36 • FARSI LA GUERRA
La prima prova della giornata consisteva nel raggiungere il Gamcheon mural village nel minor tempo possibile.
Non appena fu dato il via, le due coreane, assieme a Jared, schizzarono come razzi.
Gli avversari invece se la presero comoda, stanchi, svogliati, demotivati.
Arrivarono a destinazione con un notevole ritardo, perdendo la possibilità di guadagnare qualche punto, e una lunch box stracolma di prelibatezze tipiche coreane. Ma a entrambi fregava meno di niente.
Di fronte a un cartellone con le foto di Papa Francesco e Maria Teresa di Calcutta, dopo l'arrivo della coppia perdente, il presentatore spiegò la seconda prova.
Quando si incominciò, di nuovo, il trio vincitore si rivelò determinato, agguerrito. Stella e il Damerino, invece, continuavano ad avanzare per inerzia. Il loro gareggiare era un temporeggiare, la snervante attesa di una risposta (a due differenti domande), in base alla quale avrebbero scelto se andare avanti o mollare tutto e tornarsene a casa.
Persi nei loro pensieri si incamminarono lungo la via. Superarono diversi negozietti stracolmi di ninnoli, simpatici souvenir del luogo. Salirono, intrufolandosi in vicoli strettissimi. Vecchie case dalle tinte sgargianti, palazzetti abbelliti da graffiti. Frasi e parole scritte su scalini bassi, colorati e consumati come libri per bambini.
Quando giunsero dinnanzi alla prima tappa della sfida, un muro tappezzato di targhette a formare una grossa balena, fu David a contarle, mentre Stella appoggiava la schiena alla parete lasciandosi scivolare fino a terra. Si sentiva svuotata, priva di energie fisiche e mentali. Gli occhi che bruciavano, la testa che scoppiava.
David le lasciò il suo tempo, non voleva infierire.
Ripresero dopo qualche minuto, raggiungendo la seconda tappa. Una terrazza con una magnifica vista sul quartiere. Sotto di loro le palazzine si arrampicavano sulla collina, formando un mosaico dai mille colori. Un paesaggio che ricordava vagamente quelli delle Cinque Terre.
Qui, Stella si soffermò un po' di più, sedendosi nuovamente sul pavé, all'ombra di alcuni ombrelli azzurri e verdi, sospesi a due o tre metri da terra. Come richiedeva il gioco, David li contò rapidamente, trascrivendo il numero su un foglietto, poco sotto a quello delle targhette, registrato nella prova precedente. Poi, in disparte, aspettò che lei si riprendesse, rispettando i suoi tempi e il suo silenzio.
Le rivolse la parola solo quando rincominciarono a camminare.
«Ascolta Marlena...» le disse dolcemente «se hai bisogno di un po' di tempo per te, il prossimo gioco lo posso tranquillamente affrontare da solo, senza problemi.»
«È la prima cosa giusta che hai detto da quando sei qui.» Gli rispose bruscamente, senza nemmeno guardarlo in faccia. «Ma ti avverto: se tutta questa gentilezza è un altro dei tuoi stupidi tranelli per farmi cadere ai tuoi piedi, evita di perdere tempo!»
«Ma che cosa dovrei fare, scusa? Faccio l'imbecille ti arrabbi, cerco di fare il gentile, ti arrabbi ancora di più. Ma che cosa devo fare con te?!» Replicò lui, scocciato.
Arrivarono all'ultima tappa. Si trovarono su un'altra terrazza, di fronte a una casupola in legno. Una serie di cassetti si rincorrevano sulla fiancata, contenevano delle sfere rosse.
«Lo conosci l'oroscopo orientale?» Le chiese David.
«Che dobbiamo fare?»
«Trovare il nostro segno zodiacale, inserire la moneta e ritirare una pallina.»
«Dunque, io sono del novantotto...» Stella si sforzò di ricordare. «Se non sbaglio dovrei essere del segno della tigre.» Concluse, dopo un po'.
«Il mio te lo ricordi? Sono del novantanove.»
«Coniglio... credo.»
«Perfetto, andiamo!»
Dopo essersi avvicinati ai cassetti con accanto la raffigurazione dei rispettivi animali, inserirono la moneta che era stata loro consegnata, e ritirarono la sfera, che aprirono con l'aiuto di un martelletto, appoggiandosi sull'apposito ripiano in legno. Al suo interno conteneva una piccola pergamena con l'oroscopo, ovviamente in caratteri hangul.
«Dobbiamo contare tutte le lettere esse. Conosci anche l'alfabeto coreano?» Le chiese.
«No. Ma possiamo aiutarci con la cartina.»
«In che modo?»
Stella estrasse la propria da una tasca dello zaino. Individuò immediatamente la capitale, Seoul. «Eccola la lettera esse. È una specie di ipsilon al contrario.»
Una volta contate tutte le lettere, il Damerino scrisse il risultato sul foglio, e insieme si diressero verso la meta finale.
Il presentatore e tutta la troupe li aspettavano appostati di fronte a una ringhiera stracolma di lucchetti, al di sotto della quale si poteva ammirare una bellissima vista sul quartiere.
Le coreane e Jared, ovviamente, erano già arrivati.
Le riprese iniziarono quasi subito, con l'annuncio dei vincitori della prova e un breve resoconto. La squadra avversaria era salita a quota centocinquantaquattro, mentre Stella e David a quota settantacinque.
«Mezz'ora di pausa e poi riprendiamo ragazzi.» Concluse il presentatore, quando le riprese cessarono.
Jared e le compagne consumarono le loro lunch box, seduti in disparte, mentre il Damerino e Stella dovettero digiunare. Lui si fece due passi nei dintorni, con le mani infilate nelle tasche e la testa affollata di pensieri.
Doveva trovare un modo per riconquistarla. Farla nuovamente avvicinare a lui. Ma come fare? Qual'era la chiave per aprire quel duro cuore che teneva sigillato in uno scrigno? Continuava a chiedersi.
Stella, invece, se ne stava immobile, appoggiata alla ringhiera. La mente altrove, lo sguardo perso nel vuoto. La sfida l'aveva aiutata per un po' a distrarsi, ma in quel momento di quiete e solitudine, il peso dei suoi sbagli era tornato a schiacciarla come un macigno.
Non mi perdonerà mai.
Forse non lo rivedrò mai più.
Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, che avevano ripreso a pulsare.
La sua assenza era diventata una voragine al centro del petto. Non si era mai sentita così. Non aveva mai sofferto in quel modo, per nessuno.
Si sforzò di non pensarci. Si disse che un modo, per incontrarlo di nuovo, l'avrebbe trovato. A costo di farsi esiliare sull'isola di Jeju.
Chiariremo e tornerà tutto come prima.
Tornerà tutto come prima.
Si sedette a terra, ripetendosi quelle parole per farsi coraggio e non crollare nuovamente in un pianto isterico.
Distrattamente prese tra le dita un lucchetto mezzo arrugginito, iniziando a giocherellarci. Sopra una scritta sbiadita, a malapena leggibile: C+C=L. La lettera elle, che probabilmente stava per love, era racchiusa dentro un cuore rosa.
Tutti quei lucchetti le ricordavano uno dei suoi film romantici preferiti: tre metri sotto il melo. Ma il suo preferito in assoluto era il tempo delle pere.
Chiuse nuovamente gli occhi.
E la sua mente partì. Ma questa volta non a bordo di una sfavillante Ferrari bianca. No. E nemmeno a bordo di una lussuosa Rolls Royce, o di un'elegante Lamborghini.
Una sgangherata Punto risalente probabilmente al 1920, tossendo fumo l'accompagnò nei meandri più bui della psiche umana.
Ebbe una visione mistica in stile fantozziano.
Si trovava in discoteca. Immobile, al centro della pista. Luci, una folla scatenata attorno a lei. Ogni tanto le arrivava qualche gomitata e qualche spintone, mentre le note di Gnam-Gnam Style le rimbalzavano in testa, violente.
Ma che cosa ci faceva li? Si sentiva spaesata, impacciata, fuori posto.
Ma poi, dietro di lei, era arrivato qualcuno, che le aveva infilato un paio di grosse cuffie in testa.
Una dolce melodia le aveva accarezzato l'anima.
Portami in alto come gli aeroplani
Saltiamo insieme, vieni con me
Anche se ci hanno spezzato le ali
Cammineremo sopra queste nuvole
Passeranno questi temporali
Anche se sarà difficile
Sarà un giorno migliore domani
Se questa notte piove dietro le tue palpebre
Sarò al tuo fianco quando è l'ora di combattere
Portami con te
Ti porterò con me
Tu mi hai insegnato che se cado è per rinascere
Che un uomo è forte quando impara ad esser fragile
Portami con te
Ti porterò con me¹
Lentamente si era voltata, col cuore a mille. Quando l'aveva visto le era mancato il respiro.
Lauro.
Indossava un mantello nero con ricami floreali dorati, e un sorriso che avrebbe scatenato l'apocalisse. E la guardava. La guardava come nessuno aveva mai fatto. La osservava annegare nel verde delle sue iridi. Perdere la testa, i sensi, la parola. Perdersi in un mondo bellissimo.
Tutto, attorno a loro, era scomparso.
Di lì a poco, sentendo gli istinti incendiarsi, Lauro con eleganza si era sfilato il mantello, lasciandolo scivolare a terra. Era rimasto completamente nudo.
«Prendimi scoiattolina. Sono qui.»
Stella si era sentita svenire. «Oh mio Dio, Lauro, ma cosa fai?! Non possiamo qui! C'è troppa gente!»
Le aveva fatto l'occhiolino, accennando un sorriso. «Ci penso io!»
Aveva sollevato un braccio. Indice e medio uniti, a formare una sorta di pistola.
Aveva iniziato a sparare. E attorno a loro si era creato il caos. Uno a uno, giovani donne e uomini erano caduti come birilli, schizzando piogge di glitter dorato dal petto.
Dopo pochi secondi erano rimasti solo loro, circondati da una marea di corpi riversi a terra in pose scomposte, ricoperti di polvere d'oro. E Francesca Birra e Claudio Santa Maria Capua Vetere, che sopra il palco si stavano esibendo in un frenetico twist, fasciati nei loro eleganti completi a giacca.
«E loro?» Gli aveva chiesto Stella.
«Lascia che guardino. Mi sono simpatici.»
Ma a quel punto era stata lei a sollevare il braccio, a unire le dita a mo' di pistola, e a sparare, più e più volte. Senza volerlo, senza un perché.
Lauro era crollato in ginocchio. Bocca spalancata in un grido muto, occhi sgranati dal terrore e dall'incredulità. Si era portato le mani al petto. Le dita tremavano, si macchiavano di sangue, che dai numerosi squarci usciva a fiotti, colando fino a terra in piccole cascate rosse.
Ma prima ancora di prendere consapevolezza del proprio gesto, Stella si sentì trafiggere da una moltitudine di pugnali all'altezza del cuore.
Lauro.
Le aveva sparato.
Crollò nella sua stessa posizione. Mani macchiate di catrame denso e nero.
Così è questo il colore della mia anima. Nero. Oscuro. Buio. Tenebra.
Nel dolore, così devastante da togliere il respiro e annebbiare la ragione, era stato quello il suo unico pensiero lucido, mentre agonizzanti si erano guardati, l'uno riflesso negli occhi dell'altra. Come due vecchi specchi rotti.
Non avevano fatto altro che farsi la guerra. E la guerra aveva vinto.
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¹ Versi tratti dalla canzone "I fiori di Chernobyl", di Mr Rain.
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