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ROSEMARY
«Rose, mi senti?» La mia mente tornò alla lezione di Storia e origini della musica. «Rose, è tutto a posto?» Mi voltai: Georgie mi guardava perplessa. Annuii e le regalai un breve sorriso. Ma non fui abbastanza convincente, perché insisté: «Sicura? Mi sembravi pensierosa».
Perché non le sfugge mai nulla? Io e Georgie ci eravamo conosciute alla Moz-Art, quattro anni prima. Lei era vivace ed estroversa tanto quanto io ero timida e imbranata. Legate dalla passione per la musica, unica cosa che ci rendeva simili, eravamo diventate subito buone compagne di banco. Era una ragazza divertente, con cui non ci si annoiava mai, ma non era la mia migliore amica. Quel ruolo spettava a Sam. Solo con lei avevo condiviso l'entusiasmo del primo bacio e le lacrime la notte che Paul mi lasciò. «Pronto, bella addormentata?» Mi scosse una spalla.
Ritornai a guardarla e sospirai. «Stavo pensando all'esame della settimana prossima».
«Ma pensi sempre allo studio?», sbuffò.«Hai bisogno di distrarti!»
Incrociai le braccia e puntualizzai: «Però non ho nessun interesse a farmi palpeggiare da qualcuno, come fai tu».
«Arriverai casta e pura al matrimonio, sempre se ce ne sarà uno». A Georgie sfuggì una chiassosa risata.
«Voi due, silenzio!», ci ordinò infastidita la professoressa Puvsosky, una bisbetica sessantenne con la mania per i cappelli colorati. Quel giorno ne indossava uno lilla con una piuma nera. Orribile! La prossima volta mi siederò all'ultimo banco, così non rischierò di fare figuracce.
I nostri compagni di corso ci fissavano divertiti, io mi sentivo a disagio e in imbarazzo. Accidenti a Georgie! Annuimmo, la professoressa tornò a spiegare e io a prendere appunti. «Visto cosa combini? Lo sai che odio attirare l'attenzione», bisbigliai mentre scrivevo frasi sempre più disordinate.«E mi fai pure distrarre!» «Eri già distratta. Non essere paranoica. Sai benissimo che dovresti divertirti di più», replicò con tono annoiato.
Per fortuna suonò la campanella. Sbuffai, lei si avvicinò al mio orecchio e consigliò: «Bisogna approfittare ora che siamo giovani, belle e sode».
Mi scappò una risata, infilai il quaderno nello zaino e mi alzai per andare via.
«Rose?»
«Sì?»
«Non dimenticarti quello che ti ho detto!» Mi fece un occhiolino e io sospirai sempre più convinta che mai sarebbe cambiata. In fondo, però, come sarebbero state le mie giornate senza la sua vivacità? Lente e noiose.
Guidando verso casa, ripensai a tutte quelle cose che avrei voluto fare e che, invece, non avevo mai fatto: come un bel viaggio all'estero, o ritirarmi più tardi del previsto. Ebbene sì, avrei potuto paragonarmi a Cenerentola, costretta a rientrare a mezzanotte precisa.
Odiavo la mia famiglia, perché mi aveva rubato gran parte dell'adolescenza. Dopo quello che era capitato due anni prima, sembrava che mia madre non riuscisse più a fidarsi di me. Aveva bisogno di controllare tutto, compresa l'aria che respiravo.
«Sei a casa, cara?», chiese appena sentì la porta chiudersi.
«Sì, sono io. Sono tornata».
Salii di corsa le scale verso la mia camera. Ero troppo stanca per rispondere alle sue domande e non avevo molta fame. Mi stesi sul letto e mi addormentai.
Dopo nemmeno quindici minuti, mi svegliai: Georgie mi stava chiamando. Appena risposi, gridò euforica: «Rose, non immagini cosa è successo!»
«No, infatti non lo immagino», dichiarai con poco entusiasmo, e sbadigliai.
«Anthony mi ha chiesto di uscire!» «Anthony chi? Il figlio del regista?» «Esatto!»
«Sono contenta per te. Sarà il tuo giorno, cioè volevo dire... sei proprio una ragazza fortunata». Anthony frequentava il corso di teatro e aspirava a diventare un divo di Hollywood. Secondo me, recitava con tutte. Era nato per fare quel lavoro. «Lo so che dovrei togliermelo dalla testa, che forse mi farà soffrire... ma voglio cogliere quest'occasione», ribatté con tono deciso.
«Beh, che posso dirti, la vita è tua... fanne ciò che vuoi». Non potevo crederci di averlo detto davvero. Proprio io che non agivo mai di testa mia.
«E poi... potrei sempre ottenere una parte in qualche film».
«Stai parlando sul serio?»
«Sì, perché non dovrei? Non si sa mai nella vita».
Scoppiai a ridere.
«Ora, comunque, voglio pensare a cosa mettere per l'appuntamento».
«Hai qualche idea?»
«Sicuramente qualcosa di sexy», rifletté con una voce maliziosa. Ridacchiai. «Come sempre».
«Eh, tesoro... questi sono i trucchi del mestiere. Prendi appunti, mi raccomando!»
«No, grazie. Mi bastano quelli a scuola».
Rise. «Forse lì sono anche troppi. Comunque, tesoro, ora devo lasciarti. Ho bisogno di un bagno rilassante». «Va bene. Allora, buon divertimento per stasera».
«Sì, non vedo l'ora!», disse entusiasta. Poi ci salutammo.
Richiusi gli occhi per l'ennesima volta, distesi braccia e gambe e mi rilassai. Ah, finalmente un po' di tranquillità. Speravo di non ricevere nessun'altra telefonata. A meno che non fossero argomenti interessanti e non sempre "ragazzi". Perché avrei dovuto dare tanta importanza a qualcuno che sicuramente mi avrebbe fatta soffrire? Questa era la mia filosofia di vita. È vero, non ero una grande esperta in materia, ma l'esperienza con Paul mi era bastata.
Meglio la musica. Guardai il pianoforte e mi ci avvicinai, come se in qualche modo mi avesse chiamata a sé. Suonai la mia canzone preferita. Ora sì che mi sentivo meglio.
Mentre facevo scorrere le dita sui tasti, riuscivo a essere me stessa. Non esistevano più timori, imbarazzi, pressioni. La musica era in grado di capirmi, di consolarmi nei momenti bui. E riusciva a farmi tornare il sorriso quando ero triste.
«Cosa stai suonando?»
Sollevai le dita dai tasti e mi voltai. «All of me di John Legend».
«Ah, giusto». Lo sguardo di mia madre era impassibile. Nemmeno un piccolo sorriso sulle labbra. Avrei voluto che si congratulasse con me, che mi abbracciasse o mi rivolgesse parole affettuose. «Però potresti suonarla ancora meglio. Impegnati di più, e un giorno me ne sarai riconoscente».
Mi irrigidii. Come poteva dire una cosa simile? Per me bravura significava soprattutto passione. Se in un futuro diventerò qualcuno, di certo non sarà grazie alle sue parole.
«Sì, va bene», accennai un sorriso forzato e mi voltai di nuovo verso il pianoforte.
Il cellulare squillò e interruppe quel freddo scambio di battute. Quasi sospirai di sollievo, poi sbirciai sul display: era Sam. Avrei voluto rispondere, ma la presenza di mia madre mi infastidiva, perciò lo feci solo quando uscì dalla stanza.
«Pronto?», dissi con un filo di voce, nel timore che fosse ancora a portata di orecchio.
«Ehi, Rose, stasera a che ora passo a prenderti?»
Scattai in piedi. «Per andare dove?», mi allarmai.
«Ti sei già dimenticata? Mark festeggia al Blue Jeans. Te ne ho parlato, ricordi?»
«Ah... giusto, il compleanno. Ma mia madre, lo sai...»
«Dai, per favore, la convinco io», mi interruppe. In realtà non avevo troppa voglia di andarci e a volte il continuo borbottare di mamma giocava a mio favore.
«Non lo so, Sam».
«Per favore, per favore!»
Sbuffai. «Va bene, ci vengo. Ma, sia chiaro, lo faccio solo per te». Anche se non ero entusiasta, uscire un po' mi avrebbe fatto bene.
Urlò per la gioia, mi informò che sarebbe arrivata per le nove e riattaccò.
Era solo una festa. Cosa sarebbe potuto mai succedere?
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