VI. Colazione in compagnia - Bernini
Mi intrometto anche oggi per dirvi che questo capitolo e il prossimo, che pubblicherò domani, narreranno a grandi (-ssime) linee lo stesso evento, quindi saranno praticamente lo stesso capitolo. Vi consiglio di leggere entrambi, ovviamente, ma sappiate che sono molto lunghi. Buona lettura, e non rimanete troppo disgustati dal contenuto privo di senso :)
«Qualche tempo fa un dottore mi disse che il lutto è diviso in cinque fasi.» Disse, prima di addentare con delicatezza il proprio pasticcino quasi finito. Era appena uscito di casa, e si era ritrovato Caterina davanti la porta. Che ora non la smetteva di blaterare sul suo umore nero.
«Come ci siete finiti a parlare di lutto?» La guardò, i capelli bicolore che venivano leggermente mossi dalla fresca brezza di un autunno che stava arrivando prima del previsto. Era ancora agosto, ma il calore se ne stava già andando. Erano quattro anni che succedeva.
«La paziente prima di me aveva perso un bambino e si recava lì per sapere come stava il suo corpo. E il dottore, abbastanza scosso da quella situazione, è stato particolarmente chiacchierone sulla questione.» Finì il pasticcino, pulendosi le dita sporche di panna. Per quanto tentasse di essere elegante, non riusciva mai a rimanere pulita quando c'era di mezzo un dolce. Era più forte di lei.
Mise le mani in tasca, confuso. «Cioè ha ignorato il segreto professionale e ha sperperato tutto alla prima persona che gli capitava davanti?»
Caterina alzò le sopracciglia nere come il carbone, stringendosi nella sua sottile mantellina celeste. «In parole povere... sì. Ma credimi, ha solo parlato di come lei avesse reagito alla sua perdita, dopodiché si è discostato quasi subito parlando delle cinque fasi del lutto.»
«Mh. E come si chiama, il dottore?»
Lo guardò con i suoi occhi castani, accennando un sorriso insicuro. «Se te lo dico lo fai licenziare, quindi è meglio se rimane anonimo.»
E lui, colto in flagrante, si limitò a sospirare. «Mi conosci troppo bene.»
Gli diede una leggera spallata, un bellissimo sorriso che le illuminava il volto così come illuminava il mondo. Ma non lui. «Beh, dopo quasi trent'anni di amicizia mi pare anche il minimo, sai: ormai siamo come fratelli.» Da quando si erano trasferiti a Roma, la famiglia di Caterina aveva sempre vissuto vicino a loro. Lui, il fratello e lei erano cresciuti insieme, costituendo un trio di criminali che spesso e volentieri rubavano i dolci alla panetteria lì vicino. Poi i due maschi avevano iniziato a fare carriera, nel mondo dell'arte, diventando entrambi scultori, ma lei era rimasta intrappolata dai genitori, che pretendevano fosse una donna impeccabile per il futuro marito che le stavano ancora cercando. Si sentiva come un uccello in gabbia, incapace di realizzare i propri sogni, e la famiglia Bernini era l'unica che le permetteva di evadere, almeno per un po'.
Il gioioso sorriso iniziò a perdere luminosità, acquisendo una nota malinconica: «Per questo ho sofferto anch'io quando è morto il signor Pietro.»
Bernini chiuse gli occhi, il cuore spezzatosi in mille pezzi. Si sentiva come se fosse stato appena colpito in pieno petto con una mazza. Quel giorno era il quarto anniversario della morte di Pietro Bernini, suo padre. Fu una morte improvvisa, per cause cardiache, e nessuno se l'era aspettato. Dall'oggi al domani, ecco che suo padre non c'era più. Il giorno prima era vispo, arzillo, severo ma anche affettuoso, a modo suo; il giorno dopo non aveva più aperto gli occhi. Era morto nel sonno, e sua madre gli aveva pure rimboccato le lenzuola per evitare che rabbrividisse, in quella giornata d'estate stranamente fredda. Se ne erano accorti a pranzo, quando Pietro non si era ancora alzato. Le urla della madre furono strazianti. Luigi, suo fratello, era corso via a cercare aiuto, nella speranza di poterlo ancora salvare. Lorenzo, invece, era rimasto all'uscio della porta, con occhi spalancati, a non fare nulla. E a distanza di quattro anni si sentiva ancora fermo lì, a guardare il cadavere del suo più grande punto di riferimento e della persona che aveva amato più di tutte, incapace di fare altro.
«Il lutto avviene in cinque fasi: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Dopo tutto questo tempo, tu continui a negare la tua situazione. Dopo quattro anni, ancora ti rifiuti di ammettere di aver perso tuo padre.»
«So perfettamente che mio padre è morto, Tezio.» Accelerò il passo, infastidito dalle sue parole. Come poteva pensare una cosa del genere?
E Caterina lo seguì a ruota, continuando a blaterare. «Sì, ma dentro di te non riesci ancora a capacitartene. Di volta in volta cerchi di chiudere il tuo dolore all'interno di una scatola e di abbandonarlo in fondo al tuo animo, ma ciò è impossibile: prima o poi tutta la tua sofferenza si accumulerà ed esploderà, causandoti enormi danni psicologici. Devi affrontare la tua situazione, non scappare da es-» e si bloccò sul posto, sopprimendo un verso di stupore per lo scatto di Bernini all'indietro: la stava guardando molto male, troppo male. E lei ne era inquietata.
«So quali sono i miei sentimenti, e di certo non sono come dici tu. E ora, se permetti, voglio prendermi un caffè.» Ed entrarono nella piccola piazza del borgo antistante la Basilica di San Pietro. Era piena di negozietti molto gettonati, che di domenica erano anche particolarmente pieni: c'erano un fruttivendolo, una tavola calda, un macellaio e due sarti uno di fronte all'altro, dotati entrambi delle stoffe migliori e di un grande talento, e per questo in accesa competizione tra di loro. C'era chi preferiva uno, chi l'altro, e chi non sapeva decidere e quindi alternava le commissioni, facendo il doppiogiochista per avere il trattamento migliore da entrambi. E lui era uno di questi ultimi.
«Ma come, non ne hai appena bevuto uno a casa?»
«E io ne voglio un altro.» Entrò scenograficamente nella tavola calda, annunciando il proprio ingresso con la campanella collegata all'uscio, e si avviò verso il bancone. Peccato che nessuno lo sentì, tenendo conto di come erano rumorosi i clienti. Stavano chiacchierando tutti quanti allegramente, godendosi le prelibatezze di quel posto con una splendida musica d'arpa in sottofondo. Adorava venire lì.
«Ma troppo caffè fa male al cuore!»
Come se non stesse già male di suo. «Salve, vorrei un caffè.»
Il cameriere lo guardò con allegria, con l'intenzione di scherzare come faceva con tutti, ma poi ci ripensò: la sua faccia era troppo arcigna, nonostante stesse sorridendo. «Da consumare al tavolo o al bancone?»
«Al bancone va benissimo.»
Annuì e gli preparò subito un caffè. Non ci mise molto, ma fu abbastanza tempo perché, guardandosi intorno, potesse notare una donna dagli scuri capelli seduta al tavolo con una tazza in mano che lo stava fissando con quei suoi magnetici occhi verdi. E lui sapeva benissimo chi fosse.
Come se non fosse già una giornataccia, ecco quella donna che gli sorrideva e alzava la tazza verso di lui in segno di saluto. Le rivolse un sorriso falso, prima di sospirare scocciato e dire all'amica: «Porca troia, Borromini è qui.» Si girò, cercando in tutti i modi di evitare lo sguardo di Beatrice, l'unica donna che aveva pagato controvoglia. La odiava a morte.
Caterina, invece, non la conosceva nemmeno. Né conosceva l'architetto: sapeva della sua esistenza solo dai racconti del migliore amico, quindi aveva una visione parecchio distorta di lui. Risulta quindi lecito, che, guardandosi intorno, tutto ciò che disse fu: «Non mi sembra di vedere un mostro alto otto piedi che risucchia l'anima delle persone innocenti direttamente dalla loro bocca.»
Guardò esasperato l'amica, mentre ringraziava il cameriere per il caffè appena ricevuto. «Prima cosa: è alto all'incirca sei piedi, e non otto. Seconda cosa, non lo vedi perché sicuramente si è nascosto da qualche parte. Fortunatamente non vuole vedermi, e nemmeno io ne ho voglia.» Bevve con calma con un sorrisetto, nonostante volesse andarsene da lì al più presto: il caffè si doveva gustare, a prescindere da tutto. «Terza cosa: per come è fatto forse risucchia veramente le anime.»
La guardò con un luccichio divertito, mentre lei lo guardava confusa con quei suoi dolcissimi occhi castani. Era così bella, così buona, era perfetta. Ed era innamorata persa di lui, ma per quanto ci provasse a ricambiarla non ci riusciva proprio: era semplicemente troppo per lui, ma anche troppo semplice. In una relazione lui era stimolato soprattutto dalla difficoltà del corteggiamento, dal rischio di non essere accettato, dalla paura di farsi scoprire dalle famiglie mentre si facevano cose che non si dovrebbero fare; lei era troppo pura ed innamorata, sarebbe stato troppo facile un rapporto amoroso con lei, ma soprattutto sbagliato. Lui era cattivo, vizioso, provocante, e aveva cercato in tutti i modi di sviarla, eppure lei era troppo testarda: continuava a fare di testa sua, a trovare i sentimenti dove non c'erano, a cercare la sua minuscola parte umana per giustificare tutte le sue terribili azioni. Minuscola parte umana che però lei amava più di ogni altra cosa. Ed era per questo che si parlavano ancora: perché lei voleva passare tutta la sua vita con lui, e non avrebbe mai rinunciato ai suoi sogni. L'aveva fatto fin troppe volte a causa dei genitori.
«Ma se non lo vedi, come fai a capire che è qui?»
Sorrise genuinamente, poggiando il caffè sul bancone. Ora doveva bere l'acqua. «Perché ho visto la sua migliore amica.»
«Oh e chi è, quella dagli splendidi occhi verdi che ogni tanto si gira verso di noi e che ti ostini a non guardare?»
La guardò sorpreso. «Era necessario essere così specifica?»
Sorrise sorniona: «Se questo significa metterti in imbarazzo, sì.» lo squadrò silenziosamente per un attimo, con un lampo di tristezza che le fece vacillare il sorriso per un attimo, ma poi lo allargò e disse, impaziente: «Beh? Come si chiama?»
La guardò confuso, bloccando il bicchiere a mezz'aria. «Beatrice, ma perché lo chiedi?»
Alzò un sopracciglio, guardandolo maliziosa: «Non intendo l'amica di Borromini, intendo la donna da cui vuoi farti notare.»
Aggrottò le sopracciglia, iniziando a bere l'acqua. Come aveva fatto ad accorgersene? «Da cosa deduci che ci sia una donna?»
E lei sospirò, delusa. Per come era fatta, con tutta probabilità era stupita di come lui l'avesse sottovalutata. Di nuovo. «L'ultima volta che ti ho visto così in forma è stato quattro o cinque anni fa, quando tu e Luigi entraste in competizione per conquistare una ragazza che si chiamava... no, non ricordo come si chiamava. In ogni caso, dato che lui aveva dalla sua parte il bel faccino e l'altezza, mentre tu sei basso e con il viso malvagio, ecco che tu decidesti di avere dalla tua il bel corpo. E secondo me tu stai pensando allo stesso modo anche adesso, perché altrimenti non saresti così atletico. Non sono mica io?»
La guardò incredulo, incapace di trovare una risposta che potesse difenderlo, ma poi sorrise imbarazzato. Non era esattamente la scelta migliore quella di parlare dei propri interessi amorosi con lei. «Non credo sia il caso di rivelare tali informazioni in pubblico.»
Alzò le sopracciglia, stranita ma con un lampo di sofferenza degli occhi. Era sempre una pugnalata nel cuore quando parlavano di donne, ma era lei che insisteva nel farlo, nonostante i suoi tentativi per sviare l'argomento. E a lui dispiaceva tantissimo. «Va bene... allora facciamo che me lo dici dopo? L'importante adesso è che ho scoperto che Borromini è nascosto dietro quella sedia, perché ho appena visto un braccio volante prendere una tazza dal tavolo. Anche perché altrimenti quella donna starebbe chiacchierando amabilmente con il vuoto da quando siamo entrati.»
Bernini, senza nemmeno volerlo, si ritrovò a ridacchiare. «Non oso immaginare come sarebbe la sua faccia se andassi lì a fargli fare una bellissima figura di merda.»
«E allora andiamo!» Caterina gli strappò il bicchiere di mano e iniziò a tirarlo, un bellissimo sorriso entusiasta in viso che prima non c'era. Adorava fare nuove conoscenze, ma lui non voleva che le facesse. Non quelle, non in quel momento.
«Cosa? Assolutamente no! Quello mi rovina la giornata, e tenendo conto che è già una giornata di merda non so come andrà a finire. Non lo voglio proprio vedere, oggi.»
«Dài, che ti costa? Siamo in un luogo pubblico, non può strangolarti qui! Scommetto tre scudi che questo sarà il momento più alto della tua giornata.»
«Caspita, se una conversazione con Borromini è il punto più alto non so cosa possa costituire quello più basso...» e si diressero insieme verso il tavolo, allarmando sempre più Beatrice, che arrivò persino a schiarirsi la gola.
Borromini, purtroppo o fortunatamente, non ci fece caso. «...Non mi muoverò da qui finché non se ne andrà quel bastardo di Gian Lorenzo Be-» e scattò sul posto nel vedere due grandi, forti e al contempo delicate mani che cadevano flosciamente una sopra l'altra a pochi pollici dal suo viso. Caterina aveva ragione: il taciturno e perennemente serio Francesco Borromini era sprofondato sulla sedia, in modo tale che la testa fosse nascosta dallo schienale e che quindi non potesse essere visto da chi fosse in zona bancone. Aveva i gomiti poggiati sul sedile e metà dell'enorme corpo nascosto dalla tovaglia che scendeva quasi fino a terra. Persino capelli neri scombinati erano stati nascosti non successo. Si era impegnato per bene.
L'architetto, spaventato da quella visione improvvisa, alzò la testa con gli occhi spalancati e il cuore a mille, e si ritrovò il viso di Bernini sottosopra rispetto al suo che lo stava guardando con tanta crudeltà. Stava cercando in tutti i modi di non scoppiargli a ridere in faccia, da come si evinceva dal sorrisetto che aveva sotto i baffi.
Era poggiato con i gomiti sullo schienale, mentre le gambe erano accavallate in una postura disinvolta. «Vi sedete sempre così a tavola, caro architetto?»
Con le rughe sul mento, le labbra divenute un filo e gli occhi assottigliati, rispose: «Cosa-»
«Sì, si siede sempre così.» Fu Beatrice ad interromperlo, per evitare che dicesse cattiverie. E probabilmente non avrebbe dovuto farlo, tenendo conto di come la guardò male l'amico. Era tutto rosso per l'imbarazzo, ma lei se ne fregò altamente, sorridendo convinta: «È un'usanza della sua gente: a colazione bisogna necessariamente sdraiarsi sulla sedia.»
Aggrottò le sopracciglia, perplesso, cercando in tutti i modi di rimanere serio, e si alzò, poggiando le mani sullo schienale. Era genuinamente incuriosito. «Perché, Borromini è straniero?»
Beatrice annuì appassionatamente, mentre Bernini e Caterina ascoltavano attentamente, nonostante tutto il chiasso in sala: «Sì, è di un paese dell'estremo Nord, si chiama Bi... Bo... Come si chiama?»
Borromini non rispose subito, probabilmente perché troppo impegnato a guardarla male. Nel mentre i due amici ne approfittarono per prendersi delle sedie dal tavolo appena liberato per mettersi a loro lati. La situazione era bellissima, e nessuno aveva intenzione di perdersela. Peccato che l'architetto non li volesse, e che quindi li guardò incredibilmente esasperato. «Davvero, ragazzi? Davvero volete rimanere qui a chiacchierare?»
E i due lo guardarono allo stesso modo e con lo stesso sorrisetto stampato in faccia. Mettendosi sotto il tavolo, lo scultore toccò per sbaglio il ginocchio di Borromini, ricevendo un'occhiataccia da parte sua. Ops. «Certamente: io voglio veramente sapere le origini del mio primo apprendista.»
«Apprendista stocazzo, brutto pezzo di-»
«BISSONE!» Beatrice, per interrompere l'insulto, urlò al mondo la città d'origine dell'architetto con fin troppo entusiasmo, sbattendo una mano sul tavolo con molta violenza, e si beccò uno sguardo spaventato da parte sua.
«Insomma, Bea!»
«Scusatemi, volevo solo dire che siete di Bissone.»
«Ah, e dove si trova di preciso?»
Borromini sospirò, stanco: «Sulle Alpi, dalla parte della Germania.» Non ce la faceva più, con tutti quei deficienti che aveva intorno. Caterina intanto rimaneva zitta a guardare, godendosi la scena.
«E come ci siete finito a Roma?» Bernini, dando molto fastidio alle ginocchia dell'architetto, accavallò le gambe e si mise in punta sulla sedia, per poter poggiare i gomiti sul tavolo e reggersi la testa con una mano. Gli sorrideva curioso, e lo era per davvero. Anche se solo per poterlo prendere in giro in futuro.
E infatti Borromini si insospettì. «Ma da quando in qua vi interessa della mia vita?» Non poteva essere preso sul serio, in quella posizione così scomoda. Sembrava un cretino. Per la prima volta Bernini non era terrorizzato da lui. Per la prima volta gli sembrava un uomo normale, dotato di disagi e persino di sentimenti.
Si mise melodrammaticamente una mano sul petto, facendo un finto verso di sorpresa: «Perché, non posso essere sinceramente curioso sulle origini del mio amato architetto sottopagato? Con questa domanda mi offendete, e non poco.»
Qualche mese prima si era definito lui stesso così, durante la presentazione del Baldacchino di San Pietro, ma la cosa non era divertente se detta da qualcun altro. E Bernini ne era consapevole. Gli era venuta voglia di tornare in sé e di punzecchiarlo finché non perdeva la pazienza. Per vedere fin dove arrivava, in pubblico. Mi piace troppo il pericolo, ed è un problema serio.
Però, stranamente, tutto ciò che disse fu: «Siete proprio uno stronzo, sapete?»
Beh, questa non me l'aspettavo. Alzò le sopracciglia, sorpreso dalla sua reazione così pacata, e si sistemò sulla sedia. «Beh... no.»
Anche Borromini alzò le sopracciglia, sorridendo appena. «Spero che questo mio giudizio possa essere d'aiuto per la vostra formazione personale, allora.»
Improvvisamente si ritrovò il cuore pieno di vergogna. Si rimpicciolì sulla sedia, non capendo perché si sentisse così, e si limitò ad annuire. Tante volte era stato insultato da lui, ma mai ne era stato tanto colpito. Cosa c'era di diverso, stavolta?
«Lorenzo?» Caterina lo stava guardando con un sopracciglio alzato e il sorriso che stava iniziando a spegnersi. Lo conosceva troppo bene, sapeva sempre ogni singola emozione che provava.
«Dimmi.»
«Lo sai che dobbiamo andare dal sarto?» E sapeva anche qual era la cosa giusta da fare. Ed in quel momento era andarsene.
Annuì, sorridendo, mentre con la coda dell'occhio notò Borromini che si sedeva decentemente. «E la vostra usanza straniera?»
Lo bloccò lì, seduto in punta alla sedia con la schiena ancora ricurva e le mani sui braccioli. Lo guardò divertito, mentre si alzava e metteva la propria sedia sotto il tavolo. «Siete un cretino.»
Non li salutò, né disse altro, e se ne andò con Caterina verso il sarto, senza sentire Borromini che gli diceva perché fosse a Roma: la tavola calda era troppo rumorosa, e Bernini troppo scosso dalla sua stessa reazione. Una conversazione amichevole con l'architetto era una cosa così irreale che ora non sapeva più cosa pensare di lui: era davvero l'incarnazione dell'ira, o semplicemente un uomo che voleva difendere il proprio status sociale come faceva lui, ma in modo diverso?
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