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L'acchiappatore nella segale

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L'acchiappatore nella segale

"Sai che ci sono dei fiori che cambiano colore nel corso del tempo? Lo fanno per adattarsi al livello di Ph del terreno o per attrarre gli insetti impollinatori. In pratica si adeguano al contesto, ai cambiamenti, a chi li circonda. Sono sempre gli stessi fiori, la loro essenza non cambia, ma una parte di loro lo fa, rendendoli inevitabilmente diversi."

(Holden Morris)

Sono costretta a darmi un pizzico. Poi un altro. Poi un altro ancora.

Fanno tutti male. Tutti mi lasciano un segno rosso sulla pelle. Tutti mi fanno accorgere di come i miei occhi non si aprano di scatto, perché sono già aperti. Non sto dormendo. Sono sveglia.

Sono sveglia e sono seduta su una panchina a Central Park di fronte a un lago oscuro su cui si riflettono alcuni scorci della città. Un cielo plumbeo si staglia su me e quello che un tempo è stato il mio ragazzo.

–Chissà dove vanno le anatre quando in inverno il lago si ghiaccia.

Mi volto a guardarlo. Ha le mani in tasca, le caviglie incrociate e lo sguardo fisso davanti a sé.

–In inverno il lago si ghiaccia, no? – sposta i suoi occhi su di me. – E le anatre, allora, dove vanno? Viene un camion e le porta allo zoo o volano via?

Resto in silenzio. Avrei bisogno di ben di più di un pizzico, mi accorgo.

–Era questo che sia chiedeva Holden Caulfield in un passo del romanzo di Salinger. L'ho sempre trovato un protagonista estremamente intelligente. Un ragazzino che si fa cacciare da ogni scuola, scanzonato, un po' rozzo, dal linguaggio puerile e volgare... con una mente, però, così... sconfinata. – torna a guardare il lago. – Holden si chiedeva dove finissero le anatre di inverno. Le anatre, Kathleen, capisci?

No, non lo capisco. Non ci capisco niente, in realtà. Ma non glielo dico. Lo ascolto e basta.

–Sono poche le persone che quando sentono il mio nome e quello di mia sorella capiscono che ci sono stati dati per omaggiare il romanzo di Salinger. Tu fosti tra questi. Ricordi? – torna su di me.

Mi limito ad annuire. Sento le mie sopracciglia farsi sempre più vicine. Sono confusa, ma non voglio esprimere a voce alta questa confusione. Holden è tornato da poco nella mia vita e la sta scompigliando di nuovo. Forse non ha mai smesso di farlo. È sempre stato incastrato nella mia testa. Ogni suo frammento è sempre stato incastrato nella mia mente, nel mio cuore, dappertutto. Ho sempre pensato che non esistessero ragazzi alla 'Holden Morris'. Eppure, di tipi ' a pezzi' come lui devono essercene altri nel mondo. Ecco cosa ti combinano. Ogni loro scheggia ti finisce ovunque, ferisce e lascia segni che ogni tanto tornano a far male, a ricordarti che ci sono.

–Una volta, lo ricordo ancora, come d'altronde ricordo ogni cosa che ti riguardi, mi chiedesti se io mi rivedessi in Holden Caulfield e io fui piuttosto evasivo perché mi divertiva lasciarti nel dubbio. Perché in parte forse non lo sapevo nemmeno io, del tutto. Ora credo di poterti rispondere, Kathleen.

Continuo a guardarlo, in attesa.

–Sì, mi ci rivedo in lui, in quel ragazzino con l'unica ambizione di diventare un acchiappatore nella segale.

–Un acchiappatore nella segale. – trovo l'energia di aprir bocca.

–Strana ambizione, vero? – solleva un angolo delle labbra. – Il giovane Holden si immagina in un campo di segale in cui corrono migliaia di ragazzini. Lui è sull'orlo di un dirupo altissimo e il suo unico compito è quello di prendere al volo, di acchiappare, tutti quelli che rischiano di cadere. Dice che per tutto il giorno farebbe solo questo, acchiapperebbe questi ragazzini. Aggiunge poi che è una pazzia. Lo ripete anche una seconda volta. – torna serio. – Ha ragione, Kathleen? È una pazzia?

–Non lo so. Lo è, Holden? – ci metto un po' a rispondere.

–No. O forse sì. Un ragazzino senza una reale meta che vuole acchiappare altri ragazzini che corrono ignari verso un dirupo. È quasi una contraddizione perché potrebbe benissimo essere lui uno di quelli che corrono in un campo di segale, incuranti del pericolo che li attende. Lui, però, se ne infischia che sia una contraddizione. Lo sa. Sa che è una pazzia dare una seconda possibilità a dei ragazzini disorientati come lui. Ma lo vorrebbe fare. Vorrebbe solo agire.

Torna a fare silenzio.

Lo faccio anch'io. Un tuono rischiara il cielo. Nelle vicinanze deve aver preso a piovere.

–Io credo che volino via. – dico. Parlo senza controllo.

–Le anatre?

Annuisco. Si capisce che abbia perso ogni traccia di lucidità.

Sto parlando di anatre con il mio primo amore che mi ha piantata quattro anni fa e che è partito per un altro continente. È a dir poco folle. Mi accorgo di come sia diventato bravo a cogliermi alla sprovvista. Di come, cedendo alla tentazione di stringere la mia mano alla sua e di scappare con lui a Central Park, non avessi previsto nulla. Assolutamente nulla. È tornato nella mia vita e ho creduto davvero che sarebbe stato solo un ritorno fuggente. Ci siamo rivisti, ha preso parte alla presentazione del mio libro, mi ha domandato se si possano fare proprie certe sicurezze, se n'è andato.

Doveva andare così. Non dovevamo rivederci più. Tutto come prima.

E invece mi ha aspettato fuori il mio posto di lavoro, invitandomi a correre con lui sotto un cielo senza stelle, dalle tinte viola. Mi ha fatta sedere su una panchina, ha lasciato andare la mia mano, e ha cominciato a parlare di anatre e di J.D. Salinger.

–Una visione romantica. Quella dello zoo è decisamente più meschina, vero?

–Vero. Volare via è più romantico.

–A volte è più tragico.

Una folata di vento torna a smuovermi i capelli. Fa tremare le chiome degli alberi, accarezza la superfice dell'acqua, fa sì che i miei sensi tornino a lasciarsi stordire da un profumo che sa di bucato steso all'aperto e shampoo per bambini.

–L'ho voluto fare anch'io. – parla ancora.

–Volare via?

–Anche. Ma non solo. Diventare un acchiappatore nella segale. Credo di esserci anche riuscito. Ho acchiappato dei bambini. Io credo di aver salvato dal dirupo mia sorella, per esempio.

Mi immagino la scena. Holden su un dirupo, un campo di segale di fronte a sé, una bambina piccola dai capelli biondi e con una voglia a forma di cuore su una guancia, che corre verso di lui, spaventata. Una donna dai lunghi capelli neri che le svolazzano attorno al viso, coprendole le guance bagnate di lacrime. La incita a scappare, a correre, a non fermarsi mai. Corri, Phoebe. Corri, non fermarti. Delle mani fatte di fumo la stringono possessivi per i fianchi fasciati da un abito bianco. La sua bocca è distorta dal dolore.

Chiudo gli occhi. Fa male immaginare certe cose.

–Ma è troppo grande il peso di acchiappare una bambina quando lo sei ancora tu, un bambino. Quando sei un bambino a cui vengono dette parole sporche ogni giorno. Nessuno ha acchiappato te. – mormoro. – Tu sei caduto da quel dirupo. Poi lo hai scalato a mani nude. Con i palmi pieni di tagli, le braccia stanche e il cuore rotto tu lo hai scalato e sei tornato a prendere al volo Phoebe che ora immagino come una piccola signorinella, e la tua bellissima mamma che... spero stia bene.

–Stanno bene tutte e due, grazie. – sento il suo sguardo sul mio viso. Non apro gli occhi. – Hai ragione, sai? – riprende. – Sono caduto da quel dirupo. Tante volte. Ti sbagli, però, su una cosa. Nella mia vita ho avuto la fortuna di trovare diversi acchiappatori nella segale, Kathleen. Tu sei stata il mio acchiappatore nella segale più speciale, per esempio.

Provo una fitta all'altezza del petto. Eccolo qui, l'Holden sleale. Quello che mi dice frasi che tagliano più di una lama. È tornato. Mi illudevo che non lo avrebbe fatto.

–Ma non è stato sufficiente. – gli dico.

–Questo perché in me mancava ancora la volontà di non cadere da quel dirupo.

Riapro gli occhi. Guardo il suo viso. I suoi capelli. I suoi occhi chiari.

–Ho voluto credere che mi fosse propria. Sono stato bravissimo con le parole. Ho sempre costruito frasi bellissime che ho rivolto a me, a te, a chi mi voleva bene. Ci credevo... ma non le avevo ancora... fagocitate e fatte mie. Non erano il mio sostentamento principale. Sono stato un burattinaio di parole vuote, proprio come mi definisti tu... quel giorno. Ho lasciato allora che qualcuno mi accompagnasse con dolcezza verso quel dirupo, ancora una volta. Ho rifiutato chi voleva acchiapparmi e mi sono lasciato andare.

–Perché?

–Perché era facile abbandonarmi a qualcosa che già conoscevo. Ti fa male, ma conosci quel dolore e preferisci affrontarlo di nuovo per il timore di viverne un altro, nuovo, diverso.

Vorrei andarmene. Proprio adesso. Mi fanno male le sue parole. Il cuore mi batte troppo veloce, la testa è un groviglio di domande e la mia anima si è nascosta chissà dove. Forse è andata a cercare la sua. Di nuovo. Lo fa di riflesso. Gli si è attaccata diversi anni fa e ora se ne sente di nuovo attratta, dipendente in qualche modo.

–E ora? – domando. Parlo a bassa voce. Mi sento stanca.

–Ora cammino a occhi chiusi su un filo da equilibrista. Allargo le braccia, visiono ogni meta con la mente, e la raggiungo a testa alta. So di poterla raggiungere. So di possedere delle lunghe e grandi ali che mi solleveranno in ogni luogo e in ogni tempo. Mi faranno volare oltre ogni dirupo. So chi sono.

Me lo immagino ancora una volta. Lui, come la mia Aria.

–Perché siamo qui, Holden?

–Perché volevo vedere cosa succede alle anatre, Kathleen. Anche se il lago non è ghiacciato. – abbassa la voce.

Non mi basta. Non mi basta lasciare che certe sue confessioni prendano a scorrermi dentro e a riempire dei vuoti. Non mi basta. Sono passati anni. È tutto fin troppo assurdo. Sono vuoti troppo grandi.

–Perché siamo qui, in questo momento, da soli? Perché siamo entrambi a New York? Perché sei tornato nella mia vita?

–Perché tu non te ne sei mai andata dalla mia. – parla in fretta. Ogni parola esce fuori frettolosa, pronta sulla punta della sua lingua da chissà quanto tempo.

Qualcosa si accende. La mia rabbia. È sbagliato. Tutto. Central Park. Holden Morris. L'acchiappatore nella segale. Le anatre. Il dirupo. La tragicità delle anatre che volano via. L'assenza di volontà. Il dirupo. Le anatre. Il tempo. Le lancette. La metamorfosi.

–Non osare, Holden. – chiudo le mani. Le unghie mi pizzicano i palmi. – Tu non puoi tornare dopo quattro anni, invadere nuovamente i miei pensieri, nasconderti dietro un cognome che non ti appartiene, portarmi davanti a un lago e dirmi che sono stata il tuo acchiappatore nella segale speciale. Tu mi hai lasciata. Tu sei partito con un'altra persona. Sei tornato dopo due anni, mi hai vista da lontano e non hai fatto niente. Tu hai creduto che mi piacesse un ragazzo che non eri tu. Tu... – mi fermo. Mi lascio animare dalla rabbia.

Il suo sguardo non vacilla. Rimane con gli occhi fissi nei miei. Mi ascolta. Lo guardo ancora. Per bene. È più grande, Holden. Ha il viso più adulto, dei lineamenti più marcati, un'espressività diversa negli occhi. I capelli nerissimi. Tante ciglia. Le lentiggini. Gli zigomi alti. La bella pelle. È Holden. Non è lui.

Non parla.

–Perché sei qui? – ripeto. Lo imploro, forse.

Qui, di fronte a me in questo momento. Qui, a New York. Qui, nella mia vita.

–Perché quando ero piccolo, quando la maestra ci chiedeva di scrivere un tema sulle nostre vacanze estive, io raccontavo sempre di un viaggio a New York. Ricordi? Nell'attesa di essere spinto di nuovo dal dirupo, mi perdevo nella mia stramba fantasia. Parlavo della Statua della Libertà, degli scoiattoli a Central Park, e di una piccola libreria che si trovava a Broadway, gestita da una signora che nella mia mente aveva il nome di Corinne. Dopo la laurea, sapevo chi ero e cosa volevo diventare. Sapevo di voler venire qui. Ho trovato lavoro in una scuola elementare, ho scritto un libro, ho poi cercato su internet se esistessero davvero delle librerie gestite da signore dal nome Corinne... e l'ho trovata. È stato bizzarro.

–Come bizzarro è stata la tua scelta di parlare di una bambina che si chiama Fanny L., e di un bambino che si chiama Peter. Di descrivere una storia che assomiglia alla tua, alla mia, alla nostra. Di parlare di intreccio di particelle distanti. Di chiamarti John Foster. Come hai osato, Holden? – ripeto.

Un altro lampo rischiara il cielo. Da lontano vedo come quelle poche persone che ci facessero compagnia si affrettino ad andarsene.

–Ho osato, Kathleen. Ho fatto quello che sentivo di voler fare, senza avere la pretesa che la vita mi permettesse di rivederti. – parla con calma. Non si lascia animare da quello che sento mi sta graffiando dentro.

–Quindi hai agito, ancora una volta, codardamente, vero? – le mie pupille vagano nelle sue. – Hai pensato di poter scrivere un libro così... stupido, di firmarlo con il mio cognome e di... far finta di nulla? D'altronde ti è venuto bene far finta di nulla per tanto tempo. Non darmi risposte, andartene, dirmi che era stato un onore per te amarmi, laurearti senza di me... – mi alzo in piedi.

–Il mio libro non è stupido. – si irrigidisce. Una reazione diversa, finalmente. – Fanny è una mia appendice e quello che ho raccontato tramite lei è molto importante per me.

–Quindi non è stupida quella teoria dell'Entanglement? – lo provoco. Voglio ferirlo.

Si alza a sua volta. Mi sovrasta con la sua altezza.

–No, non lo è.

–Lo è. Non esiste un'azione fantasma a distanza. La vita va avanti e ogni scelta ha il suo costo. Fanny L. ha preso la sua decisione. Ha lasciato andare Peter.

–Lo hai letto il libro, Kathleen? O ti sei limitata a focalizzarti sulla stupidità dell'Entanglement? – adesso è infastidito.

–Ho letto di una ragazzina che lascia andare il suo migliore amico perché è troppo codarda e cieca per capire che quello che hanno costruito insieme vale più di ogni dubbio o ricordo.

–Ma tu che ne sai? Tu non ci hai provato nemmeno a capire perché lei lo abbia fatto. – fa un passo verso di me.

–Perché nemmeno lei ha trovato il coraggio di spiegarlo a Peter, forse. – mi avvicino a mia volta.

In realtà Fanny lo ha trovato questo coraggio. Al termine del libro, va a cercare Peter nel cortile della scuola. Lo trova seduto per terra, da solo, con un libro tra le mani. Gli si fa allora vicina e restano in silenzio. Poi è lei la prima a spezzarlo. Gli parla della matematica, delle mattonelle che dividevano la sua cameretta da quella di una stanzetta chiamata "la stanza dei ragni". Una stanza nera, buia, piena di ragnatele pronte ad intrappolare ogni farfalla. Gli dice che l'amicizia che le ha dato Peter ha spazzato via la maggior parte di quelle ragnatele, ma che ne restavano ancora alcune che doveva essere lei, solo lei, a distruggere.

–Fanny... – si ferma.

–Fanny non sei tu. Non sono io. I nostri personaggi sono solo dei nostri riflessi, più coraggiosi e felici, molte volte. Ma non siamo noi. Io sono Kathleen. Tu sei Holden.

–Lo so.

Holden mi guarda un'ultima volta negli occhi, poi china il capo e sospira. Smette di rispondere alla mia strategia.

–Io non sono venuto qui per litigare con te. – asserisce.

–E per cosa sei venuto? Per dimostrarmi che la tua vita sia andata avanti senza di me? Che ora fai il maestro, che sei adorato da tanti bambini, che piaci alle donne adulte e che puoi tornare a parlarmi di anatre e dirupi come nulla fosse? – mi acciglio.

–Sono qui perché ti ho ritrovata e non pensavo che sarebbe mai successo. Sono qui perché mi sono arreso all'idea che per quanti sforzi potrò mai fare, tu mi piacerai per sempre. Potrò anche convincermi che nelle braccia di un altro tu possa essere più felice ed essere cosciente che non abbia più alcuna autorità per reclamare le tue attenzioni, ma la verità è che ti guardo e mi piaci. – solleva gli occhi e li riporta nei miei.

Ammutolisco. Dei fulmini graffiano il cielo che, ferito, prende a far cadere delle lacrime.

–Non abbiamo più diciassette anni. Ne abbiamo ventitré e la vita non è un romanzo per bambini in cui basta chiedersi scusa e stringersi la mano perché tutto torni come prima. La vita è rimanere impantanati in questioni in sospeso che non si ha il coraggio di risolvere.

–Io ce l'ho questo coraggio. – il suo giubbotto prende a bagnarsi, così come i suoi occhiali e i suoi capelli. – Ho il coraggio di dirti che anche se ho ventitré anni, mi piaci Kathleen e che mi piacerai sempre, anche quando ne avrò cinquanta, sessanta, settanta... cento. Che ho creduto di farti del bene, pur sapendo di farmi del male, lasciando che qualcun altro ti desse quella libertà di cui ero privo perché ancora inconsciamente attratto da quel dirupo che mi è sempre stato di fronte. Ti ho lasciata volare via da me perché meritavi una felicità che non credevo di poterti più dare. Perché, sì, hai ragione, sono un vigliacco e ho creduto che avrei vissuto un dolore troppo forte se fossi stata tu a lasciarmi volare via.

I secondi passano, la pioggia si fa via via più insistente. L'acqua mi appiccica i vestiti addosso.

–Mi hai lasciata perché non ti rendevo più felice, invece. Perché non ti guardavo più come facevo prima. – gli ricordo. Lo ricordo a me stessa. Alzo la voce, lascio che ogni mio lineamento si accartocci e gli faccia capire quanta rabbia, quanta tristezza, abbia represso per così tanto tempo.

–Balle. – con il dorso della mano si asciuga le labbra e le guance. Poi si sfila gli occhiali. – Era facile abbandonarmi all'idea che i tuoi sguardi fossero diversi, Kathleen. Appigliarmi al fatto che fossi così simile a un altro con cui ti vedevo sempre sorridente. Appigliarmi all'idea che tu non mi rendessi felice. Era facile dirtelo e sapere che tu mi avresti creduto e saresti andata a prenderti quella felicità che volevo ti fosse propria. La verità è che mi faceva male starti accanto perché ero geloso e stupido e fragile e ferito, ma non c'è mai stato un momento in cui non abbia pensato che anche semplicemente guardarti mi rendesse felice. Mi bastava guardarti sorridere per essere il ragazzo più felice sulla Terra.

Stringo forte gli occhi. Lascio che la pioggia attutisca il rimbombo del mio cuore e che nasconda delle lacrime. È tutto così sbagliato. Tutto così assurdo. Sono passati anni. Noi abbiamo perso la nostra sincronia. D'improvviso non siamo più stati sincronizzati. Binari diversi, carrozze diverse. Non si può fare più nulla. Perché siamo qui adesso? Rivedo la Kat che corre via da quel corridoio di pietra. Piange, ha il cuore a pezzi perché l'amore della sua vita l'ha lasciata. Scappa come quella principessa protagonista di quella storia che proprio il suo grande amore aveva inventato una volta. Le tenebre avevano vinto. È tutto sbagliato. Ricorda, Beatrice, c'è una morale: ingannarlo va bene, ma mai cedere al perdente male.

I pensieri straripano dai cassetti della mia mente. Si intrecciano e mi fanno girare la testa.

Perché sembra passato solo un giorno? Sono passati anni.

–Tu mi hai costretto a dirti che a me piacesse un altro, lo sai? – alzo la voce. – Violet... era lei quella che poteva renderti felice. Me lo ha detto. Mi ha detto tante cose. Tu sei partito con lei. – butto fuori ogni traccia di veleno che è rimasto a corrodermi il cuore per anni.

Scuote la testa. Chiude gli occhi, poi li riapre. – Violet si è solo creata delle illusioni, mostrandomele e invitandomi ad accettarle perché era più facile per entrambi lasciare che superassero la realtà. Violet ha capito solo con il tempo che non ci stavamo facendo del bene. Che per lei non avrei mai potuto provare nulla di più di quello che le davo. Amicizia e stima e... basta. Lei non ha trovato nemmeno il coraggio di laurearsi a Princeton. Il suo cuore ha sofferto per colpa mia e il mio ha sofferto per colpa sua. Ho tanto sofferto per colpa del suo egoismo e della sua fragilità. Per colpa del mio egoismo e della mia fragilità.

Le sue parole mi cadono addosso come macigni. Ne sento tutto il peso. Sono stanca.

–È tutto sbagliato, lo capisci? Sono passati anni, stiamo tirando fuori cose che avremmo dovuto dirci tempo fa. È troppo tardi. Noi non siamo bambini. Non più. Sarà meglio che torni dalle tue anatre, Holden.

La pioggia rende la mia vista appannata, ma non abbastanza da impedirmi di allontanarmi. Da lui. Dal suo dolore. Dal mio. È tutto troppo pesante. Gli do le spalle e comincio a prendere le distanze da questa situazione fin troppo irreale. Un passo. Poi un altro ancora. È finita. È finito tutto. Il mio cuore è leggero. È finita. Un passo. Poi un altro. È finito tutto.

Ma tutto si arresta di colpo. Delle braccia si stringono attorno alle mie. Mi scontro contro il suo petto. Le ciocche bagnate dei suoi capelli mi sfiorano l'orecchio destro.

–Lasciami. – gli ordino.

–L'ho già fatto una volta. Non voglio più farlo. – mi stringe.

–Adesso sono io che non voglio che tu mi trattenga. Io vivo con Andy, Holden. L'ho amato, sai? Sono uscita con diversi ragazzi e ho tanti corteggiatori. Lasciami.

Lasciami. Lasciami. Lasciami.

–Andy mi ha parlato. – dice.

–E che ti ha detto? Che non ti ho mai dimenticato? Che ti amo ancora dopo tutti questi anni? Che tutto può tornare come prima? È uno stupido anche lui se crede a queste sciocchezze. – tiro fuori il peggio di me.

–Sì, Kathleen, mi ha detto che la vita può essere una favola. Che sua nonna gli avrebbe detto così. È un bravo ragazzo lui, sai? – ha la voce incrinata.

–È solo un illuso. Lo è diventato da quando scriviamo libri per bambini. Lasciami. – ma anch'io non mi muovo. Rimango ferma. Chiudo gli occhi.

–Mi piaci, Kathleen. – intensifica la sua stretta. Le dita delle sue mani si intrecciano sopra i dorsi delle mie.

–Ti stai lasciando condizionare dal passato. – mi tremano le labbra. – Ti stai lasciando condizionare dal fatto di avermi rivista. Se non fosse successo, ora staremmo conducendo le nostre vite come abbiamo imparato a fare da quando abbiamo rotto. È tutto sbagliato. Tu te ne sei andato. C'era Violet. Lei può renderti felice. Tu e lei siete così simili. – torno a ripetere frasi del passato. Non controllo la mia mente.

–Lei non è te. Non lo è mai stata. Non lo sarà mai. Non l'ho mai amata e non è mai stata simile a me. Eri tu quella simile a me. Anche se odiavi la matematica e avevi più cose in comune con un altro. Tu mi amavi per quello che ero e non per un'immagine che ti eri fatta nella tua testa. Tu mi amavi per quello che ero. Per quello che ero.

Tremo. Non dico niente.

–Mi saresti piaciuta anche se non ti avessi rivista. Non hai mai smesso di piacermi. Neanche quando il mio cervello insisteva che potessi riuscirci. Mi piaci, Kathleen. Sei sempre stata tu. Solo tu. Con i tuoi sorrisi, il tuo profumo che ho continuato a sentire in tutto questo tempo, con le tue carezze, e il tuo amore reale. Con le tue ali da fatina, i tuoi sorrisi dolcissimi, le tue storie che sanno di filosofia e di magia. Mi piaci, Kathleen. Mi piaci come a un ragazzo piace una ragazza. Mi piaci. Mi piaci. Mi piaci.

Le lancette. Tic Tac. Il pesce che non sa nuotare nell'oceano. La mia prima volta. Il concerto. L'equilibrio. Il filo è solo un pretesto. Vola, Aria. Devo distruggerle io quelle ragnatele, Peter. Mi piaci, Kathleen. La sua stanza. Le mattonelle. Trentacinque mattonelle. Il dirupo. Le urla. Sei un mostro. Mi piaci, Holden. Corpo, mente, anima. Ti amo, ti amo, ti amo.

–Smettila. Lasciami. Ti prego, lasciami...– abbasso la guardia. Ho freddo, sono bagnata, sono stanca, sono svuotata.

Qualcosa nella mia voce deve colpirlo in modo inaspettato, perché la sua stretta si allenta. Mi ascolta. Mi lascia andare.

–Scusami, hai ragione. – dice. – Non so cosa mi sia preso. Mi sono fatto ancora una volta accecare da un'illusione. Hai ragione. Ogni scelta ha il suo prezzo e io devo pagare il mio. Farlo ancora, finché il mio cuore non troverò la sua pace. Perdonami, Kathleen. Scusami. Sono sempre stato così impacciato nell'amore. Perdonami. Per tutto. Ti ho fatto male. Scusami se puoi. – parla velocemente. Si mangia le parole. Le balbetta come non era mai successo.

Lui non balbetta. Lui è quello che sa manipolare le parole. Lui odia i silenzi. Lui e la parola sono una cosa sola. Lui non balbetta.

Si fa lontano. Lo sento. È finita davvero, questa volta. È stato tutto risolto. Niente più 'perché' lasciati al vento.

Mi volto. Mi dà le spalle. Non si muove, però.

–Perché hai scelto di fare il maestro? – gli domando. Lo trattengo anche se l'ho allontanato. – Volevi diventare un professore universitario. Hai fatto dei corsi sperimentali, te ne sei andato, hai conosciuto pezzi grossi del mondo accademico e poi... sei venuto a New York a fare il maestro.

Lui sussulta. Lo vedo dal movimento che fanno le sue spalle.

–Il mio essere maestro vale migliaia di volte l'essere un professore che pensa a tutto fuorché a lasciare un segno nelle menti a cui si rivolge. Stare con i bambini mi è sempre piaciuto. La loro fame di conoscenza vale più di quelle di pomposi aridi che occupano cattedre importanti. Io non sono fatto per certi ambienti. Chi lo dice, poi, che un'ambizione valga più di un'altra?

–Ho sempre pensato che tu potessi raggiungere alte vette. – parlo ancora. Mi contraddico. Cedo all'irrazionalità.

Si volta. Torna a guardarmi.

–Insegno a dei bambini che la matematica sia magia. La matematica è stata una dei miei acchiappatori nella segale. Mi ha aiutato quando ero un bambino. Ora posso essere io ad aiutarne altri. La mia vetta l'ho già raggiunta. È più alta di quella che immaginavo avrei mai scalato.

Resto in silenzio.

–Ti accompagno a prendere un taxi. Ti ho portato io qui. Non posso lasciarti andare in queste condizioni. Lo aspetteremo insieme, poi me ne andrò e giuro che anche se la vita dovesse mettermi davanti anche solo un'altra volta la possibilità di starti accanto, la respingerò.

Le sento chiaramente le lacrime scendermi lungo le guance. Sono calde. La pioggia è fredda.

–Quindi finisce così. Di nuovo. Finisce tutto per sempre. – ne prendo atto, ancora una volta.

–Tu vuoi che finisca così, Kathleen? – mi guarda.

Sì.

No.

–Tu cosa vuoi? Cosa vuoi da me? Vuoi il mio perdono e poi sarà tutto finito?

–Te, Kathleen. Voglio te. Il tuo perdono e ogni tua singola parte. Rivoglio te. Rivoglio la felicità che solo tu eri in grado di darmi.

–Io voglio solo tornare indietro nel tempo, invece. – ribatto. Mi sento furente. – Tornare a quel maledetto giorno in cui hai lasciato che non fossi più io ad acchiapparti nella segale. Voglio che nella mia mente ci siano delle immagini che ci vedano vicini il secondo, il terzo e l'ultimo anno di college. Voglio vederci vicini, con le toghe e le pergamene. Voglio vederci insieme in un monolocale a New York. Io che mi congratulo per i tuoi successi e tu che ti congratuli per i miei. Che i nostri libri siano vicini in una grande libreria che troneggia in salotto e che ogni sera litighiamo su quale film vedere perché tu ne vuoi vedere uno francese, ma io non ci capisco niente di cinema e preferirei vedere una commedia insensata. Io voglio che il tempo si possa riavvolgere e che sia solo un sogno il nostro esserci divisi.

Le sue spalle tremano. Sussulta, di nuovo.

–Non ho questo potere. Io...

–Torni a ripetermelo. – lo fermo. – Che non hai poteri.

–Te lo ripeto. Ma in chiave diversa. Non ho il potere di riavvolgere il nastro, di tornare indietro nel tempo e strigliare il vecchio me che stava ricadendo dal dirupo e che si convinceva che non potesse più darti la felicità che credeva tu meritassi. Però ho il potere di tornare a credere e distruggere definitivamente quel Nulla che ho permesso prendesse il sopravvento. Ho il potere di dirti che farò ciò che mi chiederai perché tu sei quella ragazzina che mi ha rubato il cuore, lo ha trafitto e poi se n'è presa cura come nessuna riuscirà mai a fare. Tu sei Kathleen Foster, la ragazza che ha prestato il secondo nome alla mia Fanny.

–Fanny L.

–Fanny Leen.

I vestiti mi pesano addosso. L'acqua frena i miei movimenti. Ma non li blocca. Il cuore e il cervello si alleano e mi danno la forza di raggiungerlo, di stringermi a Holden Morris, il grande amore della mia vita. Circondo il suo collo con le mie braccia e cerco i suoi occhi. Lo voglio. Voglio lui. Anche se sono arrabbiata, triste e stanca. Voglio lui. Solo lui.

Lui mi tiene vicina, con le sopracciglia sparate verso l'alto, pronte a dargli ancora una volta un'espressione sorpresa.

–Fanny Leen. – ripeto.

–Fanny Leen. – conferma.

–Sei diventato un maestro, Holden. – gli fisso le labbra.

–Sei diventata una scrittrice. – fissa le mie.

–Hai trovato davvero una libreria newyorkese gestita da una signora che si chiama Corinne. Quante probabilità c'erano?

–Vuoi che ti insegni il calcolo delle probabilità? – sorride.

Un sorriso vero, sentito. Lo rivolge a me, adesso. Non alla Kat del suo passato.

–Voglio che mi baci.

–Temo di essermi dimenticato come si fa. Non lo faccio da tanto, troppo, tempo.

–Davvero? E tutte le quarantenni che ti guardano languidamente?

–C'è sempre stata una sola donna che abbia mai voluto baciare. Ha molto meno di quarant'anni.

–Ora puoi baciarla.

–E se non sapessi più come si fa?

–Allora dovrai affidarti alle mie ripetizioni, questa volta.

Trovo le sue labbra già dischiuse quando le mie le cercano con una brama che rischia di farmi male. Holden mi tira su, sorreggendomi per le cosce e stringendomi forte. È un bugiardo. Ricorda bene come si bacia una ragazza. Come baciare me. La mia bocca ha memoria della sua. Riconosco la sua morbidezza, la sua gentilezza, il calore delle sue labbra, della sua lingua. Mi passa le dita nei capelli. Sospiriamo nello stesso momento. Torno a respirare a pieni polmoni. Il cuore torna a battere a un ritmo perfetto. La pioggia ci investe e ci allontana dal mondo. Ci copre dalle luci, dai chiacchiericci scadenti, dei rumori assordanti. Mi bacia. Mi bacia. Mi bacia. Non mi permette di allontanarmi. Cerca continuamente la mia bocca. Mi tiene ferma e risponde a ogni mia attenzione con una passione che mi era mancata. Il cuore mi trema nel petto. Torniamo indietro nel tempo. Di nuovo. Al nostro primo bacio. Provo la stessa magia di quella volta, quando avevamo diciassette anni e le sue erano le uniche labbra che avessi mai baciato.

Mi stringe forte e gira su sé stesso, facendo girare anche me che gli sono spalmata addosso. È un gesto che ha il sapore della libertà. Quella che si fagocita e si fa propria. Non è più temporanea e intermittente. È la libertà eterna.

–Mi puoi davvero perdonare, Kathleen? Posso davvero tornare ad avere l'onore di amarti? – ora è il suo turno di implorarmi.

–Hai mai smesso di amarmi?

–Mai. Tu sei sempre stata dentro di me.

–Posso. Puoi.

Suggello queste consapevolezze con un ultimo bacio. Mi basta. Per il momento.

Poi mi rimette giù, stringe le sue dita alle mie, sorride e ritorniamo a correre. Non so neanch'io come, ma ci ritroviamo in un taxi. Succede tutto in fretta. Vedo la sua bocca muoversi nella direzione del conducente, ma non ascolto alcun suono. Non ascolto più nulla, se non il battito del mio cuore. Fisso Holden Morris. Il dirupo e le anatre. Le sue trappole. La sua Fanny Leen. Il mio Holden.

Ci fermiamo a un semaforo. Ci basta guardarci negli occhi. Poi ci soffiamo contro, sotto le occhiate confuse dell'autista. Holden solleva pollice, indice e medio e il rosso diventa verde. Scoppio a ridere e lui mi stringe di nuovo tra le sue braccia.

Scendiamo dopo altri tre semafori. Non so nemmeno io dove mi trovo. Osservo un palazzo di mattoni rossi, delle strade, il traffico. Ma non mi importa di niente. Voglio solo il mio Holden.

–Vivi qui? – chiedo.

–Sì, ho un monolocale al terzo piano. Scusa... forse avrei dovuto chiederti prima dove ti stessi portando. Se vuoi chiamiamo un altro taxi e...

Mi avvento sulla sua bocca, fermandolo. – Voglio stare con te. Non importa dove.

Sorride, poi mi spinge con delicatezza all'interno della struttura. Ricerca le mie labbra, poi chiama l'ascensore. Prego che salga con lentezza mentre la mia bocca si perde nella sua. Voglio rimanergli accanto, baciarlo fino a quando non mi sentirò male, stringerlo e convincermi così che non sia davvero un sogno quello che sto vivendo. Pesca con fatica le chiavi del suo appartamento, poi apre la porta e senza accendere le luci mi trascina ancora verso di sé.

Mi bacia il collo, inspira la mia pelle, le sue mani vagano su di me, come per accertarsi che sia reale. Gli sfilo gli occhiali, sospiro e mi lascio andare. Stacco i pensieri. Allontano ogni dolore e lascio che le mie mani tornino a sfiorare i suoi contorni. Mi prende in braccio e mi porta da qualche parte. Presumo nella sua camera, ma si ferma in un bagno.

–Non è la stanza giusta, maestro. – gli dico. Mi inumidisco le labbra, godendo nel vedere i suoi occhi seguire i miei movimenti.

–Dobbiamo asciugarci, scrittrice. – mi si fa vicino. Circonda il mio collo con un asciugamano, tirandomi verso di sé. Mi asciuga i capelli, poi mi bacia la fronte.

Lo abbraccio di slancio. Mi stringe forte. Inspiro il suo profumo.

Poi solleva la sua mano. Il palmo aperto verso di me. Lo fisso e di istinto appoggio il mio sul suo. Le nostre dita che si intrecciano. Lui le guarda.

–Sei tu. Sei davvero tu. – parla a sé stesso.

–Non sono un fantasma. – lo rassicuro. – Non lo sei più nemmeno tu.

Sorride e mi avvicina di nuovo al suo petto. Ci affrettiamo poi a sfilarci i vestiti bagnati. Io mi avvento sui suoi. Lui fa lo stesso con i miei. Un capo alla volta, torna a mostrami la sua pelle pallida, la sua voglia sul fianco, le sue clavicole, il suo addome, le sue braccia, le sue gambe. Le mie che tornano ad aggrapparsi ai suoi fianchi quando i nostri corpi si chiamano, cedendo a un'attrazione soffocata sotto strati di paure e illusioni.

Troviamo la stanza giusta dopo pochi altri minuti. Non mi do il tempo di osservarmi attorno, di dare un'occhiata a quello che mi circonda. A come abbia arredato la stanza, se abbia delle foto, se le pareti parlino di lui. C'è il suo profumo nell'aria. Avrò modo di perlustrare ogni angolo in un altro momento, lo so. Adesso voglio solo perlustrare il suo corpo. Sentire che sia davvero tornato da me. Che sia tornato a essere mio. Lascio che il mio corpo si riabitui ai suoi tocchi, alle sue dita, alla sua bocca. Gli dimostro che sono cresciuta anch'io, che sono padrona del mio corpo, dei miei gesti e della mia volontà. Nelle pareti riecheggiano i nostri sospiri, il suono dei nostri movimenti, dei nostri desideri. Chiudo gli occhi quando mi accorgo che per il mio corpo è come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando si è plasmato con il suo. Ogni angolo è animato da quella memoria muscolare che porta il mio corpo a sentire ogni sensazione in modo amplificato.

–Sei sempre la più bella, Kathleen. – mormora al mio orecchio. – Non c'è stato un giorno in cui non ti abbia rivista nella mia testa. – mi stringe un fianco. – Sei sempre stata la più bella.

Ribalto la situazione. Sono sopra di lui. Lo guardo negli occhi. – Non abbiamo finito di parlare io e te, lo sai? – mi avvicino al suo viso.

–Puoi fare con me e di me ciò che desideri. – sorride, poi si morde le labbra. – Magari però le parole le lasciamo per dopo. Che dici? – le sue braccia mi stringono, avvicinando il mio viso al suo.

–Per uno che temeva di non ricordarsi come si baci una ragazza, mi sembri fin troppo certo che non sarebbe meglio chiacchierare. – mi diverto.

–Per certe cose è come andare in bicicletta. Non si scorda mai come si fa.

–Sicuro che ti ricordi tutto?

–Abbastanza. Ma sei vuoi una dimostrazione...

–Ne voglio una. – torno a cercare le sue labbra.

Lo fa. Mi dimostra che certe cose non si dimentichino davvero mai. Mi bacia. Mi stringe. Costringe i miei occhi a chiudersi. Mi travolge con il suo corpo e con il suo cuore.

***

Sono dei tocchi leggeri a svegliarmi.

Dei tocchi sulla fronte, sugli zigomi, sulle labbra.

Apro pian piano gli occhi. Affondano in un paio grigio che ventiquattro ore fa non pensavo avrei mai più rivisto. Non soprattutto in una situazione nella quale siamo avvolti solo da un lenzuolo, in una stanza in penombra, bagnata dai primi raggi dell'alba.

–Scusa, non volevo svegliarti. – mi fissa. Chissà da quanto lo sta facendo.

–Allora torno a dormire.

–Non ci provare.

Mi avvicina a sé. Accetto le sue mani sul mio corpo. È tutto così naturale che quasi mi arrabbio con me stessa. Vorrei che i nostri corpi non fossero così intimi e spontanei. Sarebbe un modo per fargliela pagare e un po' anche per farla pagare a me stessa.

–Sei davvero qui, Kathleen?

–Dipende. Tu sei davvero qui?

–Immagino di sì.

–Lo immagino anch'io.

Gli passo le dita nei capelli. Chiude gli occhi sotto le mie mani. Le sue finiscono sulle mie guance. Poi torna a cercare il mio sguardo. Ci guardiamo. E basta. È strano. Non ero più abituata a sentire il peso dei suoi occhi su di me. A sentire nelle orecchie delle parole anche se attorno c'è solo silenzio.

–Ci ho messo quattro anni per conquistarti. Ne ho impiegati altri quattro per ritrovarti. – è il primo a rompertelo.

–Perché, Holden? Perché mi lasciasti andare? Perché lasciasti che l'Holden che aveva fatto di tutto per conquistarmi... cadesse in un dirupo? – torno a chiedergli.

Voglio sviscerarlo questo 'perché'. Me lo merito. Se lo merita la Kat di diciotto anni che corse via da lui, con il cuore a pezzi, sentendo il mondo caderle addosso.

–Perché l'insicurezza è come una spugna, Kathleen. Beve, beve, beve. Si nutre di gocce di angoscia, di paura, di illusioni cupe e poi diventa pesante come un macigno. Fa affondare tutto. Perché ero solo un ragazzino che giocava a fare l'adulto, forse.

–A me quel ragazzino piaceva.

–A me non abbastanza.

–Ieri mi hai detto che è più facile abbandonarsi a un vecchio dolore che accettarne uno nuovo. Il tuo amore per me aveva davvero preso a farti così male?

Le sue dita finiscono dietro le mie orecchie. Mi sistema delle ciocche che mi sfiorano gli zigomi. Gli è sempre piaciuto farlo. Sistemarmi i capelli dietro le orecchie. Sembra che in qualche modo lo tranquillizzi farlo. Come se le sue dita con questo movimento dissipassero la sua inquietudine.

–Ero geloso, Kathleen. Molto geloso. Prima di stare con te neanche sapevo cosa significasse essere geloso di una ragazza. Della propria ragazza. Avevo una ragazza. Avevo te che avevo sempre amato da lontano. Ero amato da te. Era già così tanto da concepire per uno a cui era stato dato del mostro per tutta la vita. – si ferma. Chiude gli occhi per una manciata di secondi. – Mi sentivo così confuso perché ti vedevo al mio fianco, ma anche al fianco di Andy. Ti vedevo così... libera quando eri con lui e io mi sentivo infastidito, ma anche inerme. E non sapevo esprimere quello che provassi. Tu sei stato il mio primo amore, lo sai. Il mio unico amore. Quando ti parlai la prima volta, l'ultimo anno, in palestra, non avevo considerato tutto il pacchetto.

–Il pacchetto? – gli accarezzo una guancia.

–Il pacchetto. Quello che prevedeva che tu mi avresti rifiutato, poi ti saresti dichiarata, che ci saremmo messi insieme, che tu mi avresti messo a soqquadro il cuore e che sarei stato geloso di te. Che avrei fatto l'amore con te e che ciò avrebbe significato diventare più vulnerabile agli occhi e ai gesti della gente. Ai miei occhi. Che la paura di perderti si sarebbe fatta così forte da spingermi a lasciarti andare di mia volontà.

–Quindi è questo il motivo principale per cui mi dicesti che non funzionassimo più, che tu non credessi più in noi, che dovessi stare con un altro?

–Il motivo principale è che sono stato uno stupido. Posso girarci intorno, ma la verità è che ho lasciato andare il mio tesoro più grande, condannandomi così a un susseguirsi di attimi di infelicità.

–Non sei stato felice... con Violet... in Germania? Io vi vedevo e mi sembravi...

–Come?

–Sereno. Ho sempre pensato che tu fossi tornato a essere felice grazie ai traguardi che stavi raggiungendo anche grazie a lei. Io... le ho creduto quando mi convinse che ti piaceva, che i tuoi fossero sensi di colpa, che avrei dovuto lasciarti andare.

Chiude gli occhi.

–Violet ha acchiappato sia me che te, Kathleen. Ci ha illusi di salvarci da un dirupo, perché ne aveva altri in serbo per noi.

–Tu l'hai amata?

–Mai. C'è stato un giorno, durante i primi mesi di Erasmus, in cui partecipammo a una festa. C'erano tanti ragazzi, tante coppie, c'erano solo dei fasci colorati a tagliare il buio, mi mancava l'aria. Ti pensavo più di quel che credevo avrei fatto standoti fisicamente lontano e la tristezza fa perdere i sensi più di quanto lo faccia sballarsi con degli alcolici. Fu in quella festa che lei... mi baciò e mise da parte quell'amicizia sincera dietro la quale mi ero convinto si nascondesse. Risposi al suo bacio, immaginandomi la tua bocca. Da lì, ho lasciato che prendesse piede una storia che serviva solo a ricordami cosa avessi scelto di fare.

–Siete stati insieme, quindi. – fatico a dirlo a voce alta.

–Stare insieme a qualcuno ha tanti significati. Le sono stato accanto, meglio. Lei teneva a me, ma... nel modo più possessivo in cui si possa tenere a qualcosa. Lei non teneva alla mia libertà, Kathleen.

–Devi aver sofferto. – mi perdo nei suoi occhi.

–Lo abbiamo fatto tutti. Il mio cuore non si è mai illuminato quando la vedevo.

–Le lucine di Natale. – non riesco a trattenere un sorriso.

–Già. Sei sempre stata l'unica a riuscire a farle attivare. L'unica con cui volessi soffiare contro i semafori. L'unica a cui pensavo quando di notte cercavo la tua stella nel cielo tedesco e anche in quello americano

–Avresti dovuto dirmelo! Non mi hai cercata, Holden. – torno seria. – Se non ci fossimo ritrovati a New York, non ci saremmo rivisti mai più. Avremmo preso strade diverse. Forse ci saremmo sposati con altre persone, avremmo avuto altre vite.

–Ma non è successo. Noi siamo qui. Tu hai trovato lavoro nella libreria della signora Corinne. Io ho sempre immaginato una libraia dal nome Corinne.

–Ma poteva non succedere. – insisto. – Perché l'ultimo anno di università non mi hai cercata, non ti sei fatto mai vicino? Perché hai lasciato che restassimo solo un ricordo?

–E con quale diritto avrei dovuto farlo? – qualcosa gli attraversa gli occhi. – Mi era stato detto che eri fidanzata con Andy. Che vi eravate messi insieme già da tempo. Con quale autorità avrei dovuto rischiare di rompere il tuo equilibrio dopo averti già rivolto frasi terribili anni prima? Dovevo cercarti e dirti: "Ciao, amore mio. Sono stato un idiota. Ti ho sempre amata! Ritorniamo insieme"?

–Sì, avresti dovuto farlo.

–E Andy?

Abbasso lo sguardo. Mi sento d'un tratto di nuovo immatura. Forse fa parte del pacchetto 'essere umani'.

Magari avevo ragione quando pensavo che non servisse un manuale per stare insieme a Holden. Ma la verità è che l'amore è anche questo. Un sentimento meravigliosamente umano e perciò complesso. Noi siamo meravigliosamente umani e perciò complessi.

Mi accarezza una guancia. – Ti vedevo da lontano, come avevo deciso di fare nel momento in cui avevo ritenuto giusto lasciarti andare. Mi bastava saperti felice. Mi è sempre bastato questo.

–Ti ho dato del codardo, Holden. Mi sono sbagliata, ancora una volta. – stringo le labbra. – Hai più coraggio di quel che credi. Hai sofferto anche tu, tanto.

–Mi sento solo stupido, ma forse credere che ci voglia del coraggio per abbandonarsi alle proprie fragilità lenisce un po' di dolori.

–Tu sei un leone, ricordi? – gli lascio altre carezze.

–Ricordo tutto ciò che ti riguardi. – ripete.

–Ho preso atto anche di una cosa. – gli dico. È bello poter uscire fuori tutte quelle parole che ho soffocato per tanto tempo.

–Di cosa?

–Pur avendo sempre riconosciuto il tuo valore, ho lasciato che l'idea che l'aiuto di una persona come Violet ti sarebbe stato utile prendesse il sopravvento. In realtà tu ti sei sempre bastato. Avevi e hai un cervello incredibile e credo di averlo... sottovalutato, senza nemmeno accorgermene.

Accenna un sorriso. – Mi è servito cadere in alcune illusioni, Kathleen. Tutto serve, in fondo. Ora credo in me. Sono il mio primo sostenitore e so di essere molto attraente. – un'espressione maliziosa gli colora i lineamenti.

–Ah beh, ricordo quelle volte in cui trovassi divertente sottolineare che effetto mi facessi.

–Quelle volte, quelle consapevolezze erano meno salde di quelle che ho ora. – mi si fa vicino.

–Ora ti vedi come ti ho sempre visto io da quando mi hai stregata? – gli tocco le spalle.

–Ora so che mi hai cercato in altri ragazzi da quando vivi qui.

–Ah sì? – evito il suo sguardo.

–Sì. – si abbassa per darmi un bacio sul collo.

–È stato quel pettegolo di Andy a spifferartelo, vero? Guarda se non è identico a quella ficcanaso di Kendra. – corruccio la fronte.

–Lui è un bravo ragazzo. – mi bacia una guancia.

–Lo dici sempre.

–Lo è. L'ho sempre pensato. Lui ti ha resa felice in questi anni? – scosta il suo viso dal mio. Mi guarda.

–Sì, Andy mi ha resa felice. Di una felicità diversa, però, da quella che mi davi tu.

–Diversa come?

Ci metto un po' a rispondere. Penso a Andy. A quello che abbiamo vissuto. Ai suoi sorrisi. Alla sua vicinanza di cui gli sarò sempre grata.

–Stare con lui è stato come ricevere costanti carezze calde in una giornata ghiacciata; di quelle che ti danno un senso di tepore che si spande lungo ogni arto. Ti scalda, non facendoti sentire più nemmeno un po' di freddo. Stare con te, invece, era... è il contrario. Come ricevere delle sferzate di freddo sulla pelle calda. Un freddo piacevole, però. Uno di quelli che ti fanno uscire dal tepore, facendoti semplicemente sentire viva. Ti fanno vedere il mondo da un'altra prospettiva. Tu sei stato come quel soffio di aria gelata che trova il modo di infiltrarsi tra gli spifferi di una finestra di una piccola stanza chiusa, calda, fin troppo calda. Una stanzetta nella quale è piacevole stare, in cui ci si fossilizza. Nelle proprie convinzioni, certezze, illusioni. Poi senti il soffio di freddo e sei costretta ad avvicinarti alla finestra; a vedere che le cose possono essere diverse.

–È una cosa bella?

–Non lo so. Tu se una 'x', Holden Morris. Un'incognita nella mia personale equazione. E io non sono brava in matematica, lo sai.

–Vorrà dire che la matematica mi ha fagocitato.

–Questo significa che continuerò a non capire come risolvere quelle volte in cui tornerai a sembrarmi un'incognita?

–Questo significa che sono un bravissimo maestro di matematica e che mi appartiene la chiave per non essere più un'incognita ai tuoi occhi. Sei tu la mia soluzione, Kathleen.

–Posso davvero fidarmi, Holden? Posso davvero credere che non succederà di nuovo? Che non perderai nuovamente la volontà di non abbandonarti a quel dirupo? O a delle illusioni? Che non dovrò accettare una felicità diversa da quella che sei sempre stato in grado di darmi solo tu?

Mi prende la mano e se la porta alle labbra. – Ti amo, Kathleen. Ti ho sempre amato e ti amerò per sempre. L'unico motivo per il quale potrei di nuovo allontanarmi da te è che sia tu a lasciarmi un giorno, per qualsiasi ragione riterrai opportuna.

–Sai che non lo potrei mai fare.

–E allora ti toccherà sorbire la mia presenza fino a quando avrò aria nei polmoni e un cuore funzionante.

–È una promessa?

Scuote la testa. – Non facciamoci più promesse, Kathleen. Guardiamoci semplicemente negli occhi, raccontiamoci senza più freni e amiamoci come più ci riesce, ogni secondo. Per te va bene?

Annuisco. – Qui e adesso?

–E non solo. Sostituiamo il 'hic et nunc' con una frase nuova: per aspera ad astra.

–Non ti capisco quando parli in latino, ricordi? È latino, vero?

Sorride. – Attraverso le asperità sino alle stelle. Miriamo alle stelle più fulgide, Kathleen. Il vecchio Holden voleva vivere solo nel presente. Adesso voglio pensare anche al futuro. Voglio costruire il mio futuro insieme a te... se tu me lo permetterai. Voglio tornare a essere il tuo Holden.

–A una condizione.

–Anche a mille condizioni. Ma la prima qual è?

–Che torni a chiamarmi come solo tu hai il diritto di fare.

–Leen.

–Non ho sentito.

–Leen. Leen. Leen. Leen. Le...

Interrompo questa catena con un bacio lunghissimo.

***

Passiamo il resto della giornata, una domenica, seduti al tavolo della sua cucina. Due tazze di caffè che perdono il loro calore una parola alla volta. Gli occhi negli occhi, la sua camicia a nascondere il mio corpo, il fascino della sua irresistibile purezza ad avvolgermi. Ci raccontiamo la vita, anno dopo anno. Il matrimonio di mia madre, l'adozione di Jonathan ad abbracciare il suo desiderio e quello di Bob, impossibilitato ad averne di suoi, di avere un figlio da poter accudire insieme. Le scappatelle della nonna con i suoi corteggiatori, il suo aver rivisto Benjamin, il suo primo amore, grazie ai social. L'aver risentito mio padre, quello biologico, il giorno della mia laurea. Vedere gli occhi di Holden sgranarsi al prenderne atto. Ho rivisto mio padre dopo anni. Ho ricevuto una sua telefonata. L'ho accettata. Ho guardato in un punto di fronte a me, e ho risposto ai suoi auguri per la mia laurea a testa alta. Grazie, James. No, non posso chiamarti papà. Sono felice, James. Sono completa, James. Auguro che anche tu possa completarti, un giorno.

–E io non ci sono stato. – abbassa lo sguardo. – Ho rotto tante di quelle promesse.

Cerco la sua mano. – Ci sei adesso.

–Ma...

–Ti amo, Holden. – è la mia risposta.

Mi bacia le dita – quanto mi era mancato. – e torna ad ascoltarmi. Ascolta di me e Jonathan, di Wolverine, il solito gatto cinefilo, ormai normopeso, di come sia diventata un'autrice per l'infanzia un rigo alla volta, grazie alla fiducia di chi ha voluto credere in me e in Andy. Poi torno a parlargli proprio di lui. Della nostra scelta di andare a convivere malgrado ci fossimo lasciati. Holden mi guarda sempre. Non cede mai alla tentazione di distrarsi. In alcuni momenti, come quello in cui gli parlo del mio amico, il suo corpo reagisce senza che forse neanche lui se ne accorga. Le sue dita hanno degli scatti quasi impercettibili. La consapevolezza di aver preso delle scelte che ci hanno portato su percorsi lontani deve martellargli il cervello. Non glielo permetto troppo. Gli faccio delle domande e mi prendo il mio momento di scrutarlo in ogni sfumatura. Come corruccia la fronte, come si morde le labbra con i suoi incisivi imperfetti, come si sfiora il mento con la punta dell'indice. Mi racconta del suo Erasmus, della Germania, di un'università dal nome complicato in cui si è costruito delle amicizie che mantiene ancora, seppur a distanza. Mi parla di un ambiente accademico che ha sentito gli fosse estraneo mese dopo mese.

–Non ero me stesso quando ero lì, attorniato da professori su cui gravavano premi ed etichette altisonanti, accerchiato da studenti peggiori di quelli di Princeton. Il protagonismo, la smania di dimostrare agli altri, e solo poi a sé stessi, di essere qualcuno. Ma 'qualcuno' chi, poi? Me ne sono accorto una mattina. Sono andato a lezione, Violet ad affiancarmi con l'aria di chi mentiva persino a sé stessa, mi sono guardato attorno, ho visto tanta gente, tanto... tutto, e mi sono accorto che io non volevo essere l'Holden che stavo diventando. Mi stavo inaridendo, Leen. Persino la matematica aveva perso il suo fascino.

Poi chiude il capitolo 'Violet' dicendomi di come lei abbia scelto di conseguire la laurea in Germania, ingabbiata in quelle illusioni che aveva fabbricato con fin troppo egoismo e di come lui l'abbia lasciata andare. Certe persone arrivano a convincersi di non dover reclamare alcun perdono, ma una parte di loro le spinge comunque a fare penitenza per i propri sbagli.

–L'ho lasciata nella Palude della Tristezza, Leen. Una palude che ha contribuito a costruire da sola.

–Hai letto La storia infinita. – gli angoli della mia bocca si tirano all'insù.

–L'ho letto e mi sono lasciata ispirare. È una storia nella storia, no? Proprio come Fanny L. alla ricerca della matematica. – mi fa un occhiolino.

–Mi spiace che lei ti abbia fatto soffrire. Avevi già sofferto a causa di persone che si sono finte tue amiche.

Fa spallucce. – Io e PJ siamo molto amici, anche se non gli ho voluto dare retta tante volte. Anche lui è stato un mio acchiappatore nella segale.

–Come Malia e Taylor. Come stanno? Io e Malia ci sentiamo troppo poco e nelle sue lettere ti è sempre stata fedele. Non si è mai scucita troppo su di te.

–Oh, stanno benissimo. Sono laureati, e felici.

Si perde in altri dettagli che li riguardano. Le loro storie d'amore, i loro tirocini, la vita che è andata avanti per tutti. Continua con il raccontarmi di Phoebe e sua mamma, con cui ho perso i contatti un po' alla volta. Di come Juliet abbia trovato l'affetto in un uomo che ha conosciuto in una casa per anziani dove ha preso a fare volontariato da un paio di anni; della piccola Phoebe che l'anno prossimo comincerà il liceo e per cui lui ha sempre molta apprensione. Gli brillano gli occhi quando parla di loro e mi rendo conto di quanto mi fosse mancato quel luccichio.

–Sei tornato a vedere... tuo padre? – gli chiedo poi.

–Nella mia mente? Sì, tante volte. Soprattutto quando Violet contribuiva a costruire un nuovo dirupo davanti ai miei occhi, frase dopo frase. – mi confessa. – L'ho visto tutte quelle volte in cui non mi sentivo abbastanza. Diventava la voce più importante nella mia testa, quella che mi conduceva verso la caduta. È per questo che, un giorno, ho accettato il consiglio di mia madre di chiedere aiuto alla psicologa che ha seguito Phoebe quando era molto piccola. Mio padre mi aveva lasciato addosso dei traumi dalla portata più profonda di quanto ne avessi preso atto. Come quando spazzi la cenere e la nascondi sotto il tappeto. La nascondi, ma sta sempre lì. Grazie alla dottoressa Kim ho imparato a tirar fuori ogni dolore. Ho cominciato a scrivere un diario e delle lettere. Ho scritto il mio libro. Ti ho scritto tante lettere, Leen. – parla con foga.

–Cosa?

–Migliaia di lettere. Ho scritto il tuo nome su ogni angolo di Oliver Twist, de Il giovane Holden e su tutti i libri di John Keats. – ne parla con naturalezza, come se non mi stesse colpendo il cuore.

Si alza in piedi. Si avvicina alla piccola libreria che occupa una parete del salotto e mi porta la prova di ciò che mi ha confessato. Ci sono lettere legate da un nastro rosso. Sono tantissime. Parlano di me. Del suo amore. Del nostro amore. Mi promette di farmele leggere, una al giorno. Poi ci prendiamo una pausa dalle parole.

Mi ha scritto delle lettere. Ha scritto il mio nome sugli angoli dei suoi libri preferiti. Ha scritto un libro che parla di me. Ha messo da parte il suo amore per me, per difendere la mia felicità, la stessa che credeva non potesse più darmi.

Sì, Holden Morris è decisamente il ragazzo più coraggioso che potrò mai incontrare.

Prepariamo il pranzo, guardiamo un film, facciamo l'amore altre volte fino a quando non si fa sera. Recuperiamo gli anni persi con gli interessi. Sorrido sulla sua pelle, consapevole che questo sia solo un assaggio di quella che sarà la nostra vita insieme. Del nostro futuro, quello che costruiremo insieme, questa volta per davvero.

Mi trasferisco da lui il mese dopo, sotto la benedizione di Andy che ha preso a corteggiare la sua Kendra con sempre più entusiasmo.

La mia vita si colora di nuove sfumature che uniscono tonalità vecchie a quelle nuove. Invento nuove trame, regalo la felicità ai miei personaggi, dandone di conseguenza anche a me. Mi cibo dei sorrisi dei bambini, di quelli di Holden, dei suoi sguardi che mi tornano a farmi sentire le 'vertigini da altalena' nella pancia. Quelle belle. Torna a essere la mia Stella Polare, pur con la consapevolezza che noi abbiamo l'equilibrio dentro.

Costruiamo nuove abitudini. Torniamo dal lavoro, ceniamo insieme, lui corregge i compiti dei suoi alunni e io scrivo nuovi libri. Andiamo a fare la spesa, organizziamo delle uscite con chi possiamo definire davvero nostri amici, troviamo nuove panchine dalle quali soffiare contro nuovi semafori.

Viviamo.

Arriva poi il Natale. Mi alzo la mattina presto, come quando ero una bambina. Mi avvicino alla finestra che dà sulla strada, sgrano gli occhi, sbatto con la punta del naso contro il vetro freddo, schiudo le labbra, preda della meraviglia. New York è imbiancata. Le strade sono vestite di neve e ghiaccio e nel cielo danzano fiocchi che si intrufolano nella mia fantasia, dandomi nuove idee per nuove avventure di carta. C'è silenzio. Non ci sono macchine, né passanti. Ci sono solo pupazzi di beve, con braccia di legno, nasi arancioni, occhi a forma di bottoni e guantini a scaldare le manine aguzze. Per un momento mi sembra che uno mi saluti. Mi lascio travolgere dall'immaginazione e lo saluto a mia volta, augurandogli 'Buon Natale!' In fondo se lo merita. Passa tutto il tempo a osservare gomitoli di persone che spesso si dimenticano che anche lui esista, nel suo essere fatto di neve e gelo.

Mi accorgo solo dopo un po' che c'è una bambina alla finestra di fronte. Mi guarda a bocca aperta, forse incuriosita dal mio aver salutato un pupazzo di neve. Poi la raggiunge un bambino. Forse suo fratello. Rimangono a guardarmi. Li saluto e loro fanno lo stesso. Muoviamo la mano nello stesso momento. D'improvviso mi sembrano dei riflessi. È come guardarmi allo specchio. Sorrido e lo fanno anche loro.

–Sapevo che non ti fossi coperta a dovere. Mettiti la vestaglia. – Holden mi raggiunge, posandomi qualcosa di caldo sulle spalle. Mi stringe un fiocco attorno alla vita.

Accetto il suo abbraccio alle mie spalle, stringendo le sue mani nelle mie.

–Che stai facendo? – bisbiglia al mio orecchio.

–Stavo guardando quei bambini.

Loro mi fanno ancora una volta 'ciao' con le manine.

–Quali?

Mi volto nella sua direzione.

–Come quali? Quelli. Sono alla finestra di fronte. La bambina è castana. Il bambino ha i capelli neri.

–Io non vedo nessuno. – fa una risatina.

Quando torno a scrutare oltre il vetro della finestra, loro non ci sono più.

–Devo darti il mio regalo. Non posso più aspettare. Vieni, Leen.

Mi prende in braccio prima che possa protestare e dirgli che quei due bambini c'erano davvero. Non sono pazza, né schiava della mia fantasia. Mi porta in cucina e mi fa sedere sul tavolo. Poi si intrufola tra le mie ginocchia e mi guarda. È bello. Il primo sole di questo Natale gli scalda il viso e lo avvolge di una luce lattiginosa che lo fa sembrare etereo.

–Credo che tu abbia qualcosa nella tasca sinistra. – dice.

–Che dici! Svuoto sempre le tasche prima di indossarla. – mi oppongo.

–Fidati. – le sue labbra si piegano in uno strano sorrisetto.

Lo faccio. Mi fido. Come ho sempre fatto e sempre farò. Infilo la mano nella tasca sinistra e ne tiro fuori qualcosa di tondo e liscio. Una pallina di plastica che mi ricorda quelle che si trovano nei distributori di gadget o nelle patatine.

–Mi ricorda qualcosa. – mormoro, sentendo il cuore battermi più veloce.

–Anche a me. – mi inchioda con i suoi occhi.

Non aggiunge altro. Lascia che sia io ad aprire quella stramba custodia e a svelare così, con le dita che prendono a tremarmi, un anello. Uno di quelli veri. Un piccolo punto luce, un diamante forse, a forma di cuore è incastonato su una fascia argentata che risplende a ogni piccolo movimento.

–Holden... – biascico.

–Leen. – prende l'anello dalle mie dita. – Io non so se adesso sia il caso di mettermi in ginocchio o se debba fare chissà quale discorso... – il suo pomo d'Adamo fa un leggere movimento. – Sei una laureata in lettere, ti cibi di libri, scrivi romanzi, conosci a memoria versi che mi sono ignoti, e non posso rubare niente a John Keats perché gli ho già fatto il torto di rubargli il nome per renderlo il mio pseudonimo per i miei pastrocchi. Perciò... dovrò improvvisare. Come ho sempre fatto.

Mi prende la mano sinistra, mi fissa dritto negli occhi e trova il modo di ficcarsi ancora più in profondità sotto il mio cuore.

–Sono un disastro in tante cose. Sono l'antitesi della perfezione, lo hai capito a tue spese. Sono un anti eroe, perché sei sempre stata tu il mio vero super eroe. Sono impacciato, parlo troppo, a volte sono codardo e geloso e stupido. L'unica ad avermi insegnato ad amare nel senso più profondo del termine è mia madre. Sono un maestro troppo permissivo, non so come impormi a quei monellacci che riescono sempre a trovare il modo di farmela sotto il naso. A volte non so come impormi alla vita stessa. Però... – la sua voce si fa più bassa. – Però sono qui per chiederti l'onore di essere sorretto dalle tue ali quando le mie si faranno troppo stanche e anche quando non lo saranno, di permettermi che le mie facciano le stesse con le tue per la stessa ragione. Posso ricevere questo onore, Leen?

Alla fine le sue gambe cedono e finisce davvero in ginocchio. Scendo in modo goffo dal tavolo. Mi inginocchio a mia volta e stringo il suo viso tra le mie mani.

–Non è quello che abbiamo sempre fatto, Holden? Prestarci le ali? – delle lacrime mi bagnano le guance.

Annuisce. Poi chiude gli occhi e mi sorride.

–Posso sperare che tu voglia farlo ancora, Leen? Che tu voglia dare solo a me questo onore... per tutta la vita?

–Sì.

Riapre gli occhi. – Sì?

–Sì.

–Leen, quindi... vuoi sposarmi? Hai capito che voglio sposarti, vero?

–Partiamo malissimo. Sottovaluti le mie capacità di interpretazione del testo? Guarda che sono laureata a Princeton come te! E anche se non fossi laureata a Princeton lo avrei capito. – gli stringo il naso tra il pollice e l'indice.

–No, certo che no. Non volevo. È solo che...

–Aggiungi alla lunga lista di difetti che sei un adorabile credulone. – lo tiro verso di me e lo bacio. – E mettimi questo anello ché devo darti il mio regalo. Attento, però, a non spingere troppo indietro quello di plastica!

Si apre in una risata. Ride, e mi stringe tra le sue braccia, sollevandomi da terra. Poi infila l'anello al mio dito e rimane a contemplarlo, quasi incredulo. Colgo l'attimo per alzarmi in piedi e volare nella nostra camera mentre lo sento urlare a non so chi un "Kathleen Foster diventerà mia moglie, gente!".

Gli ordino poi di chiudere gli occhi. Mi sollevo in punta di piedi e gli sistemo sulla chioma corvina un berretto rosso, fin troppo speciale. Holden sorride, intuendo subito cosa gli abbia regalato.

Poi lasciamo che le nostre ali si intreccino tra di loro e per un momento mi sembra di rivederli quei bambini della finestra.

Si sorridono e si allontanano mano nella mano. Non parlano. Almeno non con le bocche. Lo fanno con tutto ciò che di più profondo nasconda un corpo. E io riesco ad ascoltarli. Si stanno dicendo proprio queste parole:

Sei il mio cuore, Kathleen Foster.

E tu il mio, Holden Morris.

E così sarà per sempre.

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Scappo perché mi viene da piangere e non me la sento di dilungarmi troppo...

Voglio solo dirvi che spero di cuore di non avervi deluse e che sia stata in grado di scrivere qualcosa di bello.

Ci aggiorniamo la settimana prossima con i due speciali prima di fare l'ultimo tuffo nella vita di Kat e Holden

Grazie mille per tutto 💚
Vi voglio bene,

Roberta

P.S: Nel capitolo " Peter Morris e MJ Foster", Holden parla della libreria a Broadway gestita da una signora che nella sua mente si chiamava Corinne 🌻

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