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Lancette

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Lancette

"La mia coperta se ne va... Vola via sopra gli alberi, le colline, le montagne, l'oceano... non la vedrò mai più... mai più... mai più... mai più. Potrei anche arrendermi... non posso vivere senza quella coperta... non posso affrontare la vita disarmato! "

(Peanuts – Charles M. Schulz)

–Non credere che siccome i nostri vecchi sganciano bei verdoni per farci stare qui allora verranno a ripararci il pavimento se ci farai un buco.

I miei occhi corrono verso Roxy e la sua solita faccia a metà tra l'annoiato e l'apatico. Ha messo da parte il suo fumetto e le cuffie e, con le braccia incrociate sul petto, mi fissa come se non potesse farne a meno.

–Ho la borsa di studio. – è l'unica cosa che riesco a dire.

–Non c'entra. Nessuna borsa di studio coprirà le spese per eventuali danni all'infrastruttura di questo posto.

–Ma io non voglio pagare nessun danno, anzi. – non capisco perché mi stia facendo questo discorso.

–E allora mettiti seduta e dimmi che succede. Non so se te ne sei accorta, ma sono esattamente trentacinque minuti che fai su e giù per la stanza.

Oh.

Sospiro e faccio ciò che mi dice.

–Scusami, è che... siamo ormai da un mese qui e le spese pian piano iniziano ad aumentare e mia mamma e il suo compagno... sì, insomma, non voglio che loro continuino a mandarmi troppi soldi, e allora io...

Un mese. È già un mese che sia una studentessa di Princeton. Che condivida la stanza con una ragazza che non sia Pam o Chas. Che non veda la mamma, la nonna, Bob, Wolverine. Un mese di lezioni universitarie. Un mese in cui non abbia ancora fatto amicizia o in cui sia riuscita a sedermi accanto a qualcuno.

È già un mese, o solo un mese?

Se mi volto indietro sembra che sia passato tutto così in fretta. Io che soffio su diciotto candeline, la cerimonia dei diplomi, di nuovo io che stringo con le dita tremolanti la pergamena mentre la nonna mi scatta una fotografia, esortandomi a fare uno dei miei sorrisi a trentadue denti, il ballo di fine anno. L'estate, la vacanza al lago, Holden che mi insegna a nuotare, la notte in cui abbiamo dormito insieme, io che faccio le valigie, i saluti alla stazione, il primo giorno di lezioni.

Ma se mantengo lo sguardo fisso davanti a me, ho l'impressione che sia entrata dentro quel vortice distorto, di echi, ombre e insicurezze, che avevo percepito il primo giorno. Che ci sia stata risucchiata e che non ci sia mai più uscita. Tutto scorre al passo di una lumaca, vecchia e stanca. È una lentezza che sento dentro. Fuori, all'esterno, tutto sfreccia: le persone, il vento che smuove le foglie sugli alberi che pian piano stanno perdendo la loro brillantezza, le pagine dei libri, i passi frettolosi dei professori e delle professoresse, i baci nascosti delle matricole, le canzoni alla radio. Sono io che sto rallentando. Rallento come un orologio che si illude di essere al passo con gli altri perché continua a far girare le sue lancette. In realtà sta solo arrancando. Tic. Pausa. Toc. Pausa.

–Vorresti un lavoro? – mi distrae dai miei pensieri.

Annuisco. – Ho già lasciato il mio curriculum a tre pub, due caffetterie, un negozio di elettrodomestici e alla ludoteca, – elenco con le dita. – ma... mi hanno rifilato il classico "ti faremo sapere" e sappiamo entrambe cosa significhi. – infilo le dita tra i capelli.

– Hai provato a vedere nelle aulette dei rappresentanti?

– Cosa? – mi volto nella sua direzione, corrucciando la fronte.

Roxy alza per un momento gli occhi al cielo in un chiaro segno da "ci vuole molta pazienza con questa qui!".

– Nella auletta ci sono delle bacheche su cui è possibile fissare ogni tipo di annuncio, compresi quelli di lavoro. – spiega lentamente. – Susan, quella tizia che ogni tanto viene in camera nostra, ha trovato lavoro in un negozio di antiquariato a due isolati da qui.

– Davvero? – allargo gli occhi, mettendomi in piedi.

– Davvero. – abbozza un sorrisino, come se adesso la divertissi.

– Ottimo! – mi esalto. – Allora vado subito!

–Vai, vai!

Prendo al volo giubbotto e zaino e mi dirigo verso la porta.

–Kathleen. – mi ferma.

–Sì? – mi volto nella sua direzione.

–Sai cosa ti ci vuole? Una bella festa universitaria! – risponde.

Cosa? – aggrotto le sopracciglia.

E adesso di cosa sta parlando?

–Ti ci vorrebbe una bella festa universitaria. – ripete.

–Perché mi ci vorrebbe una festa universitaria?

Si ammutolisce, prendendo a mangiucchiarsi l'unghia del pollice. Ha la mano completamente nascosta dalla manica della felpa nera.

–Allora? – la fisso negli occhi. Una spessa linea di eyeliner dà loro una forma più allungata.

Arriccia le labbra, prendendosi altro tempo. – Posso essere schietta?

Annuisco, un po' timorosa.

–Kathleen, sei decisamente la migliore compagna di stanza che potesse capitarmi. Sei silenziosa, non disturbi, non porti mai il tuo ragazzo in camera, vai a dormire presto e non sporchi. Hai anche un buon profumo.

Mantengo un'aria perplessa. – Okay... – titubo. – Di solito non si è schietti per le cose negative?

–Non ho finito.

Ecco.

–Allora vai avanti. – la esorto con un gesto delle mani.

–Bene. – si schiarisce la voce. – Malgrado tutto ciò, tu sei... sei... – si interrompe di nuovo.

–Sono? – le lancio un'occhiata interrogativa.

– Okay, – fa un bel respiro. Poi annuisce tra sé e sé, dandomi l'impressione che stia cercando una sorta di coraggio per parlarmi. – Ti dico solo che quando ti guardo rivedo la scena in cui Atreyu perde Artax nelle Paludi della Tristezza. – dice velocemente, come se avesse tenuto per sé queste parole per troppo tempo.

È il mio momento di rimanere in silenzio per rimuginare sulle sue parole.

–Mi stai davvero paragonando alla scena più triste che sia mai stata scritta in un libro per bambini? – le mie sopracciglia scattano verso l'alto.

Lei, Winona, che potrebbe far parte di un film di Tim Burton, spenta e grigia com'è, che mi dice che le faccia tristezza. Molto a cui pensare.

–Può darsi... – abbassa gli occhi.

–Ma sentila! – mi accendo. – Ha parlato Miss "Viva la vida!" – stringo gli occhi.

D'improvviso Roxanne mi sembra un ottimo diversivo per velocizzare le mie lancette.

–Oh. – dice soltanto, quasi colta alla sprovvista.

Pensava di essere una coinquilina allegra e festaiola?

Abbasso lo sguardo, intuendo che anche lei stia facendo lo stesso.

–Ce li hai anche tu gli artigli, quindi. – torna a parlare.

–Cosa intendi? – riprendo a guardarla.

–Che pensavo fossi una gatta morta. – dice con nonchalance. Sembra non avere più insicurezze.

–Gatta morta? – il discorso sta prendendo una piega inaspettata. – Il fatto che sia una persona silenziosa e tranquilla, come mi hai espressamente chiesto tu, – le punto l'indice contro. – ti spinge ad etichettarmi in un modo così poco carino?

– Già! – fa una risatina inaspettata, quasi isterica. – Persino per una persona come me risulti troppo... troppo... fiacca, troppo smorzata.

Porca vacca, fa sul serio?

–Io sarei fiacca?

Sì, lo sono! Ma non ha il diritto di farmelo presente.

–Già! – asserisce.

Mi gratto la fronte, confusa. Poi ci guardiamo negli occhi e, non so neanch'io perché, scoppiamo a ridere. Anzi, io so la motivazione del mio attacco di ilarità. Rido perché la situazione è surreale; lei perché... non lo so.

–Kathleen. – si fa seria.

–Sì? – la imito.

–Vedo un sacco di oche giulive fare avanti e indietro in questo patetico corridoio di questo patetico college. Ma... nessuna viene mai per te. Non sono mai stata brava a capire le persone, ma quando guardo quella fotografia che hai sulla scrivania, quella in cui stringi il tuo gatto obeso al petto, vedo nei tuoi occhi una luce che non hai quando ti guardo. È una mia impressione?

Abbasso lo sguardo. Colpita e affondata. Non solo mi sta dando modo di scoprire lati di sé che non avrei immaginato possedesse, e di notare che mi guardi più di quanto io faccia con lei, ma mi ha anche fatto una "diagnosi" più che corretta.

–A volte mi è capitato di ascoltare parte delle conversazioni tra te e le tue amiche...

Rialzo lo sguardo. – Origli le mie chiamate?

Solleva i palmi delle mani. – Per carità! Mi è solo capitato. Condividiamo la stessa camera, no? – fa spallucce.

Rimango in silenzio, attendendo che continui.

–Beh... mi è parso di capire che loro si siano adattate in fretta alla loro nuova vita e che abbiano partecipato già ad alcune feste, no? – parla lentamente, come se le fosse tornata la paura di farmi arrabbiare.

Vorrei negare e dire che in realtà entrambe stanno vivendo una situazione identica alla mia. Che riescano a parlare solo tra loro. Che a lezione si siedano anche loro il più lontano possibile dagli altri. Che anche loro abbiano perso la capacità di socializzare. Che anche le loro lancette stiano rallentando.

Ma mentirei se lo facessi.

Sembra proprio che Pam e Chas si stiano godendo la vita universitaria sin dal primo giorno. Feste, pettegolezzi, una nuova comitiva di ragazze. Si sono adattate alla velocità della luce. Di notte dormono vicine. Di giorno si danno due baci sulle guance e volano verso le loro facoltà. Poi si ritrovano, tornano a baciarsi sulle guance, si catapultano a mensa dove si siedono con quattro ragazze che hanno già conquistato la loro simpatia, e in seguito partecipano alle attività delle loro confraternite, organizzando poi delle serate tutte insieme.

Quando le ascolto, vorrei anch'io parlare loro di feste, pettegolezzi, club sportivi e confraternite, ma non avendo fatto nemmeno un passo avanti in queste settimane, finisco sempre per dilungarmi nelle descrizioni del professor Morley, eccedendo così tanto nell'elencare le sue virtù da catalizzare tutta la loro attenzione su di lui. Ho paura che in qualche modo possa deluderle con il mio patetismo. Che la mia ruggine possa preoccuparle. O peggio, che possa contagiarle.

–Può essere. – faccio la vaga. Non ho dare nessuna spiegazione a Roxanne.

–Beh... penso che anche tu abbia bisogno di trovare qualche oca giuliva tutta tua. – abbassa la voce.

– Perché ti interessa tanto? Mi era parso di capire tu fossi quella da: "Lasciatemi sola. Amo la mia solitudine!". – scimmiotto la sua voce.

–Ehi, non ho mai usato parole del genere. – fa un broncio. Poi fa un sospiro. Di quelli grossi. – Il fatto è che nelle persone taciturne come me, il senso della vista si... – fa vagare il suo sguardo, come se le parole giuste si trovassero sul soffitto. – amplifica. Ti ho osservato in queste settimane, Kathleen e... mi hai ricordato la Roxy delle scuole medie. Quella che se ne stava fin troppo per le sue, al punto da finire per avere crisi di ansia e di panico e... – abbassa lo sguardo, bloccandosi di colpo.

Si sta sbottonando con me. Devo averla davvero preoccupata.

–Sei strana, Roxanne. – non riesco ad arrivare a un'altra conclusione.

–Lo so. Me lo hanno detto in tanti.

Rimango in silenzio.

–Quindi... cosa vuoi da me? – continuo, dopo un po'. – Che ti parli? Che mi sfoghi? Che... – mi fermo.

–Semplicemente che tu non ti isoli.

–Non lo faccio. – ribatto.

–No? – solleva un sopracciglio.

–No. Ho anche un fidanzato, lo sai.

–A quanto pare ciò non ti impedisce di non sentirti... spenta.

Non rispondo.

–Non mi piace fare questi discorsi, dico sul serio. Però... secondo me la tua vita ha bisogno di una bella scossa.

Mi mordo l'interno di una guancia, continuando a non sapere cosa dirle.

–Lo sai che Vera Butler e William Satie della facoltà di biologia hanno avuto una litigata plateale, questo giovedì? – continua. – Che per poco lei non gli ha rotto un piatto in testa a mensa?

–Il giovedì mangio in aula. Non vado in mensa. – le faccio presente.

– E che Sandra Baker ha tentato di strappare l'hijab di Fidan, la ragazza islamica di filosofia delle religioni orientali? O che Kirsten, della mia facoltà, è stata beccata in atti osceni con quel viscido di Patrick del club di Lacrosse?

Allargo gli occhi, scoop dopo scoop, dinegando con la testa.

Lei fa un sorrisino soddisfatto. – Bingo! Ti sei chiusa nella tua bolla.

–Fammi capire, ti piace farti gli affari tuoi, ma il discorso non vale per quelli degli altri? – sento le mie sopracciglia farsi sempre più vicine.

–Non proprio. Sono i pettegolezzi a venire da me, non sono io a cercarli. – si difende.

Scuoto la testa.

–Senti, – riprende. – facciamo che d'ora in poi tu hai una sorta di "pass" – mima le virgolette. – con il quale puoi parlarmi quando ti pare, di ciò che ti pare. Ovviamente quando lo farai, ti aggiornerò anch'io su tutto ciò che c'è da sapere. E... quando ne avrò il bisogno, ti parlerò anch'io, se me lo permetterai. Okay?

–Vuoi essere la mia "oca giuliva"? – è il mio momento di mimare le virgolette, canzonandola.

–Non sono la persona adatta. I nostri caratteri non ci permettono di essere le reciproche oche giulive. Tuttavia, per te potrei mettere da parte le cuffie, ogni tanto.

–Che dichiarazione! – fischio.

Le strappo una risata.

–Lo fai perché ti faccio pietà? – chiedo.

–No. Semplicemente non mi piace ritrovare la me di qualche anno fa nelle altre persone. – si strappa un'altra pellicina. – E poi perché credo di non averti fatto una buona impressione... – abbassa lo sguardo.

–Ti senti in colpa, quindi?

Sbuffa. – Credo che a modo mio ti abbia messo anch'io nella condizione di isolarti, okay?

Sento le mie labbra piegarsi in un sorriso.

–Dì la verità: lo fai solo perché hai visto che mi è arrivato un pacco di magnifici prodotti di bellezza tailandesi e vuoi approfittarne?

– Visto? Due chiacchiere e stai già uscendo dalla Palude della Tristezza, Kathleen. E comunque, sì, anche per i prodotti tailandesi. Ho già notato una crema per il contorno occhi che potrebbe fare al caso mio.

–Puoi sognarti che te la presti.

Ci sorridiamo a vicenda, facendo poi silenzio.

–Se ne avrò il bisogno, ti parlerò. E potrai fare lo stesso, ovviamente. – rispondo dopo un po'.

Annuisce.

–E comunque, non amo andare alle feste. Covi di depravati nullafacenti. – scocca la lingua contro il palato.

–E allora perché vuoi andarci? – inarco un sopracciglio.

Nascondo una mano dietro la schiena e mi pizzico il polso. Voglio accertarmi che non stia sognando. Quando mi accerto che sia tutto reale, torno a concentrarmi su di lei.

–Perché mi piace che ogni tanto mi scorra l'alcool nelle vene, e perché mi piace fumare. Fumare, fumare e fumare. – giurerei di vedere delle fiammelle accedersi nei suoi occhi. – Ho sentito che questo fine settimana si terrà una festa in un dormitorio fuori l'ateneo. Ti andrebbe di venire con me? Puoi portare il tuo cervellone che studia a matematica, se ti va.

Abbasso lo sguardo, prendendo a fissare la punta già sporca delle mie Converse.

–Mi va. – torno a guardarla nei suoi occhi verdognoli.

Non è vero. Non mi va. Ci si abitua a certi ritmi, ecco tutto. Ci si abitua a diventare delle ombre. Ma... ripenso alla mamma, a Bob, alla nonna, alle mie amiche. Ho promesso a tutti che avrei spaccato e che mi sarei divertita. L'ho promesso anche a Holden, quando gli ho detto che mi sarei trovata delle attività extra e che l'avrei finita con le paranoie.

Non le ho mantenute. Non le sto mantenendo.

Una vocetta dentro di me, soave e ingannevole, mi dice che è passato ancora troppo poco. Che sono solo agli inizi e che ho tutto il tempo per mantenere le mie promesse. Che semplicemente non è questo il momento giusto.

Ma un'altra, più sporca e rude, si contrappone dicendomi che sono solo scuse.

Ho lasciato che le mie paure, quelle che ho iniziato a sentire sotto la pelle dal primo giorno, diventassero realtà, si concretizzassero. Ho iniziato con: "È meglio se oggi non faccia nulla, se mi nasconda" quando potevo sedermi accanto a qualcuno il primo giorno di lezioni, illudendomi che fosse una cosa temporanea. Ma poi ho lasciato che questo atteggiamento mi investisse anche il secondo giorno, il terzo, il quarto... e così via.

Sono diventata prigioniera delle mie paure.

Prigioniera. Prigioniera. Prigioniera.

–Magnifico. – fa un sorrisetto, poi si infila gli auricolari in un chiaro segno di: "ho parlato abbastanza! Ora sciò!"

–Aspetta! – la blocco, prima che possa far partire la musica.

–Sì? – solleva le sopracciglia.

–Posso essere schietta? – è il mio turno.

–Se proprio devi.

–Di notte russi. – le faccio un occhiolino.

Poi mi dileguo, prima che mi scagli contro qualche maledizione. Qualcosa mi dice nasconda un libro pieno di magia nera sotto il letto.

Una volta fuori, un sorrisetto torna a piegare le mie labbra. Roxanne è davvero la persona più strana che abbia mai conosciuto, ma potrebbe essere migliore di quel che mi abbia dato a vedere.

Secondi dopo mi ritrovo nell'atrio principale, da cui poi raggiungo l'auletta arancione di cui ci aveva parlato Montgomery Brown. Vicino all'entrata ci sono diversi ragazzi, troppo distratti per scoccarmi anche una sola occhiata.

Quando ci entro dentro, noto dei divanetti, degli scatoloni sistemati a mo' di tavolino, un paio di piante, una stampante e una macchinetta delle bevande. Malgrado su una parete ci sia affisso il cartello "Vietato Fumare", l'aria è così pregna di fumo che mi scappano due colpi di tosse. Noto come qui le pareti siano più sporche di quelle delle aule dove si tengono le lezioni. Ci sono, infatti, scarabocchi di ogni tipo, comprese parolacce, imprecazioni e numeri di cellulare accompagnati da allusioni poco fraintendibili. È chiaro che questi spazi siano ad uso personale dei soli studenti. Ed è chiaro che questa sia l'altra faccia della medaglia di Princeton. Può essere rinomata quanto vuole, ma è pur sempre un college pieno zeppo di ragazzi con mille grilli per la testa. Soprattutto di quelli che davanti alle famiglie sono Dottor Jeckyll, ma che una volta qui dentro, una volta lontani dagli occhi dei professori, sono Mr. Hyde.

Roxanne ha ragione. Quando si diventa amici del silenzio, il senso della vista si amplifica. Certo, non sono esperta di gossip come ha dimostrato di esserlo lei, ma se c'è una cosa positiva del mio essermi ritrovata più impacciata dell'immaginato nel fare nuove conoscenze e dell'essermi così trovata più sola e più chiusa, è proprio questa mia improvvisa capacità di guardare la folla. Di osservarla, di scrutarla, di leggerla, come direbbe mia nonna. Una capacità, un talento quasi, che riuscivo a mettere in atto, in modo anche mediocre, solo con alcune persone.

Becco subito la bacheca degli annunci. È piena di fogli e post–it; piccoli, grandi, bianchi e colorati. Deglutisco a vuoto, sentendomi d'improvviso confusa. Con gli occhi vado alla ricerca delle parole "lavoro" e "paga". Li strabuzzo quando leggo di un'offerta per un guardiacaccia e di una per uno "staccatore di gomme da masticare" che mi strappa un sorriso.

Smetto di far vagare lo sguardo solo quando sento una presenza al mio fianco. Mi volto alla mia destra.

–Foster.

–Andrew Slater.

Parliamo nello stesso momento.

Mi sorprende che si ricordi il mio nome, non avendo avuto più occasione di parlare con lui dal primo giorno di lezioni, quando gli restituii il suo disegno. Poi però realizzo che anch'io abbia ricordato il suo nome con facilità. Nulla di strano, penso. Ad oggi Andrew rimane la persona con cui abbia chiacchierato di più del mio corso. Sempre che possa definirsi "chiacchierare" il nostro ultimo scambio di parole. Ad ogni lezione del professor Morley, ci sediamo sempre alle stesse estremità della stessa panca. Ci scambiamo un'occhiata prima di seguire le lezioni, rimaniamo in silenzio per tutto il tempo e poi ognuno va per la sua strada. Non ha più lasciato suoi disegni qua e là.

–Basta Andy. – fa un sorrisetto. – Hai finito con la bacheca?

Tra le mani ha un foglio.

–In realtà sono venuta qui da poco. – faccio presente.

–Sei qui per mettere in vendita qualcosa?

–No, in realtà starei cercando un lavoretto. – confesso.

–Stai cercando un lavoro? – il suo sguardo si accende.

–Già. – confermo. – Anche tu?

–No. In realtà sono qui per proporne uno. Potrebbe interessarti? – mi porge il foglio.

Lo prendo. È scritto a mano, con una calligrafia così curata da sembrare stampata. Dei piccoli disegni a matita incorniciano il testo.

–Un lavoro da dogsitter in un canile? – rialzo lo sguardo.

–Già. L'associazione per cui lavoro ha bisogno di un paio di mani in più. Ogni giorno arrivano sempre nuovi cani e abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti con la loro assistenza. Gli orari sono anche piuttosto flessibili, essendo io stesso uno studente. Sei pratica con gli animali?

–A casa ho un gatto, ma... credo la loro assistenza sia diversa da quella di cui necessitano dei cani.

Fa spallucce. – E chi lo dice?

Schiudo le labbra. Mi trova impreparata.

–Cibo, acqua, e tanto amore sono gli unici ingredienti che valgono per ogni animale. – mi toglie dall'imbarazzo. – Per il resto, ti potrei... insegnare io qualcosa, se sei interessata. In canile abbiamo una veterinaria, un addestratore e due volontari che ti potrebbero spiegare tutto ciò che occorre. L'unica pecca... – esita. – è la paga. Non è molto alta. – mi guarda, in attesa.

Rimango a pensarci per qualche istante, leggendo l'annuncio per altre due volte. Si richiede una persona che si occupi di alcuni cani randagi, portandoli a spasso, dando loro cibo e che si occupi di mansioni di vario tipo. Lo stipendio non è alto, ma rientra nella quota minima che avevo previsto di voler ricevere.

–Se vuoi, nel pomeriggio ci andiamo insieme. – riprende. – Così dai un'occhiata a tutto e mi dici se per te va bene.

Torno a guardarlo.

–Andare insieme al rifugio? – domando.

–Certo. Dove altro se no? – si mette a ridere.

Ridacchio anch'io, più per la mia stupidità, che per altro. Andare insieme al canile? Dove altro vuoi andare, Kathleen? Bella figura, brava!

Volevo un'altra dimostrazione del mio essere regredita a livello relazionale? Bene, eccola! Il mio limitarmi ad osservare e a non fare più nulla, mi ha portato ad essere più imbarazzante di quanto potessi essere prima.

–Credo... vada bene. – rispondo.

–Sì? – allarga gli occhi, quasi sorpreso.

–Sì... cioè, mi andrebbe di venire al rifugio. Per il lavoro, posso darti una risposta dopo che mi sia fatta un'idea di ciò che debba fare?

–Certo, ci mancherebbe! Ci vediamo di fronte al dormitorio di farmacia, quello vicino all'entrata principale, dopo le lezioni del pomeriggio?

–Va bene. – accetto.

–Okay. Allora ti scrivo il mio numero, nel caso in cui dovessero esserci contrattempi. Si vede che sono poco pratico di annunci perché ho notato solo poco fa di non averlo inserito.

Si sfila da dietro l'orecchio una matita di cui non mi ero nemmeno accorta e scrive un numero di cellulare sull'angolo in alto del foglio che stringo ancora tra le mie mani. Una scrittura piccola; numeri che pendono verso destra. Nel farlo si avvicina parecchio, permettendomi di vedere da vicino i suoi capelli, più scuri sotto la luce naturale che filtra da una finestra, un piccolo neo all'altezza dello zigomo sinistro e parte del suo naso. Ce l'ha piuttosto dritto, quasi greco.

Non che ci voglia molto, ma è più alto di me, seppur lo sia meno di Holden.

–Grazie. A dopo. – solleva la mano e si allontana.

Ho a malapena il tempo di dire "grazie a te" che si è già dileguato.

***

– Ho delle notizie bellissime. – è il saluto di Holden.

Mi raggiunge a passo veloce, intrecciando le nostre mani e scoccandomi un bacio veloce sulle labbra.

– Quali? – mi esalto.

– Ho trovato lavoro. – trilla. – Anzi, ne ho trovati due. – sorride.

Gli brillano gli occhi.

– Oddio! – rispondo entusiasta, iniziando a saltellare sul posto. Deve essere un buon segno che lui abbia trovato lavoro proprio quando io ho ricevuto un'offerta.

Si mette a ridere. – Mi hanno aiutato Violet e PJ.

– Violet? – sollevo un sopracciglio.

– Sì, Violet! Te ne ho parlato sicuramente. È una delle due ragazze con cui ho fatto il laboratorio di analisi, che sta in gruppo con me, Will, Colin e Patty Lou. I ragazzi di cui ti parlo spesso. – sottolinea.

Holden ha trovato degli amici. Degli amici che ogni mattina lo aspettano per entrare insieme in aula; con cui seguire la maggior parte dei corsi; con cui scambiarsi gli appunti; con cui andare a studiare in biblioteca; che lo aiutano persino a trovare un lavoro. È passato un mese e Holden, in modo spontaneo e veloce, si è fatto nuovi amici già pronti ad aiutarlo, a dargli una mano, ad apprezzare la sua presenza. Mentre io sono quella che ha solo una persona, cioè lui, con cui condividere dal vivo tutto ciò che mi succede. Io sono quella anonima, che si mischia tra la folla senza avere più alcun punto di riferimento. Al liceo, per quanto non fossi tra le ragazze più popolari, conoscevo parte delle cheerleaders, le ragazze del club di basket, Henry del Giornalino, avevo Pam, Chas, parlottavo con alcuni dei compagni con cui condividevo dei corsi.

Non mi sono mai considerata una persona cattiva, eppure quando ripenso alla me che lo conobbe, sento un senso di nausea infettarmi la bocca dello stomaco. Lui mi ha permesso di vivere una vera e propria metamorfosi. Ha tirato fuori degli aspetti di me stessa di cui ero a conoscenza in modo solo illusorio. È impossibile non pensare al bene che lui mi abbia fatto. Ma anche a quanto, d'altra parte, lui abbia ricevuto così tante cose brutte dalla vita. Sono stati tanti i momenti in cui mi sia immaginata nei suoi panni. Volte in cui abbia provato a capire da vicino come deve essersi sentito per troppo tempo. Preso in giro costantemente, trattato da tutti con sufficienza, ignorato. Ho immaginato di camminare nei corridoi del mio vecchio liceo, pronta a sorridere nella direzione di Taylor per poi tornare a rabbuiarmi quando lui si allontanava, timorosa che qualcuno potesse farmi del male e con ancora più paura di reagire a quel qualcuno, trasformandomi in mio padre. Vedere gli altri stare in gruppo, ridere spensierati durante gli anni più fragili di un essere umano, sentirmi sola.

Sento che stiamo viaggiando sullo stesso treno. Sulla stessa carrozza. Ma su binari diversi.

Ma sento anche che va bene così.

– Ah, giusto! – mi riprendo. – Allora? Quali sono questi lavori? – allargo gli occhi, impaziente.

– Dunque, – si schiarisce la voce. – il primo è come fattorino per una pizzeria che dista quindici minuti a piedi dall'ateneo. Ho già parlato con il proprietario e abbiamo già concordato paga e orari. PJ ci lavora già. È stato lui a mettere una buona parola per me e così non ho avuto difficoltà ad ottenere il posto. – mi fa un occhiolino. – Mi daranno una divisa e una bicicletta e farò le consegne tutti giorni, fine settimana escluso, dalle otto a mezzanotte.

–Dalle otto... a mezzanotte? – lo guardo negli occhi.

–Sì, dalle otto a mezzanotte! – continua a sorridere.

–Ma... non è po' troppo tardi? Tra le lezioni, lo studio, gli allenamenti di basket...– aggrotto le sopracciglia.

–Ce la farò! – mi fa un occhiolino.

–Ti stancherai tanto... – faccio una smorfia.

–Starò bene, Leen. – stringe la presa sulle mie dita. – Ho sempre gestito tante cose, sin da quando ero piccolo. Il lavoro in videoteca, le ripetizioni ai bambini, mia sorella, la scuola, il basket... il compito di inglese con te e le tante ore passate a farti capire qualcosa di matematica. – ride. – Non cambia nulla rispetto allo scorso anno.

Cambia che adesso sono la sua fidanzata, e non più la sua cotta; che ha più amici; che è uno studente universitario.

È chiaramente felice. Tutte le sue giornate saranno ormai piene, minuto dopo minuto.

E se non avesse più tempo per me?

–Lo so, ma... non farmi preoccupare, va bene? – libero una mano per accarezzargli una guancia.

–Non lo farò. Promesso.

Gli prendo il mignolo della mano sinistra e lo costringo a stringerlo al mio.

– Sarà meglio per te! Ti terrò d'occhio, ragazzino. – riduco gli occhi a due fessure.

Si mette a ridere, chiaramente divertito. – Chi sarebbe il ragazzino? – mi prende per i fianchi, iniziando a farmi il solletico.

Mi dimeno tra le sue mani, non riuscendo a rimanere seria. – Sono più grande di te, no?

–Di due mesi, ragazzina.

–Due... – rido. – mesi... – un'altra risata. – e due giorni.

Smette di farmi il solletico pochi secondi dopo, continuando a guardarmi con una luce serena negli occhi.

–Che ragazzina impertinente! – scuote la testa, dandomi un bacio sulla punta del naso.

Intreccio le dita dietro il suo collo.

–E l'altro lavoro? – mi schiarisco la voce.

– Oh, questo è quello che preferisco. Ogni sabato e ogni domenica, di mattina, condurrò una rubrica cinematografica su una stazione radio locale. Violet mi ha detto che è molto ascoltata. – sgrana gli occhi.

La sua bellissima voce alla radio. La sua bellissima voce alla radio. La sua bellissima voce alla radio.

Oddio. Potrei sciogliermi come gelato al sole.

Porca vacca! – allargo anch'io i miei. – Andrai alla radio a parlare di cinema? Sul serio? – lascio trasparire tutto il mio entusiasmo.

– Ah ha! Andrò alla radio a blaterare di film. – conferma.

Gli salto addosso, stringendolo forte.

– Sono così felice, Holden.

– Lo sono anch'io. – ricambia l'abbraccio.

–Quindi niente Holden passione blogger? – lo prendo in giro.

–Mi duole, ma no. Avremo un Holden passione speaker. – si diverte.

Sorrido.

–Ma... come ci è riuscita? Cioè, non credo sia una cosa facile entrare in una radio, per quanto locale. – mi separo di poco per guardarlo di nuovo negli occhi.

Fa spallucce. – Credo che Violet abbia le sue conoscenze. PJ, da bravo pettegolo, mi ha detto di aver scoperto che appartiene a una famiglia alquanto facoltosa. – si sistema gli occhiali sul naso.

Mi limito ad annuire. – Vorrei ringraziarla. Credo che abbia fatto un gesto bellissimo! Ma prima dovrei conoscerla, ovviamente. E poi voglio conoscere questo famoso PJ. Possibile che siamo da un mese qui e che non l'abbia mai incontrato? Mi avevi detto che avresti voluto presentarmi i tuoi amici. – gli ricordo.

–Un mese? – corruccia la fronte. – Dio, com'è volato il tempo! Te l'ho detto tante volte, è vero! – si dà un colpetto sulla fronte. – Solo che non si sono mai create le condizioni giuste per farlo. Io non le ho create. – farfuglia. – Scusami, Leen. È chiaro che non sia abituato a questo genere di cose. Presentarti degli amici... wow, non ci credo nemmeno io. – d'improvviso si imbarazza.

–Non devi scusarti! – gli pizzico una guancia. – È una cosa bella, sai?

Mi sorride.

–Che ne dici se li incontrassi ad una festa? – gli propongo.

–Una festa? – inarca un sopracciglio.

–Sì, una festa. Winona mi ha parlato di una festa che si terrà questo fine settimana in un dormitorio qua vicino.

Annuisce. – Credo che Patty Lou e PJ ne abbiano parlato, in effetti. Non pensavo però ci tenessi. – mi guarda.

Mi inumidisco le labbra. – Beh... non è che ci tenga, però... sì, ecco, potremmo provare a vedere com'è.

–Giusto! Allora ci andremo. – curva le sue labbra. – Coglierò l'attimo per conoscere Winona e alcuni dei tuoi compagni. – sembra entusiasta.

Mi allarmo.

–Oh, beh certo, Roxanne... sì, la conoscerai. Con gli altri, invece, devo ancora prendere confidenza. Cioè parlo con tante persone, te l'ho detto, ma... ho bisogno di tempo, sì... – mugugno.

Ho paura. Paura di far vedere a Holden come la sua ragazza sia sola; come io che fino a pochi mesi fa non mi ponevo nemmeno il problema di farmi degli amici; io che trovavo strano che lui, da sempre più un'ombra che un corpo, volesse farsi degli amici, volesse diventare amico alla sottoscritta proprio l'ultimo anno di liceo, adesso non sappia nemmeno più come si parli a qualcuno che non si conosce.

E allora indoro la pillola. Edulcoro la realtà. La rendo più simile a quella che vorrei. Gli faccio capire che è solo questione di tempo. Che il problema forse non sia io che per qualche strana ragione mi sia chiusa in un'armatura sempre più pesante da cui uscir fuori sembri tanto difficile.

–Leen... – mi solleva il mento. – È un problema se conoscerò solo Roxanne? Lo so che siamo ancora agli inizi...

Sì, è un problema, Holden. Ma non di tempo. È un problema mio, solo mio.

Mi specchio nell'acciaio delle sue iridi. Sembra genuinamente curioso, come se volesse capire fino in fondo cosa ne pensi a riguardo. Ma non lo saprà. L'ho deciso sin da subito. Holden non deve preoccuparsi per me. Deve essere felice e sereno. Non voglio essere di nuovo, seppur in forma diversa, l'artefice della sua tristezza.

–No, non lo è. – gli rispondo senza esitare.

Ormai è da un po' che gli nascondo alcuni aspetti di me. Una vocetta dentro di me, la stessa di prima, quella dolce e ingannatrice, mi dice che mi sto comportando in modo sbagliato; che una relazione non deve fondarsi sulle bugie, che devo aprirmi con lui su ogni cosa. Che luce e oscurità sono facce della stessa medaglia; sono stata la prima a dirglielo, tanti mesi fa. Un'altra, quella rude e schietta, però, mi dice che ho fatto bene. Il fine giustifica i mezzi. Non devo permettere che anche le sue lancette inizino a rallentare per colpa mia.

–A me importa solo che tu sia felice. Che tu conosca una, dieci o cento persone. Lo sei? – chiede.

Me lo chiede spesso. Sa che qualcosa potrebbe non essere okay. Ma sono solo ipotesi, le sue. Ho il potere di fargli capire che la realtà sia quella in cui vada tutto bene, che a lezione parli con Bianca, Anne, Kerri e qualsiasi altra persona mi capiti vicino. Che stia pensando a quale confraternita fare richiesta. Che sia indecisa tra il club di disegno o quello del giornalino.

Me lo ha detto. Lui avrebbe fatto di tutto perché non ci sentissimo fuori luogo a Princeton. Lui fa già di tutto. Il problema è mio e devo sbrigarmela da sola.

Rimane a guardarmi. A fissarmi. Lo fa in silenzio. Con la sua capacità fuori dall'ordinario di perlustrarmi dentro con i suoi occhi.

–Va tutto bene. – mi sento in dovere di insistere.

–Davvero? – indaga.

–Davvero. – faccio un sorriso, sperando di risultare convincente.

– Bene. – mi bacia una guancia, inondandomi con il suo buon profumo.

Tiro mentalmente un sospiro di sollievo.

–Allora, questo lavoro? – mi affretto a cambiare discorso. – Non ci vedremo più? – gli punzecchio il petto.

– Non scherzare! Tu e io troveremo sempre il modo di vederci. In ogni pausa. In mensa. Nei corridoi. In biblioteca. – le sue mani si intrufolano lentamente sotto il mio giubbotto di jeans, a diretto contatto con la mia maglietta.

–In biblioteca? Ma in biblioteca non ci si va per studiare? – sposto le mani sul colletto della sua camicia.

–Oh beh, credo che i libri possano essere testimoni di attività più interessanti...– muove ritmicamente le sopracciglia.

–Tipo? – lo sfido.

–Tipo che quello che sto pensando farebbe arrossire le copertine dei libri di Jane Austen. – aggancia le sue pupille alle mie.

–Attento, potrei crederti...– sostengo il suo sguardo.

Da quando abbiamo iniziato l'università i momenti più... intimi tra di noi si sono rarefatti sempre di più, facendomi trovare più volte a pensare a quando riusciremo a ritagliare per noi degli attimi simili a quelli che abbiamo vissuto questa estate. Quando potrò tornare ad esplorare angoli di lui a me ancora estranei e ignoti. Dal modo in cui le sue dita prendono ad accarezzarmi credo la mia volontà sia gemella alla sua.

–Fallo! – mi prende le guance tra i suoi pollici, strizzandomele così tanto da far sporgere le mie labbra che sfiora velocemente con le sue. – Il sabato e la domenica, dal pomeriggio in poi, sarò libero. – riprende. – Mi sono giocato una paga più alta, ma me ne infischio completamente. Non potevo rinunciare a passare del tempo con te.

È il mio turno di lasciargli un bacio sulla guancia. – Sarai tutto mio, allora.

– Lo sono già. – mi sorride. – E tu? Novità?

– Forse. – continuo a piantare il mio sguardo nel suo. – Oggi un ragazzo del mio corso mi ha proposto un posto come dogsitter in un canile.

–Dogsitter? – ridacchia. – In un canile? Non pensavo che lavorare con mia sorella ti avesse preparato a questo.

Gli do un pugno scherzoso sulla spalla. – Ma smettila! Al massimo tua sorella mi ha insegnato a lavorare con i conigli. – sto al gioco. – Qui, invece, mi occuperò di cani randagi. A momenti mi recherò sul posto per avere maggiori informazioni e valutare la proposta.

– Oh. Bene. Vuoi che ti accompagni?

– Non hai lezione di algebra fra poco?

– Posso saltarla.

– Holden Morris che vuole saltare una lezione di matematica! Che cattivo ragazzo...

– Lo hai scoperto solo ora? – fa uno sguardo malizioso.

Mi metto a ridere.

– Non ce n'è bisogno. – riprendo, accarezzandogli i capelli. – Andrew mi aspetta davanti al dipartimento di farmacia. Ci andremo insieme.

– Andrew? – è il suo momento di sollevare un sopracciglio.

– Il mio compagno di corso. Non ci conosciamo molto, ma sembra un tipo a posto.

Rimane qualche istante in silenzio, poi annuisce lentamente.

– D'accordo! Ci vedremo quando avrai finito, allora. – mi sorride.

– Certo.

– Ti lascio. – le sue dita mi stringono con più fermezza, dimostrando una volontà in contrasto con quanto ha appena detto. Poi si avvicina alle mie labbra, prendendo a fissarle. – Dopo non mi scappi, però. – abbassa la voce.

– Non avrò alcuna intenzione di farlo. – lascio che le mie labbra lambiscano le sue in un modo decisamente più lento rispetto a prima.

***

Andrew è poggiato ad un palo fissato nel terreno, a pochi passi dal vialetto che porta al dipartimento di farmacia.

Ha gli occhi chiusi, le mani nelle tasche di un paio jeans dall'orlo scucito e le cuffie a padiglione a coprirgli le orecchie. Muove la testa a ritmo, nel suo mondo. Ho quasi paura di disturbarlo.

Per un momento temo che possa non sentire la mia voce; che dovrò toccarlo per attirare la sua attenzione. La fortuna è però dalla mia. Mi basta chiamarlo una volta sola perché fissi i suoi occhi scuri su di me.

–Oh, Foster, eccoti. – mi saluta con un cenno della testa.

–Eccomi. – abbozzo un sorriso.

Sfila il cellulare dalla tasca e ci smanetta per qualche secondo, abbassandosi subito dopo le cuffie. Un paio di istanti e torna a nasconderlo.

–Andiamo? – mi chiede.

–Andiamo. – confermo.

–Il posto non è tanto distante, ma per raggiungerlo dovremo prendere l'autobus. Ti sta bene?

–Non dovrebbe? – mi incuriosisco.

–Non so, magari non ti piace prendere i mezzi pubblici.

–Beh, di certo preferirei avere una limousine, ma temo non ce ne siano a mia disposizione. Perciò... non credo abbiamo alternative, no?

–Direi di no. – fa un piccolo sorriso.

Ci troviamo ad annuire nello stesso momento, poi mi precede iniziando ad avviarsi verso l'uscita.

Lo seguo a passo lento, rimanendogli dietro. Ha un'andatura disinvolta e leggermente strascicata. Il solito giubbotto legato in modo sciatto attorno ai fianchi stretti e lo zaino pieno di spille e adesivi a ciondolargli dalla spalla destra. Riconosco delle spille dei Nirvana, dei Beatles, degli Arctic Monkeys e di un'associazione che ha il simbolo di un cane, la stessa verso cui immagino mi stia conducendo. Più in basso, invece, sono raffigurate due mani dagli indici tesi, pronti a toccarsi. Ricordano quelle de la Creazione di Adamo, l'affresco di Michelangelo. Sono bellissime e così brillanti da creare un contrasto quasi accecante con il nero del tessuto.

Ci mettiamo cinque minuti per arrivare ad una delle fermate dell'autobus che costeggiano il quartiere.

–Hai l'abbonamento? – mi domanda. – Perché altrimenti ho un paio di biglietti in più. Ti ho proposto io questa cosa, per cui non farti problemi.

–Tranquillo. Ho l'abbonamento. – rispondo.

–Perfetto.

Nessun silenzio imbarazzante ha il tempo di insinuarsi tra noi. Il bus arriva pochi istanti dopo.

Essendo primo pomeriggio, ci sono diversi posti vuoti. Ce ne sono ben quattro. Due vicini e due singoli, separati dal corridoio.

Ci sediamo su questi ultimi, ricordando così le nostre posizioni in aula. Con la coda dell'occhio lo vedo tornare ad ascoltare la sua musica. Poggia il piede sulla parte più sporgente della parete laterale, poco più in basso del finestrino che prende a fissare.

I nostri occhi si incrociano per un secondo nei nostri riflessi sul vetro. Smetto di guardarlo subito, concentrandomi sul paesaggio all'esterno del mio finestrino. Le case, i negozi, le strade. A una signora si rompe una busta della spesa. Dei bambini inseguono un gatto nero. Due ragazze si baciano sotto un lampione.

Mi distraggo solo quando noto una notifica da parte delle mie amiche. Chas e Pam sorridono in una foto che si sono scattate davanti a delle macchinette del caffè. Fra pochi minuti Chas seguirà una lezione di psicologia; Pam, invece, una lezione di diritto privato.

Invio loro dei cuoricini, domandomi subito dopo cosa si siano dette prima di scattarsi la foto; cosa faranno quando usciranno dalle loro aule; come sia avere sin dal primo giorno qualcuno con cui condividere la camera, con cui chiacchierare di tutto. Poi realizzo che io ho Holden con cui condividere tutto, eccezion fatta per la camera, ma che per qualche strana ragione... è diverso.

Mi affretto a gettare il cellulare nello zaino che prontamente infilo tra le caviglie.

Lascio così tanto che i pensieri mi immergano da costringere Andrew a farsi vicino per avvisarmi che dobbiamo scendere. Una volta all'aperto, mantiene un passo più lento rispetto a quello dell'andata, così mi ritrovo a camminargli a fianco, in silenzio.

–Il professor Morley... – si schiarisce la voce. – che ne dici?

Mi volto nella sua direzione. Ha lo sguardo fisso davanti a sé e le mani in tasca. Mi ha fatto una domanda. Una domanda non necessaria. Cioè, diversa da quelle che mi ha posto poco fa. Ciò vuol dire che voglia fare conversazione. È così che si inizia una conversazione, giusto? Deve essere portato per le conversazioni, lui. Anche il primo giorno, in effetti, ha attaccato bottone chiedendomi cosa ne pensassi del suo disegno.

– Mi hai fatto una domanda? – gli chiedo.

Devo accertarmi di non essermi immaginata tutto.

È il suo momento di voltarsi nella mia direzione. – Credo di sì. – tentenna. – L'ho fatto? – corruccia la fronte.

–Te l'ho chiesto io. – mi scappa un sorrisino.

– Già, ma... il modo in cui mi hai guardato mi ha fatto venire dei dubbi. Potrei aver pensato alla domanda, ma non avertela fatta.

– Credo tu me l'abbia fatta.

– Ottimo. – piega un angolo della bocca.

– E qual era? – chiedo ancora.

Della serie che se avevo una possibilità nel fare amicizia con questo ragazzo, me la sto bruciando con la mia evidente stupidità.

– Credo di averti chiesto cosa ne pensi di Morley. Credo, eh!

Il suo modo di parlare mi fa ridere.

– Oh, beh, – tossisco. – mi sembra un tipo okay. Confesso che fino a questo momento è il mio preferito.

– Anche il mio. Ha un modo di fare incredibilmente stimolante. Certo, ogni volta che lo veda negli occhi, mi ricordo della figuraccia che ho fatto il primo giorno, ma faccio finta che non sia successo a me.

Mi metto di nuovo a ridere. – È passato un mese! Ci pensi ancora?

– Soltanto un mese!? – alza la voce di un tono. – A me sembra che sia passata un'eternità. – mi guarda per un secondo. I suoi lineamenti sono contorti in un'espressione confusa.

– Al passo di una lumaca stanca e vecchia... – mormoro, sorpresa.

Penso che non abbia sentito, ma annuisce.

– Come una lumaca vecchia e stanca. Non potevi usare immagine migliore. Che schifezza. – dice. – Comunque, è ovvio che ci pensi ancora, e che lo farò fino alla fine dei miei tempi. Figuracce come quella che ho fatto io non sono mica fesserie.

Mi sarei sentita nello stesso identico modo.

– Per così poco! Sarebbe potuto capitare a chiunque. Soprattutto a me. Quel posto è un labirinto.

– Sei gentile, ma per quanto sarebbe potuto succedere a chiunque, è successo a me. Solo a me.

– Non se lo ricorda nessuno, stai tranquillo! – mi sento in dovere di insistere.

Avrei voluto sentire parole simili a quelle che gli sto rivolgendo se fosse capitato a me.

–Tu sì, però. – mi contraddice.

–Oh... – mi fermo per qualche secondo. – perché... temo di non avere molto altro su cui spostare l'attenzione. – la butto sul ridere.

–Posso dedurre che anche tu stia trovando la vita da matricola alquanto noiosa?

Verità o bugia? Fingere che la mia vita da matricola sia uno spasso o che mi senta ancora come un pesciolino che annaspa? Potrebbe aiutarmi a fare amicizia dire che vada tutto bene?

–Può darsi. – opto per la vaghezza. D'altronde è uno sconosciuto. – Posso fare la stessa deduzione?

–Può darsi. – mi imita.

Può darsi.

–Comunque, ti do il benvenuto a "La casa di Noè". – si ferma di fronte a un edificio, in una strada appartata. Ci sono perlopiù case e auto che danno l'apparenza di essere di seconda mano, parcheggiate accanto a muri colorati da graffiti.

Tra una chiacchiera e l'altra non mi ero nemmeno accorta che ci fossimo fermati.

Tra una chiacchiera e l'altra. Ho davvero preso parte ad uno scambio di parole con uno sconosciuto. Uno scambio di parole abbastanza lungo da essere definibile una vera e propria conversazione. Una conversazione che non era in nessuno modo obbligatoria o necessaria come magari puoi esserlo stata quella di questa mattina con Roxy che mi ha visto come uno zombie e si è preoccupata.

Nascondo un sorriso e mi impongo di concentrarmi sulla situazione. Sono qui per un lavoro. Un lavoro di cui ho tremendamente bisogno.

Non mi sento in ansia. O almeno, non mi sento in ansia come l'anno scorso, quando mi recai a casa di Holden, inconsapevole che fosse la sua, per il lavoro da babysitter. Adesso mi sento più preparata, più pronta.

Sotto lo sguardo curioso di Andrew, mi do un'occhiata attorno. È tutto più silenzioso del previsto.

Scorgo una recinzione attorniare un fazzoletto di terra da cui spuntano ciuffetti d'erba e piccoli fiori bianchi; intravedo delle cucce e delle ciotole. Niente gabbie. Delle palline sporche di terra sono vicine a una porta laterale, scrostata dal tempo, insieme a quelli che sembrano dei giocattoli di gomma.

Il rifugio si presenta come una struttura dalle medie dimensioni. Ha un tetto color biscotto e i muri esterni sono opacizzati dal tempo, colorati solo da alcune sagome, a forma di bambini, dipinte con colori vivaci. Queste, più due altalene che dondolano in lontananza, mi fanno pensare che prima di essere un canile, questo posto potesse essere un asilo, o una scuola.

È poi un abbaiare a distrarmi.

Un cane di taglia media, più simile a una trottola data la velocità con cui corre, salta sulle gambe di Andrew. Lo travolge, iniziando a leccargli le guance e la fronte.

Il ragazzo scoppia a ridere, inginocchiandosi e stringendo tra le sue braccia l'animale.

–Biagio! – alza la voce, spupazzandolo.

Il cane continua a fargli le feste, mentre delle risate in lontananza riecheggiano nell'aria.

–È inutile, quel pestifero fiuta il tuo odore da chilometri di distanza. – dice una donna, ridacchiando.

Un caschetto rosso le incornicia il viso lungo e scavato, coperto in parte da una frangia lunga che le sfiora gli occhi azzurri. Indossa un camice su cui è affisso una targhetta che riporta una dicitura che riesco a leggere solo quando ci si fa vicina. Dott. Burnett. È questo ciò che vi è scritto.

–Perché Biagio è il migliore. E poi perché ho un profumo inconfondibile.

Andrew si sporca i jeans di terreno, ma sembra importargli poco.

Poi lo sguardo di tutti, di Biagio compreso, si posano su di me.

–Foster, ti presento Biagio e la dottoressa Marianne. Biaggio, Doc, vi presento Foster. – Andrew si sente in dovere di fare le presentazioni.

Sorrido impacciatamente, stringendo prontamente la mano che la dottoressa mi tende. Poi faccio anche un occhiolino nella direzione di Biagio che ci mette poco ad avvicinarsi per annusarmi le caviglie e le scarpe. Temo che l'odore di Wolverine mi accompagni sempre.

–Oh, che carina! È la tua nuova fidanzata, Andy?

Per qualche strana ragione mi imbarazzo.

–No. – io e Andrew rispondiamo nello stesso momento.

–No, – riprende lui. – ci conosciamo a malapena, a dirla tutta. È una mia collega universitaria. È qui per il posto di dogsitter.

–Ah, perfetto! – gli occhi della veterinaria si accendono. – Hai fatto veloce, Andy.

–Sono fortunato, lo sai. – la guarda, sollevando solo un angolo delle labbra.

Sorrido. – Sì, sono qui perché sarei interessata al posto.

–Ottimo! Allora, prego, entriamo dentro. Facciamo due chiacchiere mentre ti offro una tazza di caffè. Lo bevi il caffè?

–Preferisco latte e cacao. – rispondo.

Andrew nasconde una risatina, con scarsi risultati.

–Temo dovrai accontentarti di latte e caffè, va bene? – Marianne sembra sinceramente dispiaciuta.

–Andranno benissimo, grazie. – le sorrido.

Sorride di rimando, avviandosi.

–Lo trovi divertente? – mi rivolgo ad Andrew, prendendo a camminargli a fianco.

Biagio ha smesso di annusarmi e si è appiccicato al mio collega universitario.

–Cosa? – fa il finto tonto.

–Che preferisca bere il latte con il cacao al caffè.

–Un po'. – ammette. – Di solito sono i bambini che lo prediligono.

– Sono stata una babysitter per diverso tempo e ho esperienza come volontaria in una casa–famiglia. Forse sarà per questo. – mi giustifico.

–Sarà per questo. – ripete, non nascondendo un sorrisino.

–Biagio, eh? – continuo. – Che nome...

–Originale, vero? – mi interrompe.

–Stavo per dire... banale. – è il mio momento di ridacchiare. – Fan di "Lilli e il Vagabondo"?

–Chi ti dice che il nome gliel' abbia dato io? – si volta nella mia direzione.

Scrollo le spalle. – Intuito femminile, forse.

–Intuito femminile. – ripete ancora.

Non so se mi stia prendendo in giro o se il suo ripetere le mie risposte sia un modo per capirle meglio. Credo più la prima.

Entriamo in casa senza che lui mi risponda.

L'ambiente che mi accoglie si presenta caloroso e pulito.

La praticità è la parola chiave che lo descrive. Nulla di sfarzoso ed elegante. La cucina fa da open space con il salotto. Il tavolo, rivestito da una tovaglia di plastica lilla, e le sedie sono di un legno chiaro; gli sportelli e le suppellettili sono di un pallido giallo. Un divano a due posti è coperto da un copriletto a fiori e da una coperta rossa; fronteggia una piccola tv, di quelle a tubo catodico. Ci sono scatole di giocattoli e oggetti che non saprei identificare accatastati in un angolo, vicini a delle buste giganti di cibo e biscottini per cani.

Ciò che attira la mia attenzione sono dei ritratti appesi alle pareti. Raffigurano dei cani, il ritrovo stesso e due ragazzi che sorridono. Sono tutti a matita. Malgrado la firma del loro autore sia troppo in piccolo perché possa notarla, sono certa di sapere chi sia l'artista.

–Daniel, Imogen. Vi presento Foster. – dice Andrew, ad un certo punto.

Presa dalle mie perlustrazioni, non mi sono nemmeno accorta di due ragazzi. Stanno giocando a carte, ma smettono di farlo non appena Andrew li richiama. Entrambi si distinguono per i loro aspetti. Daniel ha capelli biondi, di una tonalità poco naturale, a coprirgli la fronte, e delle spaventose occhiaie scure sotto gli occhi chiari. Lei, Imogen, ha capelli rosa legati in due trecce e occhi scuri truccati come una bambola: matita bianca nella riga interna e tanto mascara.

–Ma avrà un nome questa ragazza, o si chiama Foster? – interviene la dottoressa, aprendo il frigorifero.

–Kathleen. Mi chiamo Kathleen. – rispondo in tutta fretta.

–Che nome incantevole! Andrew, perché la chiami per cognome? – gli domanda la dottoressa con fare accigliato.

Lui schiude le labbra per rispondere, ma lo precedo. – Non c'è problema. – sventolo le mani davanti a me. – Come ha già detto, siamo solo colleghi universitari e non ci conosciamo.

Imogen solleva un sopracciglio. – Oh, un'altra fighetta di Princeton?

Sto per rispondere a tono, d'improvviso irritata, ma poi lei si mette a ridere.

–Non cominciare a fare l'invidiosa, Jenny. – la riprende Andrew. L'ombra di un sorriso a increspargli la bocca, come se fosse abituato a sentire certe espressioni.

– Scherzo, scherzo. Mi piace quando ci porti persone intelligenti. – la ragazza sorride in un modo piuttosto accomodante, così abbandono l'ascia di guerra.

–Vuoi unirti a noi? – continua Daniel.

–Non metterci anche tu, Dan. Foster è qui per il posto di dogsitter. Non è qui né per adottare un randagio, né per farsi rimorchiare da un idiota come te. – lo provoca Andrew.

Daniel lo guarda di traverso, lanciandogli contro una mela che ruba al cesto che troneggia al centro della tavola. Andrew la prende con agilità, lanciandogli un'occhiata di sfida mentre le dà un sonoro morso.

–Okay, basta. La vostra stupidità intossica l'aria. Vieni pure a sederti, Kathleen. – mi si rivolge Imogen.

C'è un clima di intimità tra loro. Si capisce che sono amici di lunga data.

–Ti vuoi sedere con una fighetta di Princeton? – mi scappa.

Andrew scoppia a ridere.

–Ovvio. – risponde lei. – Magari per osmosi mi passi un po' della tua intelligenza. – ha un tono chiaramente scherzoso.

–Magari succede. – sto al gioco.

Poi le sorrido, prendendo posto al suo fianco.

Ho fatto delle battute con degli sconosciuti. Quanti progressi per una che sta battendo la fiacca.

Se fossi in un videogioco la barra del mio livello relazionale si starebbe colorando sempre più.

Subito dopo, Marianne mi porta il bicchiere con il caffelatte, servito con dei biscotti con delle gocce di cioccolato. Daniel e Imogen ci si avventano su, come bambini. Il colloquio ha così inizio. Anche se, dato il modo in cui tutti mi parlano, sembra più una chiacchierata al bar. Senza che me ne accorga mi trovo a parlare con un trasporto che non credevo mi fosse più proprio. Parlo di Wolverine; delle mie cure nei suoi confronti (ometto di dire che è sovrappeso); del mio precedente lavoro con Phoebe e della mia esperienza nella casa–famiglia.

Malgrado Andrew e Daniel si stuzzichino a vicenda, mi ascoltano tutti con interesse. Mi viene fatta qualche domanda e mi viene fornito un opuscolo con su scritte le attività, gli orari e la paga, apparentemente unica nota dolente. L'incarico che mi viene proposto è semplice, ciò nonostante tutti si offrono di aiutarmi e di mostrarmi il canile dove, oltre Biagio, ci sono altri quattro cani, due dei quali di taglia grande, alquanto malandati.

Mi raccontano che di solito ce ne sono anche di più, e che la maggior parte sono cani abbandonati o trovati feriti in strada.

–I cani più vecchi sono quelli che difficilmente trovano casa. Più il cane è cucciolo, più ci saranno delle persone interessate ad adottarlo. – dice Marianne.

–Un po' come i bambini negli orfanotrofi. – riprende Andrew. – Più il bambino è piccolo e più sarà preferito a quelli più grandi. Per la gente è tutto un gioco di apparenze, non di reale interesse.

Annuisco lentamente, lasciandomi sfuggire un piccolo sospiro.

–La paga temo non sia un granché, ma devi capire che ci sosteniamo grazie a pochi fondi. – Marianne abbassa lo sguardo sulle sue unghie corte e colorate.

–Accetto. – rispondo senza starci troppo a pensare. – Ho poche pretese. Andrà perciò benissimo la paga. E per il lavoro... mi impegnerò perché tutti i cani abbiano le dovute attenzioni.

–Sì? – chiede Andrew, proprio come ha fatto stamattina.

–Sì. – asserisco.

La dottoressa mi stringe immediatamente le mani tra le sue, lunghe e ossute. – Che notizia! Benvenuta, allora.

Non posso far altro che sorridere.

***

–Quindi da adesso siamo colleghi. – dice Andrew, sulla via del ritorno.

–A quanto pare.

–Ti ringrazio per aver accettato. Non è stato facile trovare qualcuno.

Con la coda dell'occhio lo vedo mantenere lo sguardo fisso davanti a sé, come all'andata.

–Mi era parso di capire, da ciò che ti ha detto la dottoressa Burnett, che tu sia stato veloce. – osservo.

–Perché lo sono stato, in effetti. Ma devi sapere che prima di me ci hanno provato anche Dan, Jenny e Doc a trovare qualcuno disposto a fare questo lavoro a una paga come quella che offriamo.

–Oh. – è la mia risposta. – Per me è una paga sufficiente. E poi credo che mi divertirò.

Si mette a ridere. – Ho avuto fortunata ad incontrarti davanti alla bacheca degli annunci, non c'è dubbio! Immagino tu sappia che la maggior parte dei nostri colleghi abbia le spalle ben protette, economicamente parlando. Ero convinto infatti che avrei ricevuto qualche insulto sul foglio che avevo intenzione di fissare.

–Partivi con alte aspettative, quindi. – lo canzono.

–Altissime, è vero.

Sorrido.

Quando saliamo sull' autobus, malgrado l'ora più tarda, troviamo una situazione simile a quella dell'andata. Due posti vicini e due singoli, separati dal corridoio.

Sto per avviarmi verso uno di questi, quando lui mi coglie di sorpresa, accostandosi verso quelli vicini.

Mi guarda, come se cercasse una mia approvazione. Mi domanda con gli occhi se per me vada bene sedermi al suo fianco. Il gesto mi colpisce.

Mi trovo ad annuire.

–Preferisci il posto vicino al finestrino? – chiede.

–In effetti, sì.

È il suo turno di annuire, indicandomi con la mano il sedile in questione. Lo ringrazio e lo supero, prendendo posto. Lui si posiziona al mio fianco; riprende il cellulare e sostituisce le cuffie con un paio di auricolari che tira fuori dal suo zaino.

–Abbiamo il tempo di ascoltare tre canzoni degli Arctic Monkeys prima di arrivare alla nostra fermata. Oppure di ascoltare "Sultans of Swing", più una canzone breve, a tua scelta. – mi avvicina un auricolare.

Rimango a guardarlo in silenzio, di nuovo colta alla sprovvista.

–Sempre che ti vada di ascoltare musica e di farlo... con me. – aggiunge subito, abbassando la mano.

–Sì, certo, perché no? – avvicino le mie dita alle sue, sfiorandole accidentalmente per prendere la cuffietta. – Vada per gli Arctic Monkeys. Mi piacciono molto.

–Grande! – gli angoli della sua bocca si tirano verso l'alto.

Indossiamo gli auricolari, poi lui tira fuori un quaderno che prontamente piega su stesso. Tira fuori da una tasca del suo zaino una matita, alquanto consumata, e inizia a scarabocchiare.

Smetto di guardarlo, fissando il finestrino, come prima. Poi prendo il cellulare, accorgendomi di un messaggio di Holden, inviatomi già un'ora fa. Mi chiede come stia andando il colloquio e se tutto sia okay. Mi sento subito in colpa per non averlo notato subito, così provvedo a rimediare. Gli scrivo che è andata bene, che sto tornando e che non vedo l'ora di vederlo.

Quando lo rimetto in borsa, Andrew urta accidentalmente il mio polso.

–Scusami! – si affretta a dire. – Sono tremendamente imbranato sui mezzi pubblici.

–Avresti preferito anche tu una limousine, vero? – sdrammatizzo.

–Decisamente. – mi rivolge un sorriso.

Punto lo sguardo verso il suo schizzo. Sono rappresentati, con un tratto leggero, un busto maschile e delle braccia, non ancora complete.

–Ha un che di decadente, il tuo disegno. – gli confesso.

–Ah sì? – si scosta con un movimento veloce delle ciocche che gli finiscono davanti agli occhi.

–Sì. Mi ricorda una di quelle statue distrutte che si possono trovare in quei giardini antichi, ormai abbandonati e logorati dal tempo, che si vedono sui libri di storia o nelle favole ambientate nell'antica Grecia.

Con il polpastrello dell'indice sfrega su un punto del petto, dandogli immediatamente più profondità.

– Stavo proprio pensando a una statua, di quelle dei templi greci. In questo periodo sto studiando il disegno anatomico su alcuni manuali di Leonardo Da Vinci, per cui ho bisogno di fare allenamento. – spiega.

–Devono essere studi difficili. – mi incanto a guardare la punta della sua matita e il modo in cui con abilità scorra sulla carta.

–Beh, stiamo parlando pur sempre di disegni di un genio, ma con il dovuto allenamento, nulla è difficile. Tranne tutto ciò che attenga la matematica. Io la odio.

Allargo gli occhi. – Oh, finalmente qualcuno che mi capisce! Non l'ho mai amata.

Sorride, senza smettere di disegnare.

Lo faccio anch'io.

Arriviamo alla nostra fermata proprio quando le ultime note di Arabella sfumano fino a cedere il posto al silenzio.

Una volta davanti all'entrata del college, mi appresto a salutarlo.

–È stato... – inizio. – un bel pomeriggio. Ti ringrazio per avermi aiutato a trovare un lavoro.

–Grazie a te per aver accettato. Non era facile trovare qualcuno disposto a lavorare ad una paga così modesta, te l'ho già detto. Mi ritengo fortunato. – mette le mani in tasca.

Mi limito ad annuire.

–Dal momento che da adesso ci vedremo più frequentemente per via del lavoro, ti andrebbe bene se ci sedessimo accanto durante le lezioni? – chiede a bruciapelo.

Allargo gli occhi.

–Intendi ad una distanza minore rispetto a quello con cui lo facciamo già? – ho un evidente bisogno di conferme, oggi.

–Sì, esatto. – mi guarda dritto negli occhi.

Faccio fatica a credere che lo abbia detto davvero. Mi pizzico, per la seconda volta nella giornata, il polso.

–Mi farebbe piacere. – rispondo, costatando che di nuovo non stia sognando.

–Bene.

Annuisco di nuovo.

–A domani, allora! Ciao, Andrew. – sollevo la mano, facendo un passo indietro.

–Andy. Andrew è mio nonno. – mi ricorda, mettendosi a ridere.

–Giusto. – ridacchio a mia volta. – Mi ci devo abituare.

–E io dovrei abituarmi a chiamarti per nome.

–Non preoccuparti. Se preferisci chiamarmi per cognome, non farti problemi.

Fa una smorfia. – Non sta bene che tu mi chiami con un nomignolo, mentre io ti chiami per cognome. Dovrei dartene uno anch'io.

–Un nomignolo? – aggrotto la fronte.

Annuisce. – Che ne diresti di... – picchietta l'indice contro il labbro inferiore, – Fosty?

–Fosty? – inarco un sopracciglio. – Direi... che è originale.

Penso a Holden. Al suo Leen. Alla sua voglia, il giorno in cui si presentò, di chiamarmi in questo modo malgrado la mia contrarietà.

– Come il nome Biagio. Gliel'ho dato io, per la cronaca! Il tuo intuito femminile non si è sbagliato. – sorride.

Poi mi fa un cenno con la testa, dimostrandomi che è il suo modo di salutare, e si allontana a passo veloce.

Tic. Tac.

E dopo tre (?) settimane rieccoci qui, girasoli cari! Come state? Che mi dite di bello?

Partiamo subito dalla frase dei Peanuts. Vi confesso che non è affatto facile trovare per ogni capitolo la citazione più appropriata, che in qualche modo riprenda il contenuto che leggerete. Fatto sta che poco fa ho preso uno dei due libri sui Peanuts che mi ha regalato uno dei miei fratelli questo Natale. Scorrendo le pagine ho letto di questa vignetta in cui a Linus viene portata via la sua fedele copertina.

Ora, credo che conosciate tutti questo personaggio, ma in caso contrario vi snocciolo che è un bambino che vive in simbiosi con la sua copertina. Il suo scudo, il suo rifugio, il suo posto sicuro.

Ecco, ho trovato perfetta, perciò, questa frase. Perché, in fondo, a Kat non è stata portata via la sua copertina? Il suo posto sicuro?

Credo che nella prima storia ci siamo soffermati più sulle fragilità di Holden, ma in questo sequel voglio addentrarmi maggiormente in quelle che sono le vulnerabilità di Kat, nella prima storia forse meno accentuate, seppur presenti. Ricordiamo, infatti, che ha vissuto la sua infanzia con una figura paterna assente e negativa, e che perciò, oltre alla sua indole forte e allegra, sono state le figure a lei più care a sostenerla.

Adesso che c'è uno schermo e dei chilometri a separare lei da tutti quanti, tranne da Holden, si sente estremamente spenta.

Voi che ne pensate? Trovate sia coerente questo percorso che ho pensato per lei? I suoi atteggiamenti, i suoi pensieri?

Malgrado "ascolti" sempre i miei personaggi, lasciandomi guidare da loro per la stesura di ogni capitolo, ho sempre tante insicurezze. Per questo spero di non starvi deludendo.

Mi sono già dilungata abbastanza, per cui mi limiterò ad aggiungere che in questo capitolo si sono aggiunti nuovi tasselli: ci sono stati dei risvolti nella figura di Roxanne ( vi aspettavate il discorso che le ha fatto? A proposito, la scena che ha citato è tratta dal romanzo "La storia infinita"), Holden ha trovato ben due lavori ( la sua bellissima voce alla radio, oddio!!), Kat ne ha trovato uno grazie alla new entry: Andrew Slater ( il presta-volto è su! Per me è proprio *chef's kiss*).

Sono curiosissima di sapere la vostra opinione, come sempre!

E, come sempre, grazie di cuore per il vostro supporto e il vostro tempo. Per ogni stellina e ogni pensiero che mi scrivete. Siete i miei girasoli!!! ❤️🌻

Alla prossima,

un abbraccio,

Rob

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