PROLOGO
La prima avvisaglia fu il lento ondeggiare dell'acqua. Una pozza profonda e maleodorante occupava l'estremità più remota della grotta chiamata Vorace. Era lì che i gusci di ciò che non esisteva più andavano a finire, alimentando una presenza fredda e famelica. Diversamente dai cimiteri comuni, che brulicavano di vermi e insetti, quel posto non aveva mai originato forme di vita proprie, pretendendo di essere l'unico a trarre linfa dalla putrefazione.
Eppure, in quel momento, le acque che sgorgavano dai meandri della Vorace cominciarono a gorgogliare ribollendo. L'acqua scura del lago straripò dagli argini fino a che un corpo ne fu vomitato fuori. Si trattava di una carcassa dai vestiti logori, riversa nel liquido putrescente a faccia in giù, specchiata inconsapevolmente su un fondale colmo di tutti i corpi consumati ed epurati dall'esistenza.
Quel corpo, all'apparenza inerme, galleggiava spinto pian piano verso la sponda, in mezzo alle rocce. Quando le acque si riallinearono, la salma rimase in ammollo, immobile. Tutto rimase terribilmente statico finché, con una frustata portentosa, il braccio destro del demone si sollevò dall'acqua, ribattendovi alla ricerca disperata di un appiglio. Tirò su la testa per riprendere aria come da un'apnea durata ore; esalò annaspando, poi cominciò ad arrancare, tenendosi a galla tramite bracciate alla rinfusa e affondando di tanto in tanto. Era avvilito, disorientato, stravolto; ma poteva respirare, e questo era già un buon segno.
"Che diavolo è successo?"
Continuò a dibattersi alla cieca nell'acqua, finché raggiunse uno spuntone di pietra su cui fece presa aggrappandosi e traendosi in salvo. Il terrore che lo sferzava era un'emozione estremamente umana, eppure non sentiva freddo: la pelle di un demone resisteva alle temperature avverse, rigide o cocenti che fossero.
Trascorsero minuti in cui, lentamente, l'essere vomitato dal sottosuolo cominciò a prendere familiarità con se stesso. Percepì l'accelerato battito del proprio cuore, che presto sostituì il silenzio circostante per via dell'ansia che gli scorreva nelle vene. Tastò il fango sotto le dita, lasciando che il tatto lo studiasse e definisse.
Dalla superficie non filtrava che il riverbero di una luce fioca e cremisi. Al demone non serviva: il buio non gli stava negando la vista; i suoi occhi potevano trafiggerlo con facilità. Eppure quella luce lo incuriosiva. Con sforzo e determinazione fece del suo meglio per mettersi in piedi, usando le rocce come appoggio. Intraprese un passo dopo l'altro seguendo il naturale passaggio che le pareti imposero fino al raggiungimento del mondo esterno.
Quando fu uscito dalla grotta, vide la città che si stendeva davanti a lui, afflitta da un'aria calda e appiccicosa. Non era una città metropolitana, ma una grande città rurale disseminata di lampioni, con lanterne rosse appese su ognuno. Non c'erano strade pavimentate; lo sporco regnava sovrano.
Agglomerati di edifici spuntavano disposti qua e là in maniera grossolana, a forma di torre, per lo più storti, come fossero usciti da un quadro di Picasso. Tutte le case erano costruite in legno, con fili sottili di fumo scuro che uscivano dai camini deformati.
Il demone indugiò con lo sguardo sul cielo, offuscato da una coltre compatta di nuvole nere. Si stendevano ininterrottamente, senza lasciar passare nessuno squarcio di luce. Era impossibile stabilire se fosse giorno o notte, benché avesse scarsa importanza. A notarsi erano invece le sagome alate che solcavano l'aria, rumorosamente e a bassa quota: parevano draghi, le gigantesche creature sputafuoco che popolavano l'immaginario collettivo di numerose culture.
"Questo non lo vedi tutti i giorni."
Il demone cercò una parvenza di logica in quella visione, rimanendo però deluso. Valutò di star sognando, ma il pizzicotto che si diede alla coscia lo convinse in fretta del contrario. Le lanterne lo avevano attirato fuori dalla grotta, ma ora che era lì non aveva idea di cosa fare, o che direzione prendere. E, cosa ancor più grave, non aveva idea di chi o cosa fosse lui stesso. Provò a concentrarsi, ma i ricordi gli apparivano solo come una serie di frammenti, immagini e pensieri scollegati.
Si portò sotto uno dei lampioni per osservarsi meglio: una fine peluria blu con alternanza di bianco gli ricopriva le zone più sensibili del corpo, estendendosi fino ad un'ingombrante e sporgente coda da lupo.
"Okay, cervello, adesso stai esagerando."
Nel comprendere la propria fisionomia si sentì incerto, e dopo un momento di introspezione personale sollevò le mani per sfregarsi gli occhi: erano arrossati, come se avesse pianto. Pasticciò con la bocca a causa di un sapore acidulo, estraneo all'area circostante fino a qualche secondo prima. Si trattava di un odore crescente, insistente, come di iris e gardenie, ma di fiori ormai quasi putrefatti; riusciva ad attrarre e nauseare al contempo.
Sin da subito il demone aveva visto che le strade sporche rendevano poco consigliabile camminare a piedi. Viaggiare a cavallo sembrava essere la soluzione migliore, ed effettivamente qualcuno ci aveva pensato: una carrozza chiusa passò scricchiolando e cigolando, lo scalpiccio degli zoccoli sul fango. Era da quella che proveniva l'odore.
Il demone la inseguì e gesticolò, cercando di farsi notare. Era veloce a correre, più di quanto si credesse capace, ma i cavalli continuarono a trottare indisturbati.
«Ehi, aspettate!» prese a gridare. «Fermatevi!!»
Il finestrino della carrozza si abbassò per rivelare una figura femminile dagli abiti pregiati, metà del volto celata da un ventaglio. Scrutò il demone in corsa con interesse, perciò batté un colpo sul telone che la separava dal cocchiere. Questi tirò le redini, e la carrozza si fermò.
La donna attese che il demone la raggiungesse e recuperasse il fiato consumato, poi domandò «di cosa hai bisogno, bei capelli?» La sua voce era sensuale, ammaliante.
Il demone aveva recuperato la facoltà di parola, ma ancora faticava a elaborare frasi di senso compiuto. «Mi serve una--» Quando gli occhi della sua interlocutrice intercettarono finalmente i suoi, la voce gli si affievolì, sbalordito. Ma recuperò presto la sua forza, lanciando uno strillo. «Ca-capra?! Sei una capra!!»
Questa, di fatto, aveva una grossa testa da capra attaccata ad un improbabile corpo di donna dal bacino fallico. Il viso era incipriato, le labbra tinte di rosso scuro. Il suo vestito era scollato e sulla lana risaltava un rubino incorniciato nell'oro. L'abito completava il gioiello, le lacrime d'ambra che scivolavano sul suo petto in fiocchi gialli si scurivano diventando rosse in prossimità dei polsini e dell'orlo.
«Solo una capra?» fece lei, passandosi una mano tra le corna, pavoneggiante. «Non sono la capra più incantevole che tu abbia mai visto?»
Il demone si morse la lingua; non conosceva nessun'altra capra parlante con cui metterla a paragone. «Dove mi trovo? Che posto è questo? Cosa-- chi sei tu?» Gli sembrarono le domande più logiche da porre.
«Sono Madame Varlazla De la Lussuria, e questa dove sei è Mesto Sobborgo. Ma, senza dubbio, di me avrai sentito parlare.»
«Ehm, no.»
«No?! Per Satana, dove hai alloggiato finora? Ad Havocoria, per caso?»
«Scusi, dove?!»
Lei si accostò di più. «Hai un Contratto da esibire, bei capelli?» domandò senza celare il tono sospettoso.
"Un che?"
Il demone non rispose subito; sembrava gli mancassero le parole. Tornare a rivolgersi a Madame Varlazla risultò difficile quanto distogliere lo sguardo da lei. «No, non... non ho nessun contratto» mormorò con voce tremante.
«Allora mi sa che sei nuovo fra i Trapassati. Escludo che tu sia un nativo, vestiresti diversamente; o non ti vestiresti affatto. Stai sperimentando smarrimento, carenza di memoria?»
Per un attimo il demone si sentì sollevato. «Sì... sì, esatto!»
"Cos'è un Trapassato?"
Varlazla parve scocciata. «Come se non ne avessimo abbastanza a scorrazzare per la superficie...» borbottò.
Il demone la guardò incredulo, leggermente titubante sul termine da usare. «Signora?»
«Oh, scusa, sto blaterando; pessima abitudine.»
«Quindi lei può aiutarmi?»
Lei sbatté le palpebre. «Cosa?»
«Può aiutarmi ad andarmene da qui?» le domandò più forte il demone, stringendo le mani a pugno e sperando che non se ne accorgesse.
"Ti prego, di' di sì."
Lei serrò la bocca in una linea sottile. Lo studiò ancora per infiniti secondi, in una pausa di tensione. «Certo che ti aiuterò. Ma dovrai seguirmi a piedi; macchieresti il mio sedile» detto questo, batté di nuovo sul telone. «Alla Fossa del Peccato, Brando!»
Il demone non aveva fatto caso al cocchiere, prima di quel momento: era un piccolo umanoide, sui novanta centimetri, con le sembianze di un diavoletto cornuto dalla pelle grigio-verde. La sua colonna vertebrale somigliava alla spina dorsale di uno Stegosauro, e si prolungava in una lunga coda irta di aculei ossei. Aveva per vestito una camicia lacera e un paio di calzoni di tela neri; nessuna calzatura copriva i piedi con tre dita artigliate.
Anche i cavalli erano strani a vedersi, per non dire terrificanti: a parte la criniera e la lurida coda, erano del tutto privi di pelo. Squarci irregolari solcavano la pelle a brandelli, rivelando le ossa e i muscoli in decomposizione. Dalle ferite, dalle narici, tra i denti rotti e dalle crepe negli zoccoli, la nebbia rossa filtrava all'esterno in un flusso costante, spandendosi nella zona.
Le briglie schioccarono e gli animali partirono al galoppo. Nel fango, le ruote della carrozza impressero solchi profondi. Il demone faticava non poco a starle dietro, ma per sua fortuna il tragitto ebbe breve durata: si stavano avvicinando ad una buca scavata al centro della città, quella che Varlazla aveva chiamato Fossa del Peccato.
Il diametro della voragine era di circa trenta metri, la profondità indefinibile. Sul bordo superiore, per impedire la fuga, erano fissate sinistre spine di metallo piegate all'ingiù, sebbene il demone non riuscisse a immaginare cosa potesse arrampicarsi su quelle pareti verticali senza giunture.
C'erano una dozzina di creature a sorvegliare la Fossa, disposte tutt'intorno come cani da guardia. E in effetti non sarebbe stato inappropriato definirli tali: erano di grossa statura, senza indumenti addosso, cosparsi per intero di una peluria nivea naturale. Si reggevano su due zampe e fiutavano i visitatori col naso nero che vibrava sul grosso muso oblungo, contraddistinto da una famelica dentatura canina. Due corna ritorte crescevano loro sulla fronte.
Il cocchiere fermò la carrozza e, senza aspettare istruzioni, balzò a terra e corse ad aprire la porta per Madame Varlazla. Lei attraversò la strada, sollevando i lembi della gonna per evitare il fango.
Il demone restò indietro di qualche passo, col seme del dubbio che germogliava lentamente. Chiese alla donna-capra che ci facessero lì, ma ovviamente lei non rispose; non si voltò nemmeno. E quando le creature confluirono verso la carrozza disponendosi in semicerchio, capì che era troppo tardi per i ripensamenti.
«Niente visite alla Fossa per le prossime sei ore!» sbraitò una di loro, la voce rauca e profonda.
«Non sono qui per questo, Segugio» disse Varlazla, altezzosa, quindi indicò il demone con la mano. «Sono qui per lui; un fuggiasco della Fossa, fresco fresco di trapasso.»
Al demone non piacque quello che sentì. Avrebbe protestato, ma temendo di peggiorare la situazione se ne stette zitto per un altro po'. L'ipotesi di finire nella voragine gli metteva addosso una gran paura; anzi, per la precisione, una fifa nera.
«Come ci è finito in superficie?»
«Dovresti dirlo tu a me.»
Tre dei Segugi fissarono il presunto fuggiasco in un attimo di interminabile silenzio. «Grum è sempre vigile» disse uno, riferendosi a se stesso. «Grum ricorda tutto. Grum non l'ha mai visto.»
«Ti permetti di dubitare di me? Se dico che vi è sfuggito, allora è così.»
Il Segugio di nome Grum ringhiò. Forse era un verso di assenso, ma non pareva allettato da ciò che avrebbe dovuto fare. «Madame non desidera acquistare il Trapassato?»
«Che i Carcerieri lo ripuliscano prima, per Satana! Non porterò un tale sudiciume in casa mia.»
«Cosa... cosa vuol dire?» chiese allora il demone, spaesato. Iniziò a dimenarsi quando le mani artigliate di due Segugi lo afferrarono per condurlo verso la Fossa. «Che cosa fanno??»
Gli occhi di Varlazla non recavano traccia di empatia. «Ti gettano dentro, mi sembra ovvio» replicò.
Il demone provò un moto di rabbia; Varlazla gli aveva evidentemente mentito. Ciò che aveva ottenuto seguendola stava per rivelarsi tutt'altro che una via di fuga da Mesto Sobborgo. «Dicevi che mi avresti aiutato!»
«Ma io ti sto aiutando, bei capelli. Rispedendoti nel posto a cui appartieni.»
L'ansia esplose nel suo stomaco. I Segugi avevano una forza incredibile; continuarono a trascinarlo sempre più vicino alla voragine, finché ne toccò l'orlo con le ginocchia.
«Io non ho fatto niente!» gridò, ormai terrorizzato. «Non ho fatto niente!!»
Attorno a Varlazla giunse una manifestazione incorporea di potere, una sottile nebbia rossastra che turbinava lenta come un respiro. Serpeggiò nell'aria, assumendo la forma e la consistenza di un bavaglio che si attorcigliò al volto del demone.
«Sempre la stessa lagna, per questo non sopporto i Trapassati» borbottò la capra alzando gli occhi alle nuvole. Prese uno specchio grande quanto un vassoio dalla carrozza e lo passò al diavoletto affinché lo tenesse sollevato per lei.
«Vi date una mossa, Segugi?» aggiunse mentre rimirava la propria immagine, la questione assunta come risolta. «Ho un appuntamento con il Duca De l'Invidia e non posso mancare.»
Il demone si sporse con la testa, e quando vide l'abisso che lo attendeva, qualcosa rispose al suo impulso istintivo di dibattersi per liberarsi; qualcosa che risiedeva nella sua stessa essenza. Se la volontà avesse potuto assumere una forma, avrebbe avuto il colore azzurro delle fiamme che sprigionò in quell'istante. Esse ammantarono il corpo del demone in un'onda d'urto e scaraventarono via i Segugi che lo trattenevano. Varlazla, rimasta coinvolta, fu gettata a faccia in giù nel fango.
Le creature guairono e arretrarono, ma il demone non se ne curò; non si curò di niente se non di strapparsi il bavaglio e correre. Voleva allontanarsi dalla Fossa e dai suoi orrori. Non sapeva dove portasse quella strada ma non aveva importanza, così correva.
Andò avanti per un tempo che non seppe definire, e senza accorgersene si ritrovò al punto di partenza. Si fiondò nelle profondità della Vorace fino a cadere in ginocchio sul bordo del lago, oltre il quale fu smosso da un portentoso conato di vomito, quindi svuotò il proprio stomaco nell'acqua fetida. Borbottando imprecazioni mentre faticava a mantenere il controllo sul suo sangue ribollente per la rabbia e lo sgomento, lasciò che il suo corpo scivolasse a terra.
Non si sentiva se stesso. Una parte di lui iniziava a temere che quel se stesso non esistesse più. C'era tanto dolore in quei pochi frammenti che ancora lo ancoravano al passato che non era sicuro di voler ricordare. I suoi occhi avevano cominciato a chiudersi, ma li riaprì di scatto, sforzandosi di fare mente locale.
Il suo sguardo acquistò una nuova dimensione mentre fissava le acque del lago; la tensione si allentò. Rilassando la mente e il corpo, i ricordi iniziarono a farsi più chiari. Rumori e immagini stavano pian piano acquisendo un senso: ricordò una figura grigia; ricordò il suono secco di uno sparo di fucile; ricordò una ragazza dai capelli neri come piume di corvo; e, per ultimo, ricordò il proprio nome: Ōkami Drake.
Era giunto il momento di rimettere insieme i pezzi. Il demone chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo.
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