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XIII. Sangue e lacrime - parte 1

Vi avviso: questo capitolo è parecchio riflessivo. Armatevi di santa pazienza prima di leggere.

Era un tardo pomeriggio d'inverno, la giornata lavorativa a Palazzo Barberini era ormai finita e se ne stavano andando tutti quanti. Era tutto buio nonostante fossero le sei del pomeriggio, ed era caduto il gelo.
Borromini stava guardando il cielo nero, preoccupato che avrebbe portato neve nel corso di quella notte, quando fu preso per la spalla da un imbacuccato ed infreddolito Bernini. Aveva il cappello di lana, la sciarpa, i guanti, il paraorecchie e uno scaldacollo sotto la sciarpa che gli copriva naso e bocca. Non poté evitare di sorridere davanti a tale visione, ma poi si ricordò di che razza di persona fosse e soppresse subito la tenerezza con il disprezzo. Solo che si ricordò anche di quel che in genere indossava d'inverno sotto i normali vestiti, e non poté fare altro che distogliere lo sguardo e tossire via il disagio.
«Beh, è tutta qui la vostra reazione?»
Sbatté più volte le palpebre, confuso dalla domanda rivoltagli, e si girò di nuovo a guardarlo. «Perché, avevate detto qualcosa? Tra voi con la bocca coperta e me con il cappello sulle orecchie non si è sentito proprio un bel niente.»
Lo guardò esasperato, prima di parlare: «Ho detto» gli alzò il cappello e si abbassò la sciarpa, mettendosi sulle punte per avvicinarvisi. «SAPETE CHE OGGI È IL VOSTRO ULTIMO GIORNO DI LAVORO?»
Diede uno schiaffo alla mano dello scultore per staccarla dal suo cappello - con l'orecchio che, oltre che gelido, ora fischiava pure - e lo guardò malissimo. «Cosa vai dicendo, scimmia urlatrice che non sei altro?»
«Non c'è bisogno di ricorrere agli insulti, sapete.» si sistemò naso e bocca sotto lo scaldacollo nero e riprese a parlare più chiaramente, le mani guantante in tasca e le scocche rosse per il freddo: «Vi ho trovato una chiesa da costruire, e inizierete già domani.»
Niente, era ancora più confuso di prima. Un gesto così altruista era davvero irreale da parte sua, per quanto fosse pieno di secondi fini: non dover più lavorare con lui, non dover più averci a che fare e godersi appieno la propria relazione clandestina con Costanza senza avere lui in mezzo a distrarlo ogni singolo giorno. Eppure ancora non ci credeva. Non dopo tutti quei mesi di disputa. «Avete davvero consegnato quella lettera di raccomandazione, alla fine?»
«Sì; il giorno dopo quell'incubo di cena mi sono fiondato a scrivere, facendomi aiutare da Caterina, e sono stato parecchio bravo con le lodi. Ho consegnato il mese scorso, e ora vi vogliono affidare una commissione. Non so i dettagli; so solo che è qua vicino, in Via delle Quattro Fontane.» si tastò il giaccone di lana, alla ricerca di qualcosa al suo interno, e poi lo aprì, tirando fuori una lettera non ancora aperta, con il marchio della Sapienza sopra, e un semplicissimo foglio piegato. «Buona fortuna, e ringraziate quella pettegola della vostra amica, quando la vedete.» gliele porse, gli diede delle pacche sul braccio e se ne andò, lasciando Borromini lì, fermo, a guardarlo incredulo, con gli occhi spalancati che venivano ghiacciati dal freddo e le scocche rosse che probabilmente non lo erano solo per la temperatura.

Cav.re Gio. Lorenzo Bernini; Napoletano o Fiorentino, come egli vuole. Lesse la firma dello scultore più volte, poggiato alla finestra per poter vedere. La luce del crepuscolo andava scemandosi, ma ancora non abbastanza per accendere le candele. Per questo era lì, a petto nudo, stanco, ad accarezzare con il pollice la bozza del pezzo di carta che gli aveva cambiato la vita, illuminata da quella splendida luce dorata. Aveva passato una giornataccia, a lavoro: i braccianti avevano tutti preso la congiuntivite a causa dell'allergia ai pollini primaverili, quindi al chiostro della chiesa avevano lavorato solo in cinque compreso lui, e avevano sgobbato in una maniera incredibile. Mai aveva lavorato tanto in vita sua, ma almeno aveva lavorato come voleva lui e senza dipendere da nessuno, e ciò non sarebbe mai stato possibile se non fosse stato per lo stesso bastardo che per anni aveva cercato di sopprimere la sua arte.
Sospirò, passando un dito lungo quella firma così elegante. Napoletano o Fiorentino, come egli vuole. Bernini aveva scritto quella lettera per il papa in persona, che gestiva anche l'università nel suo complesso, e aveva dato a Borromini l'abbozzo giusto per fargli sapere il contenuto, così da non deludere le aspettative createsi con essa. Alla fine, nell'ultimo periodo di lavoro per i Barberini, i loro turni si erano spontaneamente fusi, senza che nessuno dei due l'avesse notato o l'avesse fatto notare, facendo entrambi sia la mattina che il pomeriggio. Nonostante dovessero evitarsi, quindi, eccoli lì a passare l'intera giornata insieme, evitando i reciproci sguardi o mantenendoli fin troppo, stando ai poli opposti del palazzo o in una stessa stanza per ore. Non c'erano vie di mezzo, e la cosa aveva scombussolato entrambi al punto che Bernini, per la disperazione, aveva finalmente scritto quella benedetta lettera di raccomandazione.
Ogni tanto, quando pensava a lui, la rileggeva, e a seconda dell'umore sorrideva con il cuore colmo d'affetto e la stringeva al petto o si arrabbiava e la stropicciava, ma niente di ciò accadde quel giorno. Non era stupito di come un uomo così egoista fosse stato capace di scrivere tante cose belle sul suo conto, né di come, al contrario, fosse riuscito ad essere così falso da riuscire a convincere persino il papa: era invece assai perplesso e preoccupato. Stava solo osservando la scrittura elegante di quell'uomo piena di correzioni e sbavature, analizzando come determinati vocaboli venivano cancellati e riscritti da un secondo tipo di scrittura (quello di Caterina, probabilmente), ed era incerto su cosa pensare.
Come promesso, subito dopo essere stato accettato a lavorare come architetto della Sapienza aveva interrotto il proprio lavoro a Palazzo Barberini, lasciando tutto in mano a Bernini: era quindi ovvio che, il giorno dell'inaugurazione, entrambi i committenti avessero valorizzato lo scultore. Che però, sorprendentemente, si era rivelato meno egoista del previsto: l'aveva addirittura citato due volte, nel suo discorso di ringraziamento. Sì, perché lui c'era, quel giorno. Doveva essere rappresentata una commedia di Bernini, nel teatro del palazzo, e lui era tra gli spettatori. In teoria, come tutti gli altri, era lì per scoprire com'era l'edificio ultimato, ma la motivazione principale era per ringraziarlo di averlo raccomandato ad una persona influente come il papa. Peccato non avesse avuto occasione di avvicinarglisi, né in quel momento, né nel corso di tutti e due gli anni successivi: ogni volta che era quasi per farlo, ecco che spariva e non riusciva più a trovarlo. Sembrava un'ombra, semplicemente inafferrabile. E Caterina, sua amica che sapeva perfettamente quanto lui ci tenesse a ringraziarlo di persona, di certo non aiutava, anzi: per chissà quale motivo, quando lo gnomo era con lei era praticamente impossibile anche solo pensare di raggiungerlo. Bah.
Comunque, la situazione alla fine divenne così frustrante che si era rassegnato all'idea che non gli avrebbe mai parlato. Per questo quando lo vedeva, quelle poche volte a messa, rimaneva lontano, limitandosi a sperare che sapesse già quanto gli fosse grato e che quindi non c'era bisogno di un ringraziamento che neanche sarebbe riuscito a fare.
Guardò la stradina vuota su cui si affacciava la finestra senza guardarla davvero, immerso nei ricordi di come l'aveva visto negli ultimi anni: si era fatto crescere i baffi e il pizzetto, e nell'ultimo periodo era dimagrito al punto che il volto adesso sembrava quasi scheletrico. E chissà come si fosse trasformato quel corpo che un giorno era finito per distrarlo numerose volte durante il lavoro. Era evidente come il sole che l'energia del Bernini si stava spegnendo, e che era tutto a causa di Costanza. Oh, Bernini. Persino un pezzo di merda come te non merita questo.
Si girò l'anello attorno al dito, appartenuto una volta a Beatrice. L'ultima volta che aveva visto quella donna meravigliosa, due settimane prima, era stata sull'orlo del pianto dopo appena trenta secondi di conversazione. Ma era niente in confronto all'ultima volta che aveva visto il suo collega e rivale, quella mattina stessa.
Si grattò il petto, pensando a ciò che aveva subìto. Era stata una mattinata davvero strana, e lui era ancora troppo scosso per pensare ad altro. Aveva ancora le sue parole impresse nella testa, il suo viso sofferente ma convinto mentre le diceva.
Sospirò, piegando in quattro la lettera, e poggiò la testa sulla finestra, chiudendo gli occhi per allontanarsi dalle calde luci del crepuscolo e precipitando in quelle più fredde dell'alba, dell'alba di quel giorno.
Anche in quel momento stava girando l'anello intorno al dito, come ormai aveva imparato a fare quando era pensieroso, e stava passeggiando in zona San Pietro per poter prendere la colazione prima di avviarsi dall'altra parte della città. Sapeva perfettamente che così avrebbe impiegato il doppio del tempo per arrivare, ma non gli importava: adorava Roma, e mai si sarebbe stancato di vederla illuminarsi delle prime luci del giorno. E poi, a quell'ora non passava nessuno per le strade tranne qualche raro mendicante o ubriacone, quindi si percepiva un'atmosfera sospesa unica nel suo genere, che in nessun altro momento della giornata si poteva riscontrare. Quindi eccolo lì, all'alba, due ore prima dell'inizio della giornata lavorativa per il nuovo chiostro di San Carlo Borromeo, a passeggiare serenamente per i vicoli di zona San Pietro, e finì per imbattersi in una piccola piazza abitata. Non era niente di particolare, solo una piccola zona verso cui le case intorno erano rivolte. C'era un'aiuola al centro, e vari fiorellini che in quel momento stavano riposando serenamente. Gli edifici non erano molto alti, si ergevano di un piano al massimo, ed erano tutti rigorosamente rosso mattone.
E lì, a terra, di fronte all'unico edificio con la porta aperta, c'era un uomo svenuto che veniva percosso ritmicamente da una mazza di ferro retta da un uomo piccolino, con il viso contorto in una terribile smorfia di puro odio. Era Bernini, inginocchiato a terra con l'uomo tra le gambe: lo stesso Bernini che due settimane prima stava sorridendo innamorato alla sua amata ora stava piangendo dalla rabbia, l'arma che si alzava e si abbassava con forza. Mai era stato così violento, mai così sofferente. Era una visione orrenda, e doveva impedirla.
Non si accorse di niente: né di aver corso, né di aver tolto di mano la mazza e di averla lanciata lontano, né di aver preso da dietro Bernini e di avergli bloccato le mani in uno stretto abbraccio che gli impediva ogni movimento. Aveva agito d'istinto, e fu solo grazie al suono metallico della mazza che cadeva a terra che tornò lucido, capendo la situazione in cui si trovava. Sbatté più volte le palpebre, faticando a rimanere fermo con quel turbine di energia che si dimenava tra le sue braccia. Era una furia.
"E TU DA DOVE SFACCIMMA SPUNTI, BRUTTO PEZZO DI MERDA?! LEVATI DAL CAZZO!" varie volte tirò la testa all'indietro, cercando di rompergli il naso, ma non ci riuscì.
"Adesso ci calmiamo, va bene?"
"NO CHE NON CI CALMIAMO, MAREMMA TROIA, IO LO AMMAZZO A QUELLO! LO AMMAZZO!" gli pestò un piede e cercò di sollevarlo sulla schiena per poterlo scaraventare a terra, ma non ci riuscì: era troppo pesante.
"Lorenzo, ti prego: è tuo fratello, non puoi permetterti di dire queste cose!" Gli venne un colpo nel sentire una voce femminile spuntata dal nulla. Girò la testa di scatto, cercando di mantenere salda la presa intorno al marmocchio più vecchio di lui, e si ritrovò Costanza in veste da notte, con i capelli sciolti che cadevano lungo la schiena fino a toccare terra. Era inginocchiata al fianco di quello che evidentemente era Luigi Bernini, e aveva le guance rigate, il naso e gli occhi rossi, ed un'espressione così sofferente che gli faceva quasi pena. Cosa che invece non suscitava nel Bernini ancora cosciente: il suo odio era tale che anche per l'architetto si stava rivelando difficile da contenere. Nel mentre la gente, dai balconi delle case, andava affacciandosi, preoccupata ed infastidita da quelle urla così rumorose.
"Avresti dovuto dire queste cose a lui, non a me. Avresti dovuto pensare queste cose prima di aprire le gambe al suo misero cospetto, e non ora!" Borromini si ritrovò ad alzare le sopracciglia, sorpreso: ecco perché era vestita così, ed ecco perché era così infuriato! Certo, Caterina aveva previsto che sarebbe successo qualcosa che avrebbe portato a galla tutto, ma di certo non si aspettava così presto, e non si aspettava ci sarebbero state conseguenze così gravi. Gli venne l'istinto di girarsi l'anello, sovrappensiero, ma fu un terribile errore: nel farlo allentò impercettibilmente la presa, ma fu sufficiente perché Bernini potesse colpirgli il naso con una testata e liberarsi dalla sua morsa nel mentre che gemeva. Sfortunatamente per lui, però, non corse abbastanza velocemente da sfuggire alla presa sul colletto da dietro, che per un attimo gli fece mancare il respiro.
Si controllò il viso con una mano, per assicurarsi di non star sanguinando, e tirò Bernini verso di sé con l'altra, per poi prenderlo per il collo con le braccia abbastanza forte da farlo boccheggiare. Avvicinò il viso al suo orecchio e disse solo due parole, ma con una tale decisione da paralizzarlo sul posto: "Lorenzo, calmati."
Bernini fu così scosso dall'essere chiamato per nome da uno come lui che per un attimo si calmò, come se non avesse mai calcolato un evento del genere e quindi ora non sapesse che fare. Non sentiva più le mani che si conficcavano nelle sue braccia per liberarsi, quindi si sentì autorizzato ad allentare un po' la presa, giusto quel che bastava per farlo respirare.
"Tu non sei così violento."
Fece un breve verso di scherno, stringendo leggermente le dita sul suo braccio. Era tornato normale, per un momento. "Dimentichi il pezzo di vetro con cui ti ho trafitto."
"Non eri consapevole di ciò che facevi."
Con calma, mosse lentamente le mani verso le sue, accarezzandogli gli avambracci. La piazza, intanto, andava sempre più popolandosi di gente curiosa. "E chi te lo dice? Chi ti dice che in momenti come questi io non manifesto ciò che realmente sono? Chi ti dice che io non sono peggio del pezzo di merda che hai sempre creduto che fossi?" Fece una breve pausa tremante, in cui percepì nell'incavo del gomito il suo collo che si muoveva: aveva deglutito per evitare di far tremolare la voce. Stava cercando di non piangere. "Che non sono un fottutissimo mostro che gode nel rovinare la vita delle persone?"
Le domande che gli fece lo scossero nel profondo, al punto da lasciare che le mani dello scultore si intrecciassero con le sue. "Pensi davvero di essere un mostro?"
Bernini, in silenzio, liberò il collo dalle sue braccia, mettendosele in vita come per proteggersi. Guardò fisso a terra, con le sopracciglia aggrottate, ma non si azzardò a proferire parola.
Preoccupatissimo per il suo atteggiamento così strano, insistette, con una punta di disperazione nel tono di voce: "Rispondimi, ti prego: credi davvero in quello che dici?"
Vide lo scultore chiudere gli occhi, facendo spuntare delle rughette sul mento. "Non credo che la mia risposta cambierà le sorti di Luigi."
Strinse le mani nelle sue, angosciato. "Lorenzo..."
"SMETTILA DI CHIAMARMI LORENZO!" in un scatto d'ira, si liberò dall'abbraccio e iniziò a camminare all'indietro appositamente per guardarlo infuriato ed indicarlo con furore, riuscendo incredibilmente a non incappare nei passanti che accorrevano per soccorrere l'uomo svenuto (o per avere materiale su cui spettegolare)."NON HAI ALCUN DIRITTO DI CHIAMARMI COSÌ! NESSUNO, QUI, CE L'HA!" Gli volse le spalle e percorse a grandi falcate l'intera piazza, la folla che magicamente creava una strada attorno a lui appositamente per non farsi toccare.

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