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V. Riunione (e discussione) straordinaria

Scusate se mi intrometto ma volevo solo dire un paio di cose.
Innanzitutto buon anno, anche se probabilmente è troppo tardi per augurarlo. Dopodiché mi affretto a comunicarvi che la pubblicazione di questo capitolo è avvenuta con tanto ritardo perché:
1. Erano le vacanze natalizie, e durante le vacanze natalizie i miei prof mi hanno sommersa di compiti, quindi ho studiato tutti giorni e non me le sono manco godute;
2. La prima versione del capitolo era troppo corta, quindi ho dovuto rifarlo e sono uscite quattro versioni diverse;
3. La versione finale è uscita così lunga che ho dovuto dividerla in tre, quindi questo e i prossimi due capitoli saranno dotati di un ritmo abbastanza lento, risultando forse un po' più noiosetti (e mi dispiace per questo).
Detto questo, spero possiate perdonarmi e vi auguro una buona lettura :)

Passarono i mesi, continuando a costruire il palazzo, che stava vedendo la propria inaugurazione avvicinarsi sempre di più, e i due artisti allontanarsi sempre di più. Non riuscivano a stare insieme, finivano sempre per litigare, creando un'atmosfera altamente tossica per tutti, al punto che i due lavorarono in fasce orarie differenti: a Borromini spettava la mattina, mentre a Bernini il pomeriggio, siccome, essendo famosissimo e voluto da tutti, aveva mille altri commissioni da fare. Ad entrambi i committenti stava piacendo sempre di più il risultato che stava uscendo da quella "collaborazione", ma agli artisti faceva schifo quello che produceva l'avversario. Ogni volta che si incrociavano, cioè all'ora di pranzo nel colonnato d'ingresso del palazzo, l'atmosfera si appesantiva, con i loro sguardi fissi l'uno sull'altro finché non si oltrepassavano. Bernini, in particolare, lo guardava anche dopo, finché non spariva dietro l'ala laterale. Quelle poche volte che erano in una stessa stanza, quando capitava che, causa impegni, l'architetto si vedeva costretto a fare il pomeriggio, si tenevano a distanza, con uno dei due che ogni tanto posava lo sguardo sull'altro finché questi non se ne accorgeva, distogliendolo. Nessuno si era dimenticato quello che era successo, e nessuno l'avrebbe mai fatto.
La situazione divenne così esasperante che evidentemente nemmeno Taddeo Barberini riuscì più a sopportarla, dato che alla fine decise di convocare Borromini nel suo studio. Studio in cui però lui non c'era. Anzi, c'era qualcun altro al suo posto.
«Barberini ha convocato anche voi?»
Chiuse la porta, stanco di essere lì nonostante fosse appena arrivato. C'erano lui e Bernini, nessun altro. Strano.
«Più o meno.» stava guardando fuori dalla finestra, l'allegra luce solare del mattino che illuminava il suo pensieroso volto spigoloso e le sue braccia incrociate. Voleva avvicinarsi, curioso di sapere cosa stesse accadendo all'esterno di così interessante, ma rimase fermo lì. Non voleva stargli vicino, il suo essere lo turbava nel profondo.
Lo scultore rivolse lo sguardo verso di lui, mettendolo a disagio. Quegli occhi lo avevano visto quasi nudo, e dopo tutti quei mesi ne era ancora scosso.
«Diciamo che Barberini se n'è appena andato.» si avvicinò con calma alla scrivania poco distante, poggiandovi sopra i polpastrelli delle dita. «Diciamo che non sarà presente a questo incontro voluto da lui stesso.»
Borromini aggrottò le sopracciglia, iniziando già ad infastidirsi. L'aveva convocato lui fingendosi uno dei due committenti ed aggirandolo per potergli parlare in privato, e alla finestra aveva guardato proprio Taddeo che se ne andava. «Cosa vuoi?»
E Bernini ridacchiò tranquillo, incrociando nuovamente le braccia. «Caspita, non mi aspettavo vi incazzaste così presto. E dovete ancora sentire tutto.»
«Parla, lurido pezzo di-»
«D'accordo, d'accordo, non c'è bisogno di ricorrere al linguaggio d'osteria che vi ha insegnato la vostra carissima amica.» L'aveva detto con il sorriso, come se fosse una cosa da niente, ma quello che aveva detto non aveva fatto altro che fargli stringere i pugni e assottigliare gli occhi per l'ira. La sua "carissima amica" altri non era che Beatrice, la donna che li aveva soccorsi quella volta che si erano ubriacati quasi al punto da perdere definitivamente il fegato (e lui anche qualche altro organo, ma non per l'alcol). La stessa donna che aveva costretto Bernini a pagare e che aveva spaventato a morte Borromini con la sua sfacciataggine. Sfacciataggine che dopo cinque mesi ormai aveva imparato ad apprezzare, tenendo conto che in un ambiente come l'osteria era la difesa migliore da utilizzare.
Era una donna semplice e genuina, che mai si sarebbe aspettato di trovare in una società in cui la vita è un sogno e quindi tutto è finto. E una donna verace come lei come poteva accettare un'inutile e fasulla corte da parte dell'architetto, che dalle sue parole aveva capito di dover fare esattamente questo?
"Non presentatevi mai più vestito così bene. Siamo in un'umile osteria, non a villa Farnesina. Qui non ci guardano gli affreschi di Raffaello, possiamo stare tranquilli e fare schifo quanto ci pare." Gli aveva detto questo, subito dopo aver accettato la rosa che le aveva portato. Era stata felicissima della sua presenza lì, ma allo stesso tempo arrabbiata per il motivo di tale presenza.
"E allora perché mi avete chiesto di tornare?" Borromini si era fatto tanto di quel coraggio per tornare, oscillando tra i sensi di colpa e l'imbarazzo, e ora si scopriva che era stato totalmente inutile.
"Ma per rompere il cazzo! Eravate così timido, pensavo che un'amicizia non vi avrebbe fatto poi tanto male."
"E perché ci provavate con me?"
"Perché sono sfacciata quanto i miei clienti. Loro ci provano con me, io ci provo con loro."
"E il morso sul braccio?"
Alla domanda era scoppiata a ridere silenziosamente, senza smetterla più. Ci mise un po' a tranquillizzarsi per rispondergli: "Era un disegno, ho utilizzato i pigmenti di una mia amica. Vi è piaciuta la mia opera d'arte?"
Borromini rimase totalmente allibito dalla scoperta. E lui che si era fatto i peggiori film mentali su quel morso. Però almeno questo spiegava perché faticava a togliersi e perché non gli faceva male. "Perché diamine l'avete fatto?"
"Ripeto, perché sono sfacciata e volevo rompervi il cazzo. Faccio sempre così con quelli sensibili. Li spavento a morte e solitamente non si presentano più."
"Ma perché fare una cosa del genere?"
"Beh perché... Sinceramente non lo so, non è che io penso molto prima di agire. Mi era venuto in mente di farlo e l'ho fatto, fine. Tanto non mi aspettavo di vedervi una seconda volta."
"Ma pensando sempre così non mandate in rovina l'osteria?"
"Sì, ma questi sono fatti di mio fratello. Io sono solo un'umile cameriera che ha voglia di scherzare: le donne non possono mica permettersi di possedere un'osteria."
"È ciò che vi ha detto vostro fratello, scommetto."
E lei non gli aveva risposto, limitandosi la guardarlo infastidita. Aveva sempre odiato questa restrizione in cui si trovava solo perché femmina, e mai si era rassegnata alla superiorità del fratello. Infatti cercava sempre di sabotarlo, nel suo piccolo, così come cercava sempre di sabotare ogni uomo che la trattava come un essere inferiore. Cosa che non era mai stata.
La guardò comprensivo, mentre riempiva i mille bicchieri di birra che le chiedevano al banco. "Posso averne una anch'io?"
Gli sorrise, e da quello scambio di sguardi nacque un'amicizia imprevedibile: quella tra un uomo pudico e modesto e una donna volgare e apparentemente frivola dotata di un senso di giustizia molto particolare, che aveva portato Bernini a pagare 50 scudi per le sue malefatte. Ed era per questo che gli stava molto antipatica. Solo che da qui ad una frecciatina sul suo modo di parlare... Beh, non c'era da sorprendersi se Borromini fosse un po' stizzito. Solo un po'.
Fece un passo verso di lui, mormorando: «Giuro che se dite un'altra parola contro Beatrice-»
«Ah, Beatrice! Ecco come si chiamava! Caspita, è pazzesco come un nome così nobile appartenga ad una troia del genere...» e lì Borromini spense il cervello, divorato dalla furia omicida che quelle parole gli avevano provocato. Non poteva permettersi di insultare una persona alle sue spalle. Non la sua migliore amica, non davanti a lui.
«Ecco il Borromini che conosco.» le sue parole lo fecero tornare in quella stanza, e scoprì di averlo fatto di nuovo: di averlo preso per il colletto e di averlo sollevato da terra, avvicinando il viso al suo nonostante la scrivania che li separava. Si sentiva il viso contorto dalla rabbia, con le sopracciglia così aggrottate da fargli male. Ciò che vedeva, però, era il terribile sorriso di sfida che gli stava mostrando Bernini. Lui voleva che reagisse. Voleva che perdesse le staffe, che non fosse più in sé. Ma per quale motivo?
Lo posò a terra, dall'altra parte della scrivania, e si mise una mano in faccia, cercando di calmarsi. «Perché diamine volete che diventi una bestia? Che cazzo volete da me? Non potete semplicemente lasciarmi lavorare e vivere in pace?»
«È questo il problema.» C'era un accenno di sorriso, nel suo volto. Aveva gli occhi chiusi e si teneva la base del naso con pollice e indice, come se fosse lui quello che doveva smaltire la rabbia. Sospirò, dopodiché si portò di nuovo davanti alla finestra. «Voglio che vi licenziate.»
«Caspita, vi state impegnando molto più del solito a farmi arrabbiare, oggi.»
«E questo invece è il motivo perché non vi voglio più con me, avvalorato anche dall'evento appena accaduto.» si poggiò con la schiena alla finestra, prima di voltarsi verso di lui e guardarlo dritto negli occhi. «Le vostre crisi di rabbia sono le più spaventose di cui io abbia mai fatto esperienza, e fidatevi se dico che ne sono tante. Ogni volta che sto con voi mi ritrovo in un costante terrore di essere assalito, e per quanto io sappia l'unicità del vostro talento e per quanto io voglia acquisirlo da e con voi... semplicemente non riesco più ad avervi vicino. Mi state consumando dentro, e non ce la faccio più. Il cuore impazzisce, lo stomaco si chiude... davvero, è una tortura.»
Borromini lo guardò sconcertato, gli occhi spalancati che gli bruciavano e la bocca semiaperta che per miracolo non era caduta a terra dallo stupore. Non l'aveva mai vista dal suo punto di vista, né ci aveva mai pensato. Era davvero così terrificante? Così pericoloso? Si era sempre visto come un tipo pacifico, aveva avuto pochissimi attacchi d'ira in tutta la sua vita, ma la maggior parte di essi erano stati causati proprio dallo scultore: non c'era da stupirsi se quest'ultimo lo vedeva come un cane rabbioso. Eppure lui era comunque sorpreso, perché di certo non si aspettava di traumatizzare un uomo così sicuro di sé al punto da roderlo dentro. E lo era anche perché non si aspettava nemmeno che un uomo orgoglioso come Bernini si esponesse così tanto.
Alla fine annuì, deglutendo tutto il suo turbinio di emozioni negative miste a compassione, e disse, in modo incerto: «Va... va bene, me ne andrò. Ma posso solo chiedere una cosa? Giusto perché io possa continuare a permettermi da mangiare.»
Lo scultore alzò un sopracciglio, in attesa.
«Potreste farmi una lettera di raccomandazione? Un uomo importante come voi di certo verrà ascoltato da chiunque.»
Annuì, con un accenno di sorriso. Era divertito dalla sua richiesta ridicola. «Per chi dovrebbe essere?»
«La Sapienza.»
E lì Bernini scoppiò a ridere di gusto. Era una risata crudele ed arrogante, che nulla aveva a che vedere con l'esposizione emotiva del discorso fatto precedentemente. E così Borromini perse tutta la sua compassione, infastidito da quel viso che si dotava di una bellezza totalmente differente quando gioiva. «E ti sembra che la prima università di Roma e di tutto lo Stato Pontificio possa ammettere uno come te?»
Scrollò le spalle, non osando staccare lo sguardo dai suoi occhi. Il rispetto se n'era andato e finalmente potevano trattarsi male quanto volevano. Al diavolo il disagio che aveva provato prima. «Sì, se scrivi una lettera di raccomandazione in cui dici che sono un bravo architetto.» Poggiò anche lui le mani sulla scrivania, chinandosi in modo tale che i propri visi fossero quasi alla stessa altezza. «Fallo, e me ne vado. Non farlo, e sarò il tuo incubo peggiore per tanto altro tempo.» fece un'alzata di spalle e sorrise mellifluo, per far capire la semplicità della sua minaccia. «A te la scelta.»
Gli angoli della bocca di Bernini erano impercettibilmente rivolti verso il basso, simbolo di rabbia repressa, esattamente come le sopracciglia aggrottate. Finalmente ora toccava a lui. «E come diamine faccio ad esaltare la feccia dell'umanità?»
«Non è un problema per te, dato che non fai altro che vantarti per tutto il tempo. Puoi farcela.» Gli toccò il naso con un falsissimo affetto, allargando il sorriso, e si allontanò, ma fu bloccato dalla mano dello scultore che gli stritolava il polso. Fu solo allora che staccò lo sguardo dai suoi occhi e lo spostò verso quel contatto così rude, che gli bloccò il respiro per lo sdegno.
«Se te la faccio te ne vai davvero?» Alcune vene emergevano sul dorso di quella forte mano spigolosa, inoltrandosi nei polsi e poi nelle maniche, che nascondevano braccia sottili ed altrettanto venose. Chiuse gli occhi per un attimo, costringendosi a non pensare a quello e anzi a concentrarsi su qualcos'altro, tipo le ripetute offese che aveva subito negli ultimi minuti.
«Fidati, voglio andarmene da qui il prima possibile.»
«E smetterai di avere a che fare con me, giusto?» La stretta si accentuò, facendogli aggrottare le sopracciglia dal dolore. Cacchio, se era forte. Probabilmente era capace di romperglielo, il polso.
«Odio anche solo il saperti nei paraggi: ovvio che starò il più lontano possibile da te.»
Bernini interruppe il contatto, permettendosi di fare un silenzioso sospiro. «Bene, allora te la farò.»
Borromini si guardò il polso, su cui stava già nascendo il segno della mano che l'aveva stretto. Quanto voleva tagliare quella mano per non averlo più. «Con permesso.» Si allontanò da lui e se ne andò sbattendo la porta dietro di sé, sospirando rumorosamente nel tentativo di calmare il proprio battito cardiaco. Il rancore e il disprezzo nei suoi confronti stavano consumando anche il suo, di corpo, e non era per niente buono.

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