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XVI. Io non sono un mostro

Stava morendo per l'ansia. Il cuore gli batteva all'impazzata, respirava a malapena e gli girava la testa. Alla fine, dopo settimane di riflessione, quel giorno aveva deciso di fare una cosa che mai avrebbe immaginato: chiedere scusa ad un uomo. In genere lo faceva con le donne, perché la maggior parte delle volte erano loro ad avere ragione quando litigavano con lui, ma questa volta doveva mettere da parte l'orgoglio e dire quella parola così difficile ad un misero maschio. Aveva imboccato Via Sistina a partire dalla Barcaccia - la fontana che aveva progettato e costruito assieme al padre - e ora che aveva appena superato Palazzo Barberini riusciva finalmente a vedere un cantiere in lontananza, verso la fine della strada, che si incrociava con Via delle Quattro Fontane. Sentiva già le loro urla, le loro chiacchiere, le loro risate. Tutt'intorno, ad occupare l'incrocio per metà della sua larghezza, c'erano materiali grezzi che venivano smussati ed allisciati con sapienza e con amore. Man mano che si avvicinava, notava sempre più dettagli ed andava sempre più in ansia. Ad essere in costruzione era un piccolo chiostro rettangolare con gli angoli curvi rivolti verso l'interno, con un buco al centro. Probabilmente in futuro sarebbe diventato un pozzo. Il materiale utilizzato era del misero stucco, uno dei più scadenti sul mercato. Erano così poveri i committenti, chiunque essi fossero?
Inclinò i baffi, contrariato, ma continuò a camminare, scrutando tra i vari braccianti quello che interessava a lui, cioè il capo: era famoso per la sua capacità di mimetizzarsi tra i suoi assistenti, lavorando duramente esattamente quanto loro, se non di più. Si divertiva a spaccarsi la schiena, a puzzare di sudore, a tornare a casa stanco morto. Per questo ci mise un'eternità a capire dove fosse, anche perché, per quanto alto e robusto, comunque c'erano persone che lo superavano.
Arrivato davanti al cantiere, si fermò e rimase ad osservare, con il cuore in gola. Dove diavolo era?
«Scusate, state per caso cercando il maestro Borromini?» Un ometto alto poco meno di lui si staccò dal lavoro per parlargli, incuriosito. Era piccolino, con un cappello da contadino in testa per ripararsi dal sole. Era pallido per essere un bracciante, e anche stranamente esile. Anzi, sembrava una donna travestita da uomo, con quei lineamenti così delicati e la figura così sottile. Possibile che non se ne fossero accorti? Beh, di certo il seno non l'aveva poi molto accentuato, e la voce non aveva il tipico tono acuto femminile, però insomma, sembrava troppo effemminato per essere un uomo.
Alzò un sopracciglio, perplesso. «Sì, perché?»
L'uomo/donna gli sorrise affabile, mettendosi le mani sui fianchi non abbastanza arrotondati per essere di una donna ma troppo sinuosi per essere mascolini. Niente, continuava a non carpirne il sesso. «Perché lo fanno praticamente tutti quelli che passano di qui, ma voi siete il primo che si ferma. Dovete parlargli?»
«Sì; nel caso riusciste a trovarlo potreste gentilmente dirgli che lo cerca qualcuno?»
«Certamente. Un attimo.» Si precipitò a cercarlo, ma dopo qualche passo si girò, perpless*. «Chi è che lo cerca?»
E in risposta gli/le sorrise, mesto. «È meglio che non lo sappia ancora.»
E l*i parve capire, annuendo comprensiv*, dopodiché si dileguò.
Nel mentre che aspettava, si guardò intorno, ammirando il poco che era stato costruito: era una struttura a due piani, con serliane al piano inferiore e delle semplici colonne a fusto liscio al piano superiore, con un'elegante balaustra dotata di pilastrini triangolari talvolta dritti, talvolta rovesci. Si prospettava un bel chiostro a pianta ottagonale con quattro lati curvilinei - o rettangolare con gli angoli incavati, era la stessa cosa - di un colore tra il bianco e il crema. Peccato fosse di stucco.
Gli scalpellini si stavano dividendo i compiti: c'era chi allisciava i blocchi per fare le colonne, chi li assottigliava per fare i pilastrini della balaustra, chi pensava agli archi per sostenere il peso del soffitto. Era tutto coordinato, tutto ben organizzato. E si stavano tutti divertendo, sereni e chiacchieroni, con il sorriso in faccia. L'atmosfera era così rilassata che si ritrovò ad essere un po' meno rigido, un po' meno in ansia. Il cuore rallentò appena il battito, permettendogli di respirare meglio. Sospirò, un accenno di sorriso in volto, ma poi gli si raggelò il sangue nel sentire gli altri che salutavano un uomo alto e corpulento che stava camminando verso di lui, con l'androgino che lo guidava. Era Borromini.
«'Giorno, capo.»
«Salve, capo.»
«Vi vedo particolarmente in forze, oggi, capo.» L'ultimo commento fece sorridere l'uomo, ma senza alcuna allegria negli occhi. Stava fissando solo lui, con un rancore così velenoso che sembrò fermargli il cuore.
«Deve essere l'istinto omicida, Nico.» La sua voce fu il colpo di grazia: era il suo normalissimo tono di voce, ma il semplice fatto che aveva parlato gli servì a fargli pentire di essere venuto a cercarlo. Non doveva venire lì, non meritava di discutere con lui, avrebbe dovuto andarsene il prima possibile. Ma ormai era troppo tardi: Borromini l'aveva visto e sapeva che doveva parlargli; non poteva lasciarlo così da solo e scappare davanti a lui. Sarebbe stato un gesto da codardo, che avrebbe seppellito per sempre la sua dignità.
Quando finalmente fu abbastanza vicino da poter parlare senza urlare, ma non perché potesse pensare che la diffidenza non ci fosse, disse, con un disprezzo nella sua voce che si poteva quasi toccare: «Cosa diavolo vuoi da me, Bernini?»
«Bernini?»
«Quel Bernini?»
«Aspetta, ma non ce ne stavano tipo ventisette, di Bernini? Come facciamo a sapere se è quello giusto?»
L'ultimo commento gli fece venire voglia di ridere e rispondere che sì, era quello giusto, ma che no, non ne erano così tanti, però rimase impassibile, con il cuore che gli faceva male nel petto. «Volevo parlare con voi, in privato.»
«In privato... vabbè.»
«Fosse stato una donna, avrei potuto pensare qualunque cosa su questa frase.»
«Ma non lo è, quindi stai zitto e non vagare con la tua testa di minchia.»
Borromini assottigliò gli occhi, cercando di incutere timore nonostante il sorriso causato dalle voci di fondo che cercava di sopprimere. Incrociò le braccia per aiutarsi nell'intento, ma non ci riuscì: Bernini, piuttosto, preferì abbassare lo sguardo sui suoi splendidi bicipiti, deglutendo la saliva che improvvisamente aveva iniziato ad aumentare nella sua bocca. «Non credo che ciò sia possibile, mi dispiace.»
Nello stesso istante in cui lo disse, si sentì una cascata di rumori altisonanti di qualcosa di metallico che cadeva a terra mille volte. Si girarono entrambi a guardare, trovando tutti i braccianti che correvano via appositamente per lasciarli da soli, chi più velocemente, chi più lentamente, abbandonando tutti gli utensili lì. Avevano fatto tutto loro.
Borromini sospirò scocciato, dicendo qualcosa tra i denti. Sembrava molto simile ad un'espressione romana sui morti.
Bernini invece era bianco come un cencio: ora che erano soli, significava che era arrivato il momento di dire quella parola così terrificante.
«Guarda te cosa succede quando hai dei buoni rapporti con i tuoi sottoposti.» Il più alto sospirò di nuovo, esausto, prima di continuare: «Muovetevi a dire quello che dovete dire, che ho del lavoro da fare.» Si sedette su un blocco di stucco particolarmente grande, forse uno di quelli che servivano per il pavimento del piano di sopra, e si mise i gomiti sulle ginocchia, in attesa. La sua tenuta da lavoro era una misera maglia a mezze maniche di cotone grigio con la scollatura a V che lasciava vedere tutto il collo nel suo splendore e dei calzoni larghi color Terra di Siena Naturale. Sembrava effettivamente un bracciante, con la sua corporatura enorme e il sudore che gli macchiava i vestiti. Anche a lavoro presentava l'anello di rame al dito, come se non volesse mai dimenticarsi di Beatrice, a due anni e mezzo di distanza.
«Sapete che è diventata mamma?»
Borromini aggrottò le sopracciglia, mettendo le mani sulle ginocchia come per alzarsi. «Di chi parlate, e cosa c'entra con me?»
E il magrolino si limitò ad indicargli l'anello, dicendo: «Ha partorito la settimana scorsa, un maschietto. L'hanno chiamato Arcade, come il figlio di Callisto.» Era stata lei a scegliere il nome, perché giustamente era stata lei ad averlo tenuto in grembo contro la sua volontà. Callisto era una ragazza stuprata da Zeus e messa incinta. Purtroppo, però, era cacciatrice di Artemide, quindi aveva fatto voto di castità. Di conseguenza, quando fu scoperta dalla dea, venne cacciata dal gruppo e abbandonata a se stessa. Ed era esattamente così che si sentiva Beatrice. Per questo, leggendo le Metamorfosi di Ovidio, si era innamorata del mito dell'Orsa Maggiore e aveva immediatamente deciso di chiamare il proprio figlio Arcade, se maschio, o Arcadia, se femmina, nonostante fosse il nome di una regione Greca. E tutti gli sforzi del marito per farle cambiare idea furono vani. Di conseguenza ora aveva un figlio il cui meraviglioso nome svelava come fosse stato concepito.
L'architetto guardò la propria mano per un po', perplesso, ma quando capì si alzò di scatto e gli disse, prendendolo per le spalle con fervore: «Come sta?» Gli occhi spalancati e la voce rotta per l'emozione non erano rivolti a lui, ma alla ragazza. Soffriva ancora per lei, dopo tutto quel tempo. E i suoi sentimenti sbattuti in faccia con una tale violenza lo scombussolarono ulteriormente: ora si sentiva pure in colpa per averglielo detto. Voleva solo prendere tempo per non dirgli ciò per cui era lì, e ora probabilmente aveva peggiorato la situazione.
«Sta... sta bene.»
«Bene? È solo questo che avete da dirmi? In due anni e mezzo che non ci vediamo tutto ciò che posso sapere di lei è che sta bene?» Borromini lo scosse per spalle, mettendogli anche un po' paura. «Come ha fatto a sposarsi, chi è il marito, come si sono conosciuti, dove si è trasferita, che cosa fa adesso?!»
«Non sono notizie che devo darvi io.»
L'architetto alzò la voce, stritolandogli le spalle e avvicinandosi a lui. «E allora perché mi avete detto che ha un figlio?!»
«Perché volevo perdere tempo!» La stretta sulle spalle improvvisamente si alleggerì, mentre gli rispondeva di botto, in preda al panico. La sua vicinanza non gli faceva per niente bene. Sentiva il suo intenso odore di sudore e la sua sofferenza gli penetrava nelle ossa. Il cuore batteva forte, nella sua gabbia toracica; tremava per il leggero attacco di panico, e non riusciva a fare nulla per calmarsi. Soprattutto con quello sguardo confuso che si sentiva addosso, pesante quanto tutti quei macigni di stucco messi insieme.
«Quindi non è per dirmi questo che siete qui.» Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, indietreggiando per guardarlo con la stessa freddezza e mancanza di emotività che si erano sentite nella sua voce.
Bernini scosse la testa, rosso in volto, e cercò di calmare il respiro. «No, sono venuto per...» deglutì per togliersi il nodo che gli si era appena creato in gola e si allentò leggermente lo jabot per l'imbarazzo. «Sono qui per scusarmi.» Il silenzio che seguì le sue parole fu così lungo che si sentì come un bambino quando doveva chiedere scusa ad un genitore per i suoi guai. Perché Borromini lo faceva sentire sempre così insicuro e a disagio? Perché in quell'uomo vedeva una figura così paterna? Eppure non si comportava come tale: si vedeva come il suo sguardo arrabbiato celasse il dolore e la vergogna, si vedeva come dietro la sua figura così imponente e terrificante ci fosse un uomo ferito e con un disperato bisogno di affetto. Dietro la sua furente aria paterna era nascosto un bambino traumatizzato, sull'orlo del pianto. E doveva farsi coraggio per aiutarlo in qualche modo, anche solo scusandosi. Perciò alla fine continuò a parlare, incerto nelle sue parole: «Ciò che ho fatto... è imperdonabile; ne sono consapevole. Se fosse successo a me, anch'io mi sarei comportato alla stessa maniera. Se avessi saputo che vi avrei trovato in quelle condizioni, è ovvio che sarei assolutamente rimasto in salotto. Sì, sono uno stronzo egoista e sì, sono capace di fare le peggiori infamie che la mente umana possa mai immaginare, ma non sono per niente il tipo da violare in tal modo il privato di una persona. Semplicemente eravate lì e... ho guardato. E non avete idea di quanto io me ne penta. Non perché fosse un cattivo spettacolo, ma perché così facendo vi ho irrimediabilmente ferito. E se devo inginocchiarmi per dimostrarvi quanto io ne sia dispiaciuto... sappiate che non esiterò.»
Un silenzio di riflessione calò tra di loro, con il più alto che si limitava a guardare altrove, alla ricerca di qualcosa o qualcuno di cui lui non aveva idea. Il piccolo, invece, si limitò ad aspettare una sua reazione, in ansia. Era la prima volta che si scusava seriamente con lui: non poteva immaginare come avrebbe reagito.
«Beh,» si avvicinò a lui, continuando a guardarsi intorno con le braccia incrociate. L'incavo del collo ebbe un bellissimo guizzo, tra i solchi delle due clavicole. «se proprio volete dimostrare quanto vi dispiace,» si fermò ad un passo da lui, e solo allora abbassò lo sguardo su di lui, dandogli una scossa elettrica lungo tutto il corpo. I suoi occhi erano così profondi che ci si poteva immergere senza alcun problema, ma i sentimenti che riflettevano erano così torbidi che sarebbe annegato immediatamente. «perché non ve ne andate e sparite dalla mia vita?»
Il cuore sembrò implodere nella gabbia toracica davanti a quella domanda, al punto che Bernini si ritrovò a chiudersi con le spalle come reazione al vuoto che si era appena creato dentro di lui. Non si aspettava una risposta del genere. Si era aspettato il perdono, non questo. Aveva sperato che potessero tornare al loro classico rapporto di amore e odio, non voleva assolutamente che diventasse di solo odio. Non voleva tornare alla stessa situazione di due anni e mezzo prima.
«Vi prego, Borromini, io sono sinceramente dispiaciuto...»
«Mentre io invece sono sinceramente scosso, turbato, arrabbiato. E se credete che delle misere scuse possano cancellare il ricordo della mattina peggiore della mia vita e rendervi meno mostruoso ai miei occhi, vi sbagliate di grosso.» iniziò a camminare all'indietro, allontanandosi a piccoli passi. «Forza, sparite dalla mia vista. Sparite dalla mia vita.» si girò e si avviò per tornare dagli altri che evidentemente erano fuggiti dall'altra parte del cantiere, ma Bernini si lasciò sfuggire un mormorio strozzato, come se fosse scosso dai dubbi e cercasse di autoconvincersi.
«Io non sono un mostro.»
Borromini si bloccò e girò la testa, ma guardò terra e rimase di spalle. Poté vedere il suo sguardo addolorato e rancoroso insieme, il suo profilo rude con la lieve gobbetta sul naso e la rughetta tra le sopracciglia. Disse solo una frase, con un tono talmente grave da sembrare quasi un rutto: «Lo credevo anch'io». Poi si voltò e riprese a camminare, lasciandolo lì da solo.
Lo guardò con il vuoto nel cuore, mentre se ne andava, ma poi iniziò ad arrabbiarsi: no, non poteva cancellare il passato, ma cosa diavolo si aspettava facesse? Le scuse erano il massimo che poteva fare, senza andare sull'indecoroso. Doveva denudarsi davanti a tutti, così che anche lui vedesse com'era veramente? Doveva prostrarsi davanti a lui, supplicargli di essere perdonato, perdere la propria dignità?
Incrociò le braccia e aggrottò le sopracciglia, guardandolo male. No, non avrebbe fatto assolutamente nulla di tutto ciò. Non si sarebbe arreso davanti a tale avversità, ma non avrebbe neanche perso se stesso per accontentare Borromini. Serviva un compromesso, serviva mostrare che non era un mostro, che meritava di essere trattato come una persona e non come un pervertito, ma tenedo comunque intatta la propria integrità morale. Doveva far capire che non avrebbe mai potuto fare un'infamata del genere di propria volontà, e le parole evidentemente non bastavano. Servivano i fatti.

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