Guardai la finestra in cerca di Alex, ma le tende erano ben tirate. Fui assalito dall'impulso di rientrare solo per un altro abbraccio. Non volevo lasciare in quel modo Seattle. Però mi feci forza e andai via.
Appena arrivai a casa, gettai la valigia sul pavimento e corsi sotto la doccia. Appoggiai la fronte sulle mattonelle, l'acqua che scorreva sopra la mia testa, e chiusi gli occhi. Ero arrabbiato, mia nonna non avrebbe dovuto parlarmi in quel modo. Aveva fatto svanire quel barlume di felicità che il mio cuore era riuscito, dopo tempo, a ottenere. Ripensai all'incidente dei miei genitori, alle difficoltà che avevo affrontato, alla questione della droga. Possibile che la mia vita non possa avere un attimo di tregua?
Quando mi distesi sul letto, arrivò la chiamata di Jenny e risposi.
«Ehi, Robert, ma che fine hai fatto? Ho cercato di contattarti in tutti i modi ma...»
«Sì, scusami», la interruppi. «Ho accompagnato mio fratello a Seattle».
«È successo qualcosa?»
«Era arrivato il momento che stesse un po' con loro».
«Ti riferisci a quello che è capitato giovedì?»
Tacqui. Non riuscivo ancora a capacitarmi.
«Ehi, ci sei?», mi richiamò Jenny.
«Ho scoperto che Alex si droga». La mia voce era un misto di rabbia e disperazione. Mi portai una mano sul volto.
«Che cosa? Dici sul serio?»
Sospirai. «Purtroppo sì». Le raccontai quello che avevo visto in casa di William Shepper.
«Oh mio dio...»
«Ora resterà a Seattle per tre settimane e andrà in un centro riabilitativo».
«Mi dispiace. Posso fare qualcosa?»
«No, non preoccuparti».
«No, davvero, se posso fare qualcosa... Che ne so, vuoi uscire e distrarti un po'?»
In quel momento, mi venne in mente Mary. «Mi stai chiedendo un appuntamento?», la presi in giro.
«Non dire stupidaggini», ridacchiò.
«Ti ringrazio, ma non sono dell'umore giusto. E poi stasera devo lavorare».
«A proposito, ora che farai?»
«Che vuoi dire?»
«Non dovevi lasciare almeno un lavoro?»
Ah, è vero. Non ci avevo più pensato.
«Secondo me, dovresti fare una pausa. Riprendi a suonare, fai qualcosa per te stesso...»
Suonare? Spostai lo sguardo sul pianoforte e sorrisi malinconico.
«Non lo so, forse dovrei lasciare tutto com'è. Ci penserò al ritorno di Alex».
Jenny sospirò. «Va bene, fai come credi».
«Ora devo chiudere. Ci sentiamo».
«Okay, a domani».
Dopo aver salutato Jenny, Mary mi riaffiorò alla mente e decisi di contattarla. Ero incerto se telefonarle o mandarle un messaggio, ma alla fine optai per la seconda. Volevo essere meno invadente.
"Ciao, Mary. Colazione insieme domani mattina? :)"
Buonasera e buona vigilia a tutti!❤🎄 Spero che questa nuova versione (per chi aveva già letto questa storia) vi stia piacendo. Lasciatemi un parere qui nei commenti! Per chi stesse leggendo questa storia per la prima volta, cosa ne pensate? Grazie a chi mi dedicherà del tempo. Spero che passiate delle belle feste. 🎄
Un abbraccio con i miei più sentiti auguri,
Ilaria.
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