Il passato del passero solitario <131>
GIULIA
Ero uscita a prendere una boccata d'aria e a fare un giro.
Matteo stava tornando dalla scuola di calcio e c'incontrammo sulla strada di casa. Faceva un freddo tremendo e io mi stringevo nella mia felpa. Era settembre, ma quella giornata era stata tremenda a livello d'intemperie.
"Tieni." mi disse passandomi la giacca. "Ma non me la sporcare, quando te la metti. Anche se, fosse per me non te la darei affatto."
"Beh, se la metti così preferisco diventare un Polaretto! Prenditi questa stupida giacca" dissi e, per la rabbia, gliela lanciai addosso.
Di solito quando gli rispondevo così, Matteo mi minacciava, ma quel giorno mi sembrò che non avesse intenzione di farlo e la cosa mi parve strana.
Mi piazzai di fronte a lui e lo fermai prendendolo delicatamente per il braccio. Non l'avessi mai fatto! Urlò come un matto, come se si fosse ustionato, e io ritrassi di scatto la mano.
"Ma che è successo? Come hai fatto a farti così male?" chiesi. Avevo sentito sotto le dita un grosso livido sul suo braccio.
"Non sono cose che ti riguardano! Pensa ai tuoi libri, stupida!"
"Davvero? Beh, allora va' al diavolo e fatti ridurre la faccia a un colabrodo dai tuoi nuovi amici!" gli urlai contro. In teoria era da lì che dovevo capire che cosa succedeva a mio fratello, ma se lui mi trattava male, perché avrei dovuto preoccuparmi io?
Lui sembrò riaversi da quel torpore, perché mi prese per il braccio destro, il suo preferito, e disse: "Non osare mai più ripeterlo, altrimenti riduco a brandelli la tua faccia!"
"Oh, ma davvero?" dissi.
Avevo acquisito una spavalderia di cui io per prima mi stupivo ogni volta. Cercavo di ridurre al minimo la violenza, di usarla solo in caso di difesa e neanche subito, perché speravo non mi toccasse.
Erano le frecciatine che lanciavo a mettere i bulli con le spalle al muro, e non avrei mai creduto che fosse possibile.
"E cosa dirai a mamma e papà quando mi vedranno tornare con il sangue che mi gocciola dal mento, visto che tornerò con te, eh? Perché col cavolo che ti lascio andare, Matteo! Scopriranno quello che sei e non credo che saranno felici!"
Gli feci la linguaccia, mi liberai dalla sua stretta e continuai a camminare. Era un dolore continuo. Facevo la dura, tutti i giorni, ma in fondo sapevo che quel gioco non mi divertiva per niente. Ci stavo perché ero stanca di abbassare la testa e aspettare che Matteo prendesse una botta in testa e rinsavisse: ero stanca di prodigarmi per lui e fare la sua Cenerentola mentre lui e gli altri tre deficienti facevano i loro sporchi comodi e mi deridevano come fossi un fenomeno da baraccone. Ero stanca di tutto.
IGINO
Ogni giorno era la solita storia. Alcuni ragazzi mi deridevano nei corridoi e nella mia classe nessuno mi rivolgeva la parola. Avevo il banco singolo e mi presentavo sempre a scuola con un po' d'anticipo. Prendevo posto, infilavo le cuffie e intanto leggevo qualcosa o studiavo. Molti non riescono a fare entrambe le cose, ma a me ascoltare musica dà la carica mentre studio e le cose mi vengono più facili.
Quella mattina la mia playlist a riproduzione casuale partì con: "Libertà" di Rocco Hunt.
Ed era quello che io cercavo tutti i giorni: la libertà. Non ero un sacco da boxe né un fenomeno da circo. Ero solo un ragazzo a cui piaceva studiare, ma questo mi aveva portato un bel po' di problemi.
Quel giorno sarebbe arrivato un nuovo ragazzo e speravo che almeno mi rivolgesse la parola. Con gli altri le avevo provate tutte: facevo copiare Piera, procuravo dei giochi per la Play Station a Michele, portavo la cioccolata a Lara e preparavo dei CD per Marta, che amava tanto la musica. I miei sforzi, però, non erano serviti a nulla.
"Je voglio 'a libertà" diceva la canzone. E un'altra frase era quella che diceva che in fondo io vivevo meglio di quelli che erano costantemente circondati dalle ragazze: quelli che tutte desideravano e nessuna amava davvero, un po' come i tronisti di Uomini e Donne. Non che per le ragazze fosse diverso. Sia di qua che di là c'erano persone superficiali e persone profonde... e poi c'ero io, che ero semplicemente il solito emarginato.
La campanella suonò ed io spensi le cuffie e me le sfilai con delicatezza.
Sentii gli altri entrare in classe e subito dopo di loro entrò la prof di storia, che evidentemente faceva gli onori di casa per il nuovo studente. Infatti, appena si fu accomodata dietro la cattedra, disse: "Ragazzi, come vi ho già detto qualche giorno fa, oggi il nostro gruppo classe aumenterà di numero. È arrivato un nuovo studente e vi chiedo per favore di accoglierlo con il dovuto rispetto. Entra pure, Matteo."
Il ragazzo entrò in classe.
Si muoveva con passo deciso, come se tutto il mondo gli appartenesse, ma quando parlò sembrava un tipo molto pacato: "Mi chiamo Matteo Pellegrini. Ho sedici anni e vivo qui in paese, ma frequentavo una scuola in città. Sono successe delle cose e i miei genitori hanno deciso che per me era meglio venire a studiare qua..."
"Bene. È rimasto un posto vicino a Michele. Vai a sederti lì, Matteo." gli disse la prof. Lui si diresse verso il fondo della classe con fare sicuro, ma la prof lo fermò: "Durante l'intervallo mi piacerebbe che facessi un giro della scuola con il tuo compagno Igino." disse, indicandomi con un dito. Chinai il capo, sentendomi in imbarazzo. Provavo un misto di paura e ammirazione per quel ragazzo e non ne capivo il motivo. Sembrava uno di quelli che ne ha passate tante nella vita... forse l'ammirazione dipendeva da quello... ma non potevo immaginare che sarebbe durata solo per il primo giorno e che proprio quel novellino sarebbe diventato il mio peggior incubo.
"Ah... lui è Igino..." disse Matteo, e quel tono di sufficienza mi fece trasalire. Non era per niente un buon segno. Insomma: Matteo era arrivato ad anno inoltrato e già aveva iniziato a selezionare le persone in base al vestiario, agli occhiali e quant'altro.
Comunque, a ricreazione gli feci fare il giro della scuola e sembrò che non gli dispiacesse più di tanto, la struttura.
Improvvisamente, però, alcuni ragazzi che di solito mi prendevano in giro, ci fermarono.
"Tu devi essere il ragazzo nuovo, vero?" disse Virginia.
"Sì... piacere, Matteo" rispose lui, tendendole la mano.
"Beh... sei un bel tipo. Peccato che frequenti certa gente" gli disse Virginia, puntando il dito verso di me. Abbassai la testa.
"Ehi secchione, vedi di portarmi i compiti di matematica! Fila a prenderli, sbrigati!" disse Davide, un ragazzo alto e muscoloso che mi faceva paura. Io lo guardai implorante, ma lui mi fulminò con lo sguardo.
"Ah, Igino, già che ci sei è meglio che li porti anche a me" disse Matteo, e in quel momento ogni mia speranza di farmi almeno un amico andò in frantumi. Sentii le lacrime spingere contro le palpebre e chiusi gli occhi per sbarrare loro la strada. Avvertivo un dolore terribile agli occhi e al petto e sentivo che il mondo mi girava attorno.
Sapevo bene cosa stava per accadere: a momenti mi sarebbe venuto l'ennesimo attacco di panico.
"Allora? Che aspetti, secchione? Vai a prendere il quaderno!" disse Matteo, ma non riuscivo a muovermi. Sentivo la sua voce lontana, sempre più lontana... sentii uno scatto e fu l'ultimo suono che mi giunse alle orecchie prima che perdessi conoscenza.
Mi svegliai in infermeria. Mia madre era vicina al lettino sul quale mi avevano fatto sdraiare.
"Tesoro mio, come stai? Come ti senti?" chiese, e per la prima volta da quando avevamo traslocato, vidi i suoi occhi gonfi e rossi di lacrime. Doveva essersi spaventata molto per reagire così e questo mi faceva soffrire molto, anche perché non potevo raccontarle cosa mi toccava subire a scuola.
E gli insulti e le minacce non erano nulla in confronto a tutto quello che poi mi fece passare il nuovo arrivato. Da quando c'era lui, che era entrato a far parte della banda dei bulli, neanche la classe era un posto tranquillo per me. Al contrario: era proprio quello il luogo più insidioso di tutti... e la cosa peggiore era che avevo capito di essere innamorato di Marta, ma lei, naturalmente, non mi vedeva nemmeno. Camminavo a testa china per i corridoi, pregando chiunque ci fosse lassù che i compagni non mi riconoscessero, ma era chiaro che non serviva.
Tutti ridevano di me. Per tutti non ero che il secchione che doveva far copiare tutti, quello che suggeriva alle interrogazioni e non aveva una vita sociale. Ero l'alieno, con tanto di antennine in testa. Ero l'animale da circo, la cavia da laboratorio. Ero un disastro vivente, e giuro che mi ci è mancato davvero poco per iniziare a pensare che non valesse la pena continuare così.
Tutti ridevano di me. Tutti. Non importava quanto stessi male, fisicamente e moralmente. Al contrario: sembrava che il mio malessere desse forza a Matteo, che era diventato il capo di quel branco di lupi, e agli altri che lo seguivano e lo idolatravano.
A casa facevo finta di niente.
La mamma aveva già tanto di cui preoccuparsi, e lo stesso papà.
Fu in quel periodo che iniziai a scrivere musica.
Mio fratello Michele mi aveva regalato una chitarra e, indipendentemente dal freddo, io mi recavo tutti i giorni alla spiaggia che amavo tanto, mi sedevo sullo scalino e iniziavo a suonare e cantare. Era l'unico modo che conoscevo per tirare avanti, e sapevo che dovevo farlo, per i miei genitori e per i miei fratelli. Loro non meritavano di sapere quanto io fossi debole... non meritavano di essere delusi dalla mia pressocché totale incapacità di reagire.
Poi arrivò lei: la mia migliore amica, che ora è seduta accanto a me e mi tiene la mano. Quell'uragano che ha costruito tanto invece di distruggere, che mi ha stravolto la vita, cambiandola in meglio e dandomi la forza di reagire. Quella forza che lei aveva dovuto trovare da sola.
Una delle tante volte in cui le chiesi perché si prodigasse tanto nel difendermi, lei rispose: "Io ero sola contro mio fratello e i suoi amici. Tu non meriti di restare da solo, Igino." E anche per quello, nel periodo in cui lei non c'era, ho lottato. Lei era lontana fisicamente, ma sapevo benissimo che, sapendo cosa mi accadeva, non sarebbe rimasta indifferente... infatti uno dei post più umilianti di Matteo non l'ha visto nessuno di quelli che mi avrebbero deriso, perché lei ed altri l'hanno segnalato prima.
Ora però sono decisamente stanco di essere deriso. Ne ho fin sopra i capelli, sul serio! Non permetterò a nessun altro di trattarmi come hanno fatto i miei persecutori per eccellenza.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro