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Pov. Carlotta
Anestetizzata come un anestetico doloroso, il corpo percosso da spasmi incontrollabili, che si riverberavano in lacrime. Non sapevo più a cosa credere. Forse era giunto il momento di staccare la spina, per fare chiarezza. Per trovare risposte che potevo farmi da sola. Era così. Nessuno poteva aiutarmi, neanche lui. Le risposte le contenevo io nel mio cuore.
Decisi di scrivergli una lettera, guardando la mia valigia aperta sul letto, con un groviglio nello stomaco.
Una lettera che esprimesse il mio stato d'animo. Cose che venivano dal cuore. Non avevo abbastanza lucidità per scrivere quello che la mia mente avrebbe voluto dire. Ma assicurandolo, se avrebbe capito, che uno spiraglio esisteva. Avevo solo bisogno di tempo. Per capire. Digerire. Metabolizzare.
Gettai un'occhiata a Mr Wilson. Compagno fedele delle mie avventure e disavventure. Era giunto il momento di lasciarlo. E se fosse stato vero e puro il nostro amore, sarebbe tornato.
Ripiegai la lettera, dove una piccola lacrima sporcò il mio nome, impiastricciandolo. Divenendo solo Caotta.
Buttai tutti i vestiti dentro alla rinfusa. Il cuore pompava veloce, tanto da riuscire a sentire dolore proprio in quel punto. Non era il momento di placare i singhiozzi spossanti che arrivavano irrefrenabili. Il fiato pesante, spezzato a frequenze da quei singulti.
La paura che da un momento all'altro sarebbe riapparso da quella porta, impedendomi una partenza, di cui necessitavo. Una chiarezza che esigevo. Furia e palpitazione correvano di pari passo, la testa girellava, mi faceva sentire oscillata come su una barca, rischiando di perdere il controllo e ritrovarmi capovolta.
Sentii il rumore graffiante della cerniera, chiudersi ed afferrai Mr Wilson, trascinando le il trolley dove le rotelle strusciavano, fino all'entrata.
Lo strinsi un'ultima volta al petto, mettendolo sopra la lettera, sul comò vicino all'entrata.
"Potremmo girare tutto il mondo, separati. Ma quando i nostri sguardi punteranno lo stesso posto, saprete dove trovarmi." Gli parlai, lasciandolo con questa frase. Con i suoi occhi vivaci, con il sorriso sul muso. Prima di abbassare la maniglia della porta, e richiuderla debolmente, quasi da non udire il rumore.
Mi affrettai con il cuore in gola, e le rotelle che strusciavano graffianti sul pavimento, verso l'ascensore.
Pigiai il pulsante, aspettando i secondi interminabili, che mi rimanevano in quel corridoio. Mi voltai diverse volte verso la porta. Esalai respiri profondi, spostandomi da un piede all'altro, mentre la mia mano stringeva saldamente, il manico del trolley.
Finché le porte di vetro non si spalancarono con un cigolio sconnesso, dandomi il permesso di evadere da quelli spazio immenso ma ristretto in quel momento.
Decisi di non avvisare Samuel. Mi avrebbe frenata sicuramente. Preferii mandare un messaggio a Toby, mi avrebbe compresa, e comunque non avrebbe potuto fermarmi. Sarebbe stato meglio inviarglielo una volta fuori dall'hotel.
Mi ritrovai la Hall luminosa difronte, trascinando la valigia fuori dall'ascensore, ed estrassi la carta metallica dalla tasca del jeans.
Arrivai fino al bancone, dove la ragazza dai capelli biondi mi rivolse un sorriso, e gliela lasciai.
Diedi un'ultima occhiata a giro, fissando la moquette bordeaux che attutiva il rumore delle suole. I lampadari maestosi che scendevano giù.
Era il momento. Chiusi un attimo le palpebre, tirando fuori l'aria per immagazzinarne altra pulita, e le porte automatiche, si spalancarono, dove un dolce filo di vento armonioso, mi avvolse, portando alcune ciocche dei miei capelli sul lato sinistro.
Chiamai un taxi con l'agitazione alle stelle, spostandomi dal raggio visivo dell'hotel. La fretta scalpitava dentro di me.
Diedi le mie coordinate, e dopo cinque minuti di agonia e paura di vederlo, arrivò il taxi.
Montai dentro, salutando il tassista, aggiustando la valigia e sfilandomi la tracolla dalla spalla, per poggiarla sulle mie gambe agitate.
"London City Airport" informai il tassista, che mi guardò con i suoi occhi ambrati vispi dallo specchietto, ed annuire, ingranando la prima.
Mi lasciai andare contro il sedile in tessuto grigio fumo, guardando fuori dal finestrino destro. Tutto ciò che lasciavo. Tutte le emozioni. Stavo mandando a puttane il mio lavoro. Avrei inventato una scusa. Mi ricordai di prendere il cellulare, dalla borsa, cercando di fretta il numero di Toby.
Dato l'orario poteva dormire, ma speravo vivamente di no.
I lampioni abbagliavano il mio volto, tanto quando il display luminoso, e le dita scorrevano frenetiche sulle rubrica.
"Toby, Toby, Toby...miseri...eccolo" mormorai a bassa voce con me stessa, puntando la cornetta verde e portando l'apparecchio telefonico all'orecchio.
Mi mangiai la pellicina dell'indice, finché non sentii la sua voce vigorosa.
-Pronto- sentii uno sbadiglio, e trattenni una risata.
-Toby, sono Carlotta. Ti devo chiedere un favore, e allontanati non vorrei che Samuel sentisse- lo avvertii tutto d'un fiato, per far sì che non gridasse il mio nome davanti a Samuel.
Sentii dei passi deboli, e la voce di Samuel rompere un secondo il silenzio con una battuta incomprensibile. Finché non percepii il rumore della portafinestra aprirsi con un tremolio cigolante, ed il frusciare del vento seguito dalla sua voce.
-Carlotta?! Perché mi hai chiamato?- domandò preoccupato, mentre tentai d'inventare una buona scusa. Nonostante l'avrebbe capito comunque.
-Devo andare a Manhattan. Mio zio non sta bene, e vorrei stargli accanto. I miei mi hanno supplicato. Ma...non voglio che Greg sappia di questa cosa. Potrebbe compromettere il
mio lavoro. Tu mandami i pezzi dei video, io li invierò a Greg dal mio portatile. Ho lasciato la scaletta delle domande da fare a Joshua, prenderà la receptionist il mio posto.- parlai agitata, cercando non scordarmi niente sul momento. Lo sentii esalare un respiro, mentre guardai fuori dal finestrino.
-Come spiegherai a Greg che invece di esserci te, c'è Una cappero di Receptionist a fare le domande?- mi domandò sconcertato l'ovvio e con tono serio.
-Dirò a Greg che stavo male ed ero in camera, imbottita di farmaci. Ma le domande sono mia. Perciò non ci dovrebbero essere problemi- replicai cristallina, sentendo il fruscio possente del vento dall'altro capo.
-Okay. Carlotta, lo sai che non ti credo vero? Ma sei un'ottima presentatrice, ed arriverai in alto- mi confidò più carezzevole e vellutato, mentre annuivo da sola, come se lo
Avessi difronte.
-Lo so, immaginavo che non mi credessi. Chiedi scusa a Samuel da parte mia. Vi voglio bene- ammisi fievole ma liberatoria, prima di staccare la chiamata e perdermi negli ultimi minuti che mi separavano dall'aeroporto.
Aspettai il mio volo, guardando la poca gente che a quell'ora accalcava l'interno.
Fortunatamente la ragazza cambiò il volo del mio orario, informandomi che ero stata fortunata ad aver trovato posto last-minute.
Guardai una coppia davanti a me, sulle sedie in ferro bucherellate grigie. Lui le teneva il braccio sulle spalle esili, mentre lei si accoccolò con la testa sulla sua spalla, ridendo tranquillamente.
Mi sentii presa da una sorta di malinconia. Finché non sentii la vibrazione del telefono, dalla borsa che tenevo sulle ginocchia.
"Cappero!" Proclamai, rovistando ed emettendo rumori sconnessi, per cercare il telefono, che pur guardando l'illuminazione del display, non lo trovavo. Quando finalmente lo afferrai, e guardai il nome sopra. La linea bianca che con l'indice avrei potuto sbloccare e rispondere. I battiti elevati del mio cuore, viaggiavano in controsenso, sbattevano potenti. Come ipnotizzata. Non riuscivo, non volevo rispondere. Non potevo. Finché non cessò la vibrazione sotto al mio palmo improvvisamente sudato, lasciandomi una scarica dentro, ed il suo nome scomparso, lasciando la frase -una chiamata persa-.
Mi rianimai solo quando l'altoparlante, proclamò squillante, il numero del volo.
Mi riportai la tracolla sulla spalla e con il
mio fedele biglietto, avviarmi all'interno dell'aereo. I sorrisi delle hostess, e probabilmente sembravo una zombie. Me la stavo cercando in effetti. Ma avevo bisogno di riflettere. Non sempre scegliamo le strade più comode. Non volevo più avere dubbi. Mi aveva confessato il suo amore davanti a miliardi di persone. Un gesto che mi aveva fatto scoppiare il cuore come fuochi d'artificio nella notte di San Lorenzo. Ma non era quello il punto. Il punto era che potevamo esserci anche solo noi due. Ma avevo bisogno di non stare a contatto, per riorganizzare tutto. Per allontanare il marcio intorno, e solo allora tornare da Mr Wilson, speravo da entrambi i Mr Wilson.
Mi accoccolai al lato del finestrino. Niente nuvole nel cielo buio quasi nero, come la punta dell'inchiostro della lettera. Solo le luci della città, sempre più piccole, sempre più lontane, ed il mio sonno arrivare.
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Atterrai, ritirando il mio trolley sul nastro trasportatore, che arrivò in fretta. Come se volesse cacciarmi alla svelta dall'aeroporto di New York.
Presi un taxi fuori, sentendo il refolo caldo di Agosto.
La strada del ritorno. Avevo spento il telefono. La paura di una sua ulteriore chiamata. Non avrei retto.
Dovevo staccare quel filo conduttore inossidabile, ma almeno per un po' dovevo.
Quando finalmente dal finestrino, vidi il mio porto sicuro aprirsi come un varco mistico. Il rifugio in quel momento. Times Square. La gente che già pullulava sulle strade, corse frenetiche, chi si accingeva a restare immobilizzato davanti alle vetrine, come se i manichini fossero stati loro e non quelli all'interno. La fila immensa da Starbucks. Potevo sentire l'odore del caffè, appena abbassai un secondo il finestrino. Il vociferare delle persone, il vento caldo che entrava ed il sole picchiava sulle mie gambe. Era decisamente caldo e con questo Jeans sembrava avessi fatto i fumenti.
"Mai vista Times Square?" Ruppe la mia ammirazione, la voce del tassista, mentre risi.
"Tutt'altro. Ci abito" rivelai sincera e vivace, sentendo un sorriso formarsi sul mio volto, mentre i suoi occhi curiosi mi guardarono dallo specchietto retrovisore.
"Sembra contenta di essere tornata" continuò quella sorta di chiacchierata, forse perché alla radio passava una canzone noiosa.
"Lo sono" ammisi semplicemente sentendo la mia voce cedere e perdere di tonalità, finché non mi fermò davanti al portone del mio appartamento.
Lo ringraziai per la corsa, per la chiacchierata, o forse per niente. Certe volte ringraziamo senza un valido motivo, ma solo perché ci sentiamo in dovere di dirlo. Viene automatico.
Vidi il fumo grigiastro del taxi, confondersi tra gli altri fumi che inquinavano Times Square, guardando il mio appartamento. Pareti grigie, vetrate bianche moderne, il portone bianco.
"Ben tornata Carlotta" esclamai a me stessa, dandomi il benvenuto, come il -Welcome- scritto sul tappeto di vimini.
Trascinai il trolley all'interno, afferrandolo per il manico per salire le scale. Sembrava più leggero ieri.
Finché non estrassi le chiavi dalla borsa, con un tintinnio, e lo scatto della serratura vivace. Era contenta anche la porta, di sentire la mia mano, che più che aprire dolcemente, scassinava quasi la serratura come una ladra.
Mi girai di spalle, trascinando il trolley all'indietro, ma non ebbi il tempo di richiudere la porta, che due mani virili, si poggiarono su i miei fianchi, staccandomi dalla valigia che cadde a terra con un tonfo pesante, e ritrovarmi attaccata al suo petto. Il petto che mi era mancato. E che se avesse messo una maglietta sarebbe stato meglio.
Emisi un gridolino strozzato insieme ad una risata, finché non mi Poggiò di nuovo a terra.
Mi voltai, tirandogli un pugno debole sull'avambraccio, vedendolo innalzare il sopracciglio scuro.
"Mi erano mancati i tuoi pugni, culetto d'oro" affermò cristallino e con la sua voce intensa, mentre mi fiondai tra le sue braccia, sentendo l'odore della sua colonia, proteggermi ed avvolgermi con il suo calore.
"Mi sei mancato da morire Mitch. Sopratutto i tuoi toast" rivelai sarcastica e con un sorriso sincero, staccandomi appena da lui, dove le sue mani rimasero ancorate su i miei fianchi.
Esalò un respiro, fissandomi in modo penetrante, guardando i suoi occhi verdi intensificarsi e divenire più scuri ma mantenendo la loro brillantezza.
Il volto fresco di rasatura. I suoi capelli corvini appena scompigliati.
"No. Non hai idea di quanto tu mi sia mancata. Di questa casa vuota senza di te. Non lo puoi capire" parlò più cupo, come se avesse avuto qualcosa a comprimergli il petto.
Scossi appena la testa come a non capire, ed in effetti non capivo. Tranne il fatto che la casa era perfettamente pulita, e mi sembrava un miraggio.
"Anche tu Mitch. Dimostrami quanto ti è mancata la tua culetto d'oro" lo ripresi beffarda e suadente, come scherzavamo sempre tra noi, sentendo le sue mani stringersi di più su i miei fianchi, e la maglietta stropicciarsi appena su quel punto. Ma non me ne curai. Era solito fare così. Come il suo respiro irregolare, ed il mio cuore iniziare a trepidare stranamente, per qualcosa che vedevo nei suoi occhi.
Esalò un altro respiro, come se ne avesse avuto un'esigenza sostanziale. L'aria divenire pesante, in quei metri quadrati.
Non parlò si fece più vicino, e pensavo che come sempre volesse farmi uno dei suoi dolci scherzi, per avvicinarsi alle mie labbra e spostarsi. Ma non fu così. Mi allacciai ai suoi occhi, che tentavano di prendere il colore delle mie iridi in tutte le loro sfaccettature, prima di sentire il suo alito caldo sfiorarmi le labbra, e subito dopo il suo labbro carnoso e morbido superiore, baciare delicatamente il mio inferiore.
Rimasi attonita è ferma sul posto, mentre le mie labbra si schiusero in automatico, come se avessero avuto vita propria, e non più un cervello pensante. Prima di sentire il suo gemito roco, ed il suo bacio farsi più esigente. Lo stesso che ricambiai, sentendo la sua lingua scivolare dentro la mia bocca e trovare la mia in modo tenero, ma bisognoso. Qualcosa di caldo che si elevò dentro di me. Un calore strano che m'invadeva tutti gli organi.
Le mie mani finirono a solleticare la sua nuca, mentre i suoi gemiti erano sempre più graffianti, e le sue dita premere in modo esigente.
Finché non si staccò, poggiando la fronte contro la mia, che ero ancora stralunata, immobilizzata, incredula di aver ricambiato il suo bacio. Attonita. Basita. E chi più ne ha più ne metta.
I respiri corti ed irregolari, il cuore battere stranamente, ed i suoi occhi appena schiusi, ritornare splendenti su di me.
"Era questo che dovevo dirti. Che ti amo Carly" rivelò in affanno, mentre il mio cuore da prima frenetico perse un battito, le mie labbra improvvisamente aride non emettere nessun suono, e la testa spegnersi da tutto, per rimanere fissa ad osservarlo, dove le mie pupille presero tutto il mio azzurro.
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