XV. Splendida notte, orribile mattina
Questo sarà l'unico capitolo che pubblicherò per questo mese. Purtroppo devo fare gli esami di Stato, quindi non posso permettermi di scrivere finché non avrò finito. Di conseguenza, vi "dono" questo capitolone da 5046 parole in cui unisco il capitolo di oggi a quello successivo, sperando che possa bastare per tutto giugno. Buona lettura, e ci vediamo a luglio :D
«No, non ce la faccio.»
Era in piedi sull'uscio della porta con le mani dietro la schiena, a guardare Beatrice che camminava nella stanza come un lupo in gabbia. Era meravigliosa, con l'abito da sposa degno di una nobildonna, di pura seta, ricamato sulla scollatura a cuore e sul bordo dei lunghi guanti. Qua e là c'erano dei tocchi d'oro, come per impreziosire la già preziosa donna. Non era truccata, semplicemente perché aveva minacciato di picchiare chiunque avesse provato a sistemarle il viso in qualche modo, ma i lunghi capelli scuri erano acconciati divinamente, con delle perle lungo il suo chignon di trecce. «Volete scappare?»
Bea si fermò di scatto, a guardarlo con occhi spalancati come se stesse realmente prendendo in considerazione l'ipotesi. «Sapete perfettamente che è ciò che sto cercando di fare da quando sono stata intrappolata in questo matrimonio.»
«Infatti ero ironico.» Le rivolse un sorrisetto, cercando di sdrammatizzare in qualche modo, ma lei sospirò sonoramente. Allora decise di avvicinarvisi, prendendola per una spalla e guardandola rassicurante. «Voi però sapete di avere una forza incredibile, e sapete anche che se non volete fare una cosa niente e nessuno potrà costringervi. Men che meno il vostro futuro e spregevole marito.»
Incastrò quei meravigliosi occhi verdi nei suoi, così sofferenti e grati. «Vi prego, non lasciatemi da sola. Non sopporterei di perdere anche voi.»
E gli venne istintivo abbracciarla. «Non vi lascerò mai da sola, a prescindere da tutto.»
Beatrice affondò la testa nel suo incavo della spalla, cercando di non piangere. Era più alta di lui di almeno tre pollici, ma comunque quando si abbracciavano lei si sentiva una bambina. Erano diventati grandi amici, con il passare del tempo, nonostante l'inizio della loro conoscenza che lasciava molto a desiderare. Era finito per diventare un amico più stretto di quanto lo fosse Costanza, in qualche strano modo, per questo eccoli lì, da soli, ad affrontare un matrimonio totalmente privo d'amore.
«Vorrei che Cecco fosse qui...»
Si irrigidì nel sentire il suo nome. L'ultima volta che l'aveva visto, il giorno prima, per poco non gli era partita un'erezione. Era stato difficilissimo rimanere concentrato su quello che stava facendo, ma mai quanto evitare di svenire per il cuore che batteva all'impazzata. «Quel bastardo porta solo sofferenza, non sarebbe mai stato d'aiuto in questa situazione.» Parlò con voce fredda, quasi sprezzante, al punto che Beatrice, perplessa, si vide costretta a staccarsi.
«Sofferenza? Avrebbe minacciato di morte Rin e avrebbe evitato tutto questo.» Rin era il suo futuro marito, che l'aveva stuprata e messa incinta, nonché migliore amico di Dante, suo fratello. Borromini era stato sempre un tipo protettivo nei confronti della donna, oltre che spaventoso, quindi bastava che si alzasse a guardare male chiunque, e Beatrice sarebbe stata incolume. Ma ora che non c'era più, e che la donna si era un po' arrugginita con i combattimenti, ecco che veniva abusata. Accadde una sola volta, ma fu sufficiente per rovinarle la vita, intrappolandola in un matrimonio che non voleva con un figlio che non voleva. Che però era sempre meglio di un uomo gentile che non avrebbe fatto altro che torturarla, e torturarlo. Egoisticamente, Borromini via dalla vita di Beatrice gli permetteva di non continuare a dubitare della propria sessualità, quindi gli andava più che bene.
«E voi sareste stata ancora innamorata persa di lui, pur sapendo che non sareste mai stata ricambiata.»
E lei sbuffò, allontanandosi da lui e dirigendosi verso la carrozza. «Come se ora non lo amassi più.»
Per anni si era chiesto come avesse potuto amare un uomo come lui - irascibile, violento e dai pessimi gusti in fatto di moda - e solo in quel momento stava riuscendo a capire il perché. Era sempre stato attratto da quell'uomo, ma la questione era sempre stata prettamente fisica. Era venuto lì per punirsi di ciò che aveva fatto quella mattina, perché meritava il peggio e il peggio a cui aveva pensato era stato Borromini. Solo che non si aspettava minimamente che si rivelasse così tranquillo, gentile e disposto all'ascolto. Gli aveva persino dato una coperta mentre provava a dormire, cavolo! Tra le sue braccia, prima, si era sentito esattamente come si sentiva Beatrice tra le sue, ed era una sensazione meravigliosa che mai aveva pensato di provare. Si rimpicciolì nella coperta, guardando il tavolino davanti al divano. Erano ore che cercava di dormire, fallendo miseramente. Quel divano era scomodissimo, e per quanto provasse a cercare una posizione comoda, era impossibile. Aveva provato ad addormentarsi in tutti i modi: correndo sul posto per stancarsi, disegnando per distruggersi gli occhi, curiosando per la casa alla ricerca di ricordi compromettenti della vita dello spilungone, fissando il soffitto bianco con una mano dietro la testa, il tutto rigorosamente con la coperta addosso. Aveva perso la sua amata e la sua famiglia a causa di suo fratello, e aveva quasi perso anche lui. Era stato un idiota a lasciarsi trasportare dall'ira e a percuoterlo ripetutamente con quella mazza. Ed era stato un idiota a litigare con la madre per quello che aveva fatto. Non meritava alcun tipo di giustifica, né di sostegno. Doveva essere punito, e per questo se n'era andato di casa. Non era un ottuso che non accettava di essere nel torto, anzi: si sentiva un mostro. Borromini aveva ragione. Era finito per piangere senza accorgersene più volte nel corso delle nottata, con le lacrime che sgorgavano da sole mentre guardava il soffitto o il ritratto di Maderno. Era stato come un padre, per l'architetto, ed era morto qualche mese prima che toccasse al suo.
Improvvisamente si ricordò della figuraccia che aveva fatto in quell'occasione, e a partire dalla quale nacque una velata amicizia tra colleghi che sarebbe durata fino all'infamia del Baldacchino: fu quando tornò a lavoro dopo il tempo che serviva per capire che Pietro Bernini era morto. Gli era crollato il mondo addosso, la sua ancora che lo attaccava a terra era svanita, quindi era anche il minimo che si sentisse smarrito, incapace di rapportarsi al mondo come una volta. Si sentiva incredibilmente solo, e costantemente giudicato, molto più del solito. E, più di tutti, era Borromini che lo giudicava. Quel giorno se lo sentiva attaccato al collo, a fiatarci sopra, a guardarlo dall'alto in basso con sufficienza, disprezzando quel raccomandato che non sapeva fare assolutamente niente in campo architettonico. Non lo lasciava un attimo, e divenne una presenza così opprimente che alla fine sbottò: "Smettetela di fare così!"
E l'architetto si limitò a guardarlo confuso, sbattendo più volte le palpebre: "Come dite?"
Lo guardò per un attimo, perplesso, poi cominciò ad arrossire. "Mi state appiccicato da stamattina, a guardarmi male e rimanere in silenzio. Cosa diamine volete da me?!"
"Ma..." guardò il progetto, smarrito. "Mi avevate chiesto di aiutarvi..."
Aggrottò le sopracciglia, furibondo. "Aiutarmi in cosa? Sono sicuro di non aver mai chiesto niente a nessuno."
Borromini aggrottò le sopracciglia di rimando. "Bernini, siete sicuro di esservi ripreso?"
"Ovvio che mi sono ripreso, altrimenti non sarei qui."
E lui sorrise, comprensivo. "È da un mese che vi sto aiutando con la planimetria del palazzo e mi avevate chiesto anche di integrare delle lezioni di architettura. Ve lo sareste ricordato se solo aveste avuto la mente libera dai ricordi nostalgici." gli mise una mano sul braccio, facendolo sobbalzare. Non si aspettava un contatto del genere da parte sua. "Capisco perfettamente la situazione in cui vi trovate. Ci sto passando anch'io tutt'ora."
No, nessuno poteva capire il proprio dolore. E sicuramente non poteva capirlo quell'uomo. "Voi non avete perso nessun genitore." Aveva sputato quelle parole con tutto il disprezzo che provava, senza nemmeno accorgersi di quanto ne fosse. Per questo si pentì subito di aver aperto bocca, arrossendo e guardandolo in silenzio. Ma non disse altro.
Né lui si aspettava altro. Il sorriso si spense, malinconico, e accasciò il braccio lungo il corpo. "No, ma lui era molto più paterno di mio padre." E se ne andò dagli altri braccianti, lasciandolo lì da solo con la bocca aperta a metabolizzare le sue parole.
Al solo pensiero di quell'evento sentiva la vergogna montargli dentro. L'aveva trattato malissimo, ma lui era rimasto gentile, e alla fine, in una giornata di pioggia in cui erano finiti per discutere per l'ennesima volta, Borromini l'aveva guardato con una sofferenza che gli mozzò il fiato e gli aveva detto: "La società non ci permette di soffrire; a nessuno importa dei nostri problemi." Era una frase che si riferiva solo a quella discussione, di cui manco ricordava l'argomento, ma lui se l'era sentita dentro, e aveva subito compreso come si poteva riferire a tutto, anche alla sua perdita. Per questo aveva smesso di affrontare i suoi problemi, per questo li metteva in un angolo sopprimendoli con tutto: perché tanto non importavano a nessuno e davano solo fastidio. Solo che ora i problemi erano diventati troppi, e si stavano ribellando.
Gli scese l'ennesima lacrima, mentre chiudeva gli occhi. Odiava stare male, preferiva la rabbia al dolore. Preferiva essere aggressivo e crudele piuttosto che sensibile e piagnucolone. I sentimenti erano la sua rovina, e non li voleva. Quindi si voltò dall'altra parte, verso il divano, pensando di tornare a dormire. Peccato che quel bastardo non glielo permettesse. Fece una smorfia, stanco di essere sveglio, e si girò di nuovo, guardando la porta che non aveva ancora visto aperta. Chissà, magari dall'altra parte c'era un letto, che sicuramente era più comodo del divano. Si alzò, si accese una candela per poter vedere dove metteva i piedi e andò ad aprire la porta, trovandosi in un corto corridoio orizzontale: a destra una porta, dall'altra parte, altre due. Tutte chiuse. Quale scegliere? Iniziò dalla più vicina, e ci azzeccò: ecco la camera da letto di Borromini.
Era enorme, sembrava quella di una coppia di genitori. C'era un bellissimo tavolo, una coppia di sedie, una libreria che prendeva tutta una parete e un letto matrimoniale a baldacchino, con ai lati i comodini e due enormi armadi che arrivavano al soffitto. Le tende erano chiuse, come se chi vi dormisse dentro non dovesse essere visto, come una principessa. Incredibile. Su ogni comodino vi era una candela spenta, e un libro su quello più vicino. Curioso, vi avvicinò la candela e scoprì che era blasfemo: stava leggendo il Principe di Machiavelli. Alzò le sopracciglia, sorpreso da come uno come lui leggesse un libro proibito, e spostò la tenda bianca, trovandosi il viso di Borromini dormiente. Era sereno come mai lo era stato prima d'allora, senza alcuna espressione accigliata o malinconica. Le sopracciglia rilassante, gli occhi chiusi, le braccia e le gambe strette attorno ad un secondo cuscino... sembrava un bambino con il suo enorme pupazzo di lana. Sorrise, intenerito da quel che vedeva, e chiuse la tenda. Il cuore si era riempito di dolcezza, e non riusciva a tornare serio.
Girò attorno al letto e aprì le tende: bene, quella parte era vuota. Aveva già dormito al fianco di Borromini, qualche anno prima, e certamente era stata una brutta esperienza. Ma almeno ora nessuno era ferito, almeno non fisicamente, e certamente non avevano bevuto alcol. E, soprattutto, erano entrambi vestiti. Sarebbe stato attento a non toccarlo, né a svegliarlo. E si sarebbe dileguato prima che lui potesse capire il misfatto. Sì, ottima idea.
Spense la candela, dandosi coraggio, e si sedette sul letto, cercando di non farlo scricchiolare troppo. Bene, ora tocca sdraiarsi. Purtroppo era aprile, quindi non faceva ancora abbastanza caldo per togliere le coperte, il che voleva dire che doveva spostarle e far entrare in contatto il corpo di Borromini con la fresca aria esterna. Deglutì, cercando di calmare l'ansia, e spostò lentamente la coperta, infilandocisi sotto. Bene, ce l'ho fatta. Chiuse gli occhi e poggiò la testa sul cuscino, soddisfatto della propria missione compiuta con successo, ma rimase penzoloni. Sbarrò gli occhi. Cazzo, il cuscino ce l'ha lui. Ora doveva tornare di là a prendere il suo dal divano. Sospirò svogliato, spostando di nuovo le coperte per uscire, ma...
«Mmmmmh...» si paralizzò sul posto, con occhi spalancati, e il cuore perse un battito. Borromini stava mugolando nel sonno, e tenendo conto di come il letto cambiava sotto di sé e dei rumori di stoffa che provenivano da dietro, si stava pure muovendo. Che diamine doveva fare?
Voleva andarsene il prima possibile, ma fu bloccato lì quando si ritrovò il cuscino dell'architetto addosso. Si era girato verso di lui, e l'aveva scoperto. «Mmmmh...?» Spostò il braccio destro e lo mise sotto di lui, all'altezza della vita. Gli mise il cuscino davanti e lo tirò a sé, schiacciandolo tra il cuscino e il suo corpo. Non poteva più muoversi. Il cuore era impazzito, lo stomaco era imploso, il respiro incapace di essere regolare. Gli organi interni avevano deciso di non funzionare più bene. E Borromini che lo circondava anche con le gambe decisamente non era d'aiuto. Il respiro pesante sul suo collo, il suo calore, la morbidezza della sua veste, la sua incredibilmente intima vicinanza... Chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo per calmare le fiamme dentro di sé, e poggiò la testa sul cuscino, abbracciandolo anche lui. Era intrappolato tra le braccia e le gambe di Borromini, in un affetto che non era per niente dedicato a lui ma che sicuramente non si sarebbe lasciato sfuggire. La prima volta che veniva coccolato così dopo tanto tempo. Prima dormiva così quando era bambino, a Napoli, abbracciato da entrambi i genitori in un unico lettone. Accadeva quando era scosso dai brutti sogni, e in un certo senso era lo stesso che stava accadendo in quel momento: aveva vissuto un incubo, quel giorno, e ora veniva protetto dalle sue sofferenze, in un caldo abbraccio rassicurante. Sorrise, tranquillo, e, tornato bambino, riuscì finalmente ad addormentarsi, un torpore nel corpo che lo faceva sentire finalmente a casa dopo tanto tempo.
Mugolò, infastidito dal colore arancione sotto le palpebre. E tenendo conto che c'erano le tende, probabilmente era giorno inoltrato. Si strofinò un occhio, girandosi supino, e scoprì di avere il braccio destro incapace di muoversi. Strano, in genere non succedeva. Da quando il cuscino era diventato di piombo?
Aggrottò le sopracciglia, ma rimase con occhi chiusi. Non gli andava di svegliarsi. Non ancora. Si limitò a sollevare il braccio per girarsi dall'altra parte, ma non ci riuscì. Questo sì che è strano.
Si mise nuovamente di fianco, cercando di tastare cosa c'era lì di così pesante, ma trovò solo la morbidezza del cuscino. Si vide allora costretto ad aprire gli occhi, con non poca fatica, e rimase perplesso dalla presenza di una chioma nera. Da dove proveniva? L'accarezzò, cercando di ricordarsi quello che aveva fatto, e improvvisamente capì: quella testa era di Bernini, che non aveva dormito in salotto.
Sospirò scocciato, non ancora abbastanza sveglio per essere sconvolto, e si limitò a poggiare il mento sui suoi capelli, accarezzandogli la guancia con il pollice e chiudendo di nuovo gli occhi. Era parecchio assonnato. «Bernini, svegliatevi.» lo disse con voce rauca, ovviamente, ma non aveva intenzione di schiarirsela.
«Mh...» niente, neanche Bernini voleva svegliarsi. Gli prese la mano e mise tutto il braccio sotto il suo, incrociando le dita con le sue. «Solo altri cinque minuti, amore mio...»
Aggrottò le sopracciglia. D'accordo, è il momento di svegliarsi. Diede dei colpetti alla sua pancia, per incitarlo: «Bernini, non sono il vostro amante.»
«Ma come...» lo scultore girò la testa verso di lui e gli prese la guancia, trovando dei peletti di barba che stava ricrescendo. Aggrottò le sopracciglia e aprì gli occhi, scoprendo che effettivamente non era Costanza.
Fu una reazione lenta, la sua, ma comunque di sorpresa: si alzò a sedere con un respiro rumoroso e, con le sopracciglia inarcate, iniziò a strofinarsi gli occhi. «Oh, Dio, scusatemi...»
E Borromini, finalmente libero, iniziò a muovere il braccio destro, alzandosi anch'egli a sedere. Erano entrambi troppo scombussolati dal sonno per reagire come l'altra volta.
«Vi avevo detto di dormire sul divano, ma a quanto pare non avete alcuna intenzione di seguire le regole.»
«Giuro che c'ho provato per ore, solo che quel coso era scomodissimo e non ci sono riuscito, quindi eccomi qua.»
«Strano che non mi abbiate rotto le palle per mandarmi via.»
«Non ne vedevo il motivo: il letto è gigantesco.»
«Cavolo, sono davvero fortunato ad averne uno così grande allora.»
Lo guardò male, con i gomiti sulle ginocchia, e poi si alzò dal letto. «In ogni caso, dov'è il bagno?»
«La porta a destra.»
«Va bene, torno subito.» e andò in bagno, lasciandolo da solo. Voleva riaddormentarsi, ma si costrinse ad alzarsi anche lui. Era stata una giornata sfiancante, la precedente, e non aveva avuto abbastanza tempo per rinnovarsi. E il bello era che avrebbe dovuto pure lavorare, quel giorno. Si era dato una giornata di permesso totalmente a caso, e non era per niente positivo. Sperò che almeno il pomeriggio avrebbe potuto lavorare, perché altrimenti un rimprovero dai committenti non glielo levava nessuno. Sospirò, andando a preparare la colazione per entrambi, e si ritrovò Bernini ancora in vesti da notte al suo fianco. Si era solo svuotato.
«Che colazione ci riserva il menù di quest'oggi?»
«Latte e biscotti.»
Sorrise, incrociando le braccia e guardando il pentolino che veniva riscaldato. «Non mi aspettavo di meglio.»
Lo guardò malissimo, iniziando ad andarsene dalla cucina. «I biscotti stanno sul tavolo, assieme alle tazze. Quando secondo voi è abbastanza caldo togliete il latte dal fuoco e mettetelo al loro interno, poi se volete il caffè o qualcosa di più raffinato ci sono tante tavole calde in giro per Roma. Non entrate per nessuno motivo in camera mia. Nessuno.» gli lanciò uno sguardo di avvertimento da oltre la porta e sparì, lasciandolo da solo con un fuoco a cui badare. Bene, non era mai stato in cucina e ora si doveva occupare di una cosa così complicata come controllare il latte nel pentolino. Come sapeva che sarebbe stato abbastanza caldo? Guardò il tavolo e vide delle tazze meravigliose a forma di animali: una era un elefante, con il manico a proboscide e tanto di orecchie schiacciate lungo la circonferenza; l'altra una scimmietta, con il braccio come manico. Le tazze più belle che avesse mai visto in tutta la sua vita. Ne prese una iniziando ad accarezzarla, intenerito dalla loro puerilità. Chissà perché un omone come Borromini le aveva così.
Alla fine fece colazione con la tazza-elefante, sfondandosi di biscotti al cioccolato, e poi si vestì molto velocemente, con l'ansia di essere beccato dall'architetto mentre si spogliava. Solo che poi non si presentava più. Il latte si era freddato, e lui si annoiava. Bah, chissà cosa stava facendo. Doveva controllare? Nah, meglio evitare: gli aveva espressamente chiesto di non recarsi in camera sua. Probabilmente doveva vestirsi, o comunque fare qualcosa di privato. Anche se comunque era troppo tempo che era via: possibile che stesse in bagno? Magari si era portato i vestiti lì, altrimenti non si capiva perché ci stesse mettendo tanto. Bah, nel dubbio andiamo a controllare.
Si addentrò nel corridoio e trovò la porta chiusa. Bussò, ma non sentì risposta, quindi si sentì libero di entrare, e non trovò nessuno. Che senso aveva proibirgli la camera, se poi era vuota? Alzò le sopracciglia, stranito, e prese il libro di Machiavelli, sedendosi a gambe incrociate sul letto, dal lato della finestra. Iniziò a leggere, ed aveva letto almeno una ventina di pagine molto interessanti quando Borromini aprì la porta con la schiena. Nuda.
Spalancò gli occhi, con il respiro bloccato e il cuore che aveva smesso di dargli retta. L'architetto era come la madre l'aveva fatto, con solo un asciugamano a coprirgli l'intimità e un altro a sfregarsi la testa, per togliere il maggiore quantitativo d'acqua possibile dai capelli. Si era fatto un bagno, per questo c'aveva messo tanto.
Guardò con attenzione il salotto, assicurandosi che Bernini non l'avesse visto da lì (peccato non fosse lì), e poi sospirò, sollevato. Chiuse la porta con il fianco e lanciò l'asciugamano umido sul letto, avviandosi verso l'armadio più vicino, di fianco la porta, e fu evidente che non l'aveva minimamente visto, perché altrimenti non avrebbe mai lanciato anche l'altro asciugamano. Che gli finì dritto sulle ginocchia. L'asciugamano che copriva la sua intimità ora era sulle sue ginocchia, e la sua intimità era totalmente scoperta. Francesco Borromini era nudo al suo fianco.
Era tutto rosso. Il battito cardiaco gli esplodeva nelle orecchie, gli tremava il respiro, che cercava in tutti i modi essere silenzioso, ed era incapace di muoversi. Tutto era sfocato, tranne quell'uomo. Non riusciva a staccargli occhi di dosso, né riusciva a percepire il proprio corpo. Tutto ciò che esisteva in quel momento era lui, in ogni suo dettaglio.
Borromini aveva aperto l'armadio, rovistando tra i vestiti per vedere cosa mettersi, spostando lo sguardo tra le varie grucce. Era totalmente concentrato sul suo guardaroba, quindi non si sarebbe girato per un po'. Quindi si permise di analizzarlo, partendo dall'alto e cercando di non scorrere troppo velocemente con lo sguardo verso il basso. Quello se lo riservava per la fine.
Tutto in lui era definito e prominente: il collo solido, il grande pomo d'Adamo, le spalle enormi che desideravano essere morse, le braccia così grandi, il petto largo su cui aveva pianto la mattina precedente, i capezzoli morbidi, ogni singolo muscolo addominale che emergeva con prepotenza da sotto la pelle... quando cacchio era diventato un dio greco? Man mano che scendeva con lo sguardo, man mano che osservava, la gola di seccava, il respiro si faceva più irregolare, il corpo veniva scosso sempre più dai brividi. Stava iniziando ad avere caldo, ma un'ultima, grande ondata di calore gli venne nel vedere tra le gambe di quell'uomo. E fu così forte che gli scappò un sospiro. Che Borromini sentì.
Raggelò sul posto, contraendo l'addome per il panico, e si girò lentamente alla sua sinistra, verso il letto, perdendo dolorosamente un battito. C'era Bernini, lì, poggiato sulla testiera del letto ad abbracciarsi blandamente le ginocchia, e lo fissava con occhi spalancati, il viso rosso come il fuoco.
Rimase lì fermo a guardarlo col cuore a mille, incapace di fare niente, dopodiché urlò e si nascose dietro l'anta dell'armadio. «PORCA PUTTANA, CHE CAZZO CI FAI QUI?» saltò sul posto, rosso in faccia. Stava avendo un attacco di panico. Nessuno l'aveva mai visto così scoperto, e non aveva mai voluto che qualcuno lo vedesse così. Si sentiva violato, come se qualcuno l'avesse costretto a prostituirsi o qualcosa del genere. Nudo davanti ad una persona? Nudo davanti ad un uomo? Nudo davanti a Bernini? Si mise una mano sul petto galoppante, con il fiatone. Non riusciva a capacitarsene.
«Beh, non tornavate, quindi son venuto a controllare e...» e non disse più niente. Sentiva il suo respiro pesante, e sembrava sofferente, come se stesse soffocando. Qualcosa non andava. Allarmato, prese l'asciugamano che aveva sulle ginocchia e gli si avvicinò, chiudendo gli occhi e alzando la testa.
Quando arrivò sentì il suo respiro bloccarsi improvvisamente, quindi rimase lì fermo per un po', in attesa che prendesse il panno. Non sentendo nulla, fu lui a metterglielo in vita, annodandoglielo dietro. Fu molto tentato dal poggiare la testa sul suo petto, rimanere fermo così, con le braccia intorno a lui, accarezzandogli la schiena statuaria e baciandogli ogni singolo punto del suo bellissimo collo, ma per il suo bene non era il caso. Quindi represse ogni voglia, accantonò ogni idea, e si allontanò da lui, aprendo finalmente gli occhi per guardarlo.
Era spiaccicato contro l'armadio, voleva fondersi con esso e lo guardava spaventatissimo. La mano sinistra stringeva l'anta con forza, facendosi le nocche bianche. Tremava visibilmente.
Tentò un sorriso tranquillo, dicendo: «Ehi, tutto bene?»
Non riusciva a parlargli, né a guardarlo con le palpebre rilassate. Quegli occhi erano gli stessi che l'avevano guardato con disprezzo, con desiderio, con odio, con disperazione e conforto, ed erano gli stessi che l'avevano visto nudo.
E ora cosa faceva? Sorrideva sereno, come se quella fosse una situazione normalissima. «Cavolo, non mi aspettavo reagiste così.» gli si avvicinò di nuovo, guardando i vestiti dietro di lui. «Forza, vestitevi, sennò ci penso io.»
Lo guardò dall'alto, così vicino, dopodiché si sistemò l'asciugamano in vita e si girò verso i vestiti. Fece un lungo respiro per calmarsi, e poi iniziò a vestirsi, in silenzio, con Bernini che si era fatto da parte. Continuò a non parlare mentre chiudeva l'armadio e si sistemava la marsina dorata, con Bernini seduto al centro del letto che lo guardava attentamente.
Quando finì, si girò verso di lui con espressione impenetrabile e lo fissò finché non vide l'inquietudine nei suoi occhi.
«Borromini...»
«Ti avevo esplicitamente detto di non venire qui.»
«Sì, ma non tornavate, quindi-»
«Ieri invece ti avevo esplicitamente detto di non dormire sul mio letto.»
«Vi ho detto-»
«Poi ti avevo chiesto di non toccare niente. E hai seguito le mie regole?»
Bernini lo guardò spaventato, non sapendo più che dire. L'architetto lo prese come una consapevolezza di essere nel torto. Ma non bastava.
Si mise carponi sul letto per stagliarsi su di lui, minaccioso. «Hai poggiato il cofanetto in mezzo alla stanza, hai fatto cadere una tela, mi hai dato un pugno nello stomaco senza motivo, hai dormito al mio fianco, e ora? Ora ti sei pure intrufolato in camera mia per spiarmi? Come ti sei permesso?»
Bernini, impaurito, si poggiò sui gomiti per allontanarsi in qualche modo. Si stava lentamente sdraiando sotto di lui. «No, non volevo assolutamente spiarvi! È stato un errore, non avevo idea che-»
«Vattene.» lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure. Gli era finito sopra, coprendolo con tutto il corpo e aveva abbassato la testa così tanto che i loro nasi quasi si sfiorarono. La sua figura, così vicina e così incombente su di lui, lo riempiva di brividi, soprattutto con quell'espressione così spaventosa. Nelle ultime diciotto ore aveva recuperato tutti e due gli anni senza il terrore per Borromini. E il colore felice della marsina non sdrammatizzava di certo. Eppure il cuore non batteva forte solo per la paura. C'era qualcos'altro, dentro di lui, che si stava risvegliando progressivamente ad ogni respiro che l'architetto faceva sulla sua pelle e che gli diceva di annullare quella poca distanza tra loro con forza sempre maggiore.
Deglutì qualunque cosa fosse, prima di annuire. Sgusciò via dalla sua morsa e solo in quel momento si accorse di aver trattenuto il respiro. Uscì dalla camera per sistemare i vestiti nel cofanetto, con Borromini dietro di lui che continuava a guardarlo minaccioso. Il che non gli faceva passare la paura, ovviamente, ma nemmeno addormentare quella forza misteriosa che non gli permetteva di essere lucido. Insomma, era rubicondo ed era a disagio, e doveva alleggerire in qualche modo la tensione. Per questo sbuffò teatralmente, parlando con voce ironica: «Come se fossi stato l'unico ad avervi visto nudo.» lo guardò, per vedere la sua reazione, ma non era cambiata per niente. Anzi, era peggiorata. Se ne stava zitto, con un'espressione che tradiva la vergogna. E lui si rifiutò di capire. «Perché ci sono altre persone che vi hanno già visto nudo, vero?» Borromini distolse lo sguardo, con le guance un po' più arrossate, e Bernini spalancò gli occhi, bianco come un cencio. Si mise le mani davanti alla bocca, inorridito, e mormorò: «Oh mio Dio, sono la prima persona che vi ha visto nudo!» Mise una mano al petto, incapace di immaginare quanto potesse sentirsi violato l'architetto in quel momento. Bene, ora quel qualcosa era stato schiacciato dall'angoscia. «Porca troia, non ne avevo idea...»
«Muovetevi a sistemare le vostre cazzo di cose.» lo stava guardando con disprezzo e con disagio. Voleva solo che se ne andasse.
E semplicemente non aveva idea di cos'altro fare, quindi si limitò a seguire gli ordini, mettendo tutto a posto. Erano giusto una cambiata e le vesti da notte, quindi ci mise pochissimo a sistemare. Si avviò alla porta, con Borromini poco dietro, e prima di attraversare l'uscio della porta d'ingresso si girò, pieno di sensi di colpa.
Gli venne istintivo protrarre in avanti il braccio per poterlo toccare, in un gesto compassionevole, ma a un palmo dalla sua spalla ci ripensò: non era il caso. L'aveva visto nudo, probabilmente era così scosso che non avrebbe sopportato il suo contatto. Forse tra loro si era appena creata una barriera. E non era per niente il momento di annullarla.
Sospirò silenziosamente, mentre ritirava la mano, e notò Borromini che rilassava impercettibilmente le spalle: sì, la barriera c'era e aveva fatto bene a rispettarla.
«Giuro che non avevo idea di quello che sarebbe successo.»
«Il problema non è se è stato premeditato o meno: mi avete visto così, e non ve lo perdonerò mai. Quindi andate via, prima che vi spinga io.»
Gli si svuotò il cuore. Come poteva non perdonarlo? Perché era pudico, ed era stato scoperto nudo. Era una reazione più che lecita, ma lui era pur sempre un egoista: non si sarebbe mai fatto andar bene l'essere nel torto. Non l'aveva fatto di proposito, era stata solo una crudeltà del fato. Aggrottò appena le sopracciglia e serrò la mandibola, infastidito. «Addio, Borromini.»
Fece un passo indietro, così da stare fuori e permettergli di chiudere la porta.
«Addio, stronzo.» e sbatté la porta a pochi pollici dal suo naso.
Strizzò gli occhi in un gesto istintivo, poi li riaprì e rimase lì a guardare la distesa lignea davanti a sé, un vuoto incredibile nel cuore. L'uomo con cui aveva passato cinque anni della sua vita, con cui aveva avuto una crisi sul suo posto all'Inferno, con cui aveva riso, pianto, avuto paura, da cui era stato stimolato intellettualmente e non solo, ora era indubbiamente l'uomo che lo odiava più al mondo. Avevano condiviso troppe cose, e dovevano tornare indietro. Ma lui non voleva. Non poteva.
Poggiò per un attimo la fronte alla porta, cercando di rimanere calmo, e poi se ne andò. Nelle ultime ventiquattro ore aveva perso la donna, il fratello e il rivale. Ma non si sarebbe rassegnato, no: avrebbe riottenuto quel che voleva, e nulla gliel'avrebbe impedito. Neanche un architetto iracondo e ferito.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro