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23

Pov. Joshua

Avevo deciso di farle ripercorrere un po' del nostro inizio. O meglio, quel giorno dal quale iniziai a sentire i primi brividi strani e la prima gelosia verso di lei. Quel giorno che l'accompagnai alla festa di Callum, evitando il gioco della bottiglia ed altre scemenze. Volevo riportarla in una sera, un po' nel passato. Ed avrei sperato di riuscirci.

Quando la vidi scendere, bella e solare una voglia di assaggiarla si era impossessata di nuovo di me. Specialmente vederla appena uscita dalla doccia. Ricordavo ancora il suo corpo nudo, e avrei voluto rivederlo. Ma le sue parole sul correre troppo. Forse aveva ragione. Stavo sbagliando. Ma sentivo urgenza di lei. Volevo rubare i suoi ansimi in ogni nota e sfaccettatura. Se solo me l'avesse permesso. Avrei atteso pregustandomi quella notte che sarebbe stata di nuovo mia. Perché nel mio cuore già lo era da tempo. Un tatuaggio invisibile che solo noi potevamo vedere. E non sapeva il mio tatuaggio in realtà che cosa stesse a significare. Le dissi che era una semplice J di Joshua. Forse avrei dovuto dirglielo. Ma quanto ci frega la convinzione di avere molto tempo a disposizione?! Troppo. Perché poi infondo il tempo non basta mai. Viviamo la vita dicendo -lo farò domani, perché farlo oggi- ed avevo sbagliato tutto. Ma oggi non sarei vissuto con il rimpianto di non aver fatto tutto ciò che potevo per riportarla con me. Un viaggio temporale solo nella mente. Un po' più cresciuti ma gli stessi di sempre.

Si tenne stretta a me come se fossi un'ancora. Ed in effetti ero la sua salvezza, solo che doveva ricordarselo.
Il suo dolce profumo floreale, mi arrivava alle narici, inebriandomi grazie a quel filo di vento, dove i suoi capelli fuori dal casco, svolazzavano liberi per adagiarsi nuovamente sulla giacca di pelle nera che le diedi.
Le sue gambe che sfioravano dolcemente i miei fianchi. Feci scendere una mano, poggiandola sul suo ginocchio, al rosso del semaforo. Le diedi leggere carezze e sentii quanto il suo corpo reagisse positivamente sotto al mio contatto.

La guardai dallo specchietto, mordersi le labbra rosse e lucide, grazie al lucida labbra. I suoi occhi azzurri splendevano nel bagliore della notte. Erano tutte illuminate le vie di Barcellona, ma nessun led, nessuna insegna luminosa o lampione era minimamente paragonabile a quel luccichio speciale ed inconfondibile.
Ripartii vedendola stringersi ancora di più, e farmi provare gli stessi brividi di sempre. Premette la guancia contro il mio giubbotto, per poi salire dolcemente, e poggiare il mento sulla mia spalla, per guardare con occhi curiosi.

"Lì c'è un baracchino dei panini. Possiamo fermarci" m'indicò con l'indice il baracchino bianco, urlando per farsi sentire e sovrastare il rumore del vento, della musica che passava dalle radio delle varie macchine ed il loro sfrecciare.

"No, dobbiamo ripercorrere il passato. Stasera pizza" esclamai beffardo, vedendo il suo sguardo sbigottito dallo specchietto.

M'informai su TripAdvisor, quali pizzerie buone ci fossero a Barcellona. Ed ovviamente scelsi la migliore. La Buon Appetito.
Distava solo quindici minuti dall'hotel. Ed era in una via piena di pizzerie e ristoranti, e negozi illuminati ma chiusi a quell'ora.

Arrivammo, e parcheggia la moto nel posto apposta. Guardai Carlotta scendere. Provò a sganciarsi il gancetto del casco, e sorrisi a quella scena che mi riportò indietro nel tempo. Non aveva ancora imparato come si faceva.

"Ti serve una mano?" Domandai derisorio, innalzando un sopracciglio e passandomi una mano tra i capelli. Mentre sbruffò ed alzò gli occhi al cielo, vedendo un piccolo e dolce broncio formarsi sulla sua bocca. Tanto da renderla bella e adorabile. Dio! Era la mia piccola spocchiosa unica. Finché non si arrese e riportò il suo azzurro nel mio, ed annuire sconfitta.

Le andai vicino, togliendole delicatamente la mano dal gancetto, ed i nostri polpastrelli si sfiorarono prendendo la scossa. Eravamo elettrici.
Finché non alzò appena il mento, portandomi a sganciarglielo e se lo finì di sfilare, scuotendo i suoi capelli perfetti.

Alzò gli occhi verso l'insegna luminosa, riducendoli in due piccole fessure per leggere meglio. Il suo italiano era buono, rispetto al mio che per leggere storpiai la parola "Appetito".
Le presi la mano, vedendola incerta ed arresa, ed aprii la porta della pizzeria.

All'entrata vi era un bancone nero lucido, e dietro scaffali in vetro con varie bottiglie esposte. Il soffitto presentava delle lampade rotonde effetto mosaico a specchio, rendendo una luce fioca che illuminò in modo caldo,  l'interno.
A destra vi era la sala. Dei tavoli di legno, con le gambe lavorate di colore nero, come le sedie.
La parete destra era interamente rosso vermiglio. Presentava quadri dalle bordature nere lucide, ed all'interno di essi dei disegni stile Pop-Art, come quelli sulla parete sinistra, che però era interamente fatta di legno.
Così come l'arcata del soffitto, di legno ciliegio, dove vi era un gioco di led quadrati più luminosi, rispetto alle lampade dalla luce soffusa.
Mentre la parete di fronte a noi, era metà rosso vermiglio, metà a scacchi bianchi e neri. Due colonne nere con dei lumini, ergevano fino al soffitto.

"Siete due? Vi potete accomodare qui" un ragazzo dalla pelle olivastra, occhi verdi ed un cappellino bianco a nascondergli i capelli, vi accompagnò fino al tavolino, distribuendoci le carte del menù rilegate in pelle rossa.

"So cosa vuoi fare" mi rimbeccò severa, ricordandosi di cosa facemmo da Don Antonio.

Mi morsi il labbro, reprimendo un sorrisetto. Quindi mi portai una mano stretta a pugno, sotto il mento.
"E cosa starei cercando di fare...Carlottina?" La ripresi sarcastico e rauco, guardandola intensamente negli occhi per notarla sbruffare e girovagare con gli occhi. Scocciata dal nomignolo che le avevo ricordato.

"Lo so. E non lo dirò" stirò un finto sorriso, con tono saccente, ed innalzando il sopracciglio ad ali di gabbiano, prima di riportare l'attenzione sul menù e scorrerlo con occhi attenti, per leggere.

Scossi la testa contento. Non sarebbe mai cambiato nulla tra noi. Saremmo stati sempre i Joshua e Carlotta, eterni bambini, in quelle due villette di Manhattan, che si lanciavano sassolini e linguacce, per ritrovarsi ed amarsi.

Ordinammo due pizze margherita, e due birre alla spina. Dire che era la miglior birra che avessi assaggiato era un eufemismo.
Parlammo del più e del meno. Del concerto che sarebbe avvenuto domani allo stadio. Lei scherzò sul fatto che se mi avessero lanciato altra biancheria, sarei potuto diventare femmina a tutti gli effetti. Avrei voluto fargli vedere quanto sono ancora attratto dalle donne o meglio da Carlotta. Ma si divertiva a prendermi in giro ed io la lasciavo fare.

"Mi ricordo che dovevi parlarmi" affermò ad un tratto, pulendosi con il tovagliolo le labbra, ma mantenendo il mio contatto visivo.

"È ciò che faremo. Ma non dentro questa pizzeria. A proposito..." mi guardai intorno, per alzarmi e prenderle la mano, da ancora seduta.

"Che vuoi fare? No Joshua siamo troppo gran..." non la lasciai terminare che la portai nel bagno che era alla sinistra dell'entrata. La spinsi dentro, mentre cacciò un urletto, che le feci strozzare in gola, premendo il mio palmo sulle sue labbra.

Mi guardò sgranando i suoi occhi azzurri titubanti ma divertiti.
"Seguimi" le intimai ma carezzevole, notando la finestra, senza inferriate.

"Tu sei matto" replicò scuotendo la testa ed aprendo la porta. Notai il cameriere cercare le nostre figure, poiché guardava i piatti finiti e qualche imprecazione detta in spagnolo.

"Carlotta cazzo! Vieni" risi di gusto nel vederla nel panico completo e totale, sentendosi venire a mancare.
Così scesi dalla finestra, prendendola per il braccio e richiudendo la porta che emise un tonfo pesante, per spingerla verso la finestra e falla scavalcare con la poca agilità. Fortuna che non era alto ed i suoi piedi toccarono l'asfalto.

"Giuro che questa me la pagh..." ma non fece in
Tempo a terminare che vidi la porta aprirsi ed un cameriere più nero di un toro all'arena.

Scavalcai in un balzo la finestra, vedendo Carlotta spostarsi per lasciarmi cadere, ed il cameriere che gridò
"Villanos". Iniziammo a correre, verso il motorino e salire sopra senza caschi, non c'era tempo da perdere. Misi in moto, e d'istinto si attaccò a me per non cadere.

Notammo il cameriere uscire, e rincorrerci, mandandoci imprecazioni di tutti i tipi in spagnolo. Carlotta si girò spaventata a vedere se ci stesse ancora inseguendo, ma quando lo
vide fermarsi con la pezza in mano e le mani sulle ginocchia piegate per la foga, emise un sospiro tenuto celato.

Mi tirò uno schiaffo debole sul giubbotto, vedendo dallo specchietto il suo sguardo di disappunto ma che conteneva divertimento. Infatti il minuto dopo scoppiò a ridere. Buttando la testa all'indietro e tenendo le braccia ancorate alla mia vita.
I capelli fluttuavano liberi nell'aria, ed alcune ciocche si depositavano sulle sue labbra a forma di cuore.

Ci fermammo al Parco della Ciutadella o Cittadella. Pieno di alberi secolari, e nel mezzo una fontana enorme con delle sculture tipo leoni con delle ali. Non ero sicuro fossero leoni, ma non sapevo bene cosa fossero. Forse dei draghi. uno a destra ed uno a sinistra. Una progettazione dell'architetto Antoni Gaudí, e Josep Fontserè. C'era una targhetta in oro, con scritto -Quadriga Dorato dell'Aurora- di Rossend Nobas i Ballbé.

Era una fontana monumentale stupefacente. Carlotta guardò con occhi esterrefatti, l'acqua che cadeva giù dolcemente, riverberandosi nel laghetto sotto della fontana.
Vi era anche un piccolo lago, con delle barchette. Il parlamento della Catalogna.

"Vieni, sediamoci lì" le presi la mano, che accettò, andando sotto un albero secolare, ed appoggiare la schiena contro il tronco ruvido.
Avevo ancora le palpitazioni per la corsa in moto. Un senso di adrenalina che mi mancava. Carlotta era la mia adrenalina. Con lei mi veniva spontaneo fare stupidaggini di quando ero ancora un ragazzino scapestrato.

"Sono ancora scossa Joshua. Come ti è venuto in mente. E se ci denuncia?" Domandò con voce smorzata dalla paura e l'ansia che l'attanagliava. Guardando un punto fisso davanti a lei e subito dopo incrociare i miei occhi divertiti.

"Per una pizza non pagata?" Le riformulai un'altra domanda, con tono sarcastico, passandomi il pollice sul labbro. I suoi occhi magnetici caddero sul mio gesto, vedendola sospirare dolcemente, e portarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio per abbassare lo sguardo e mordersi delicatamente il labbro inferiore.

"Tornerò indietro a pagare se è ciò che ti preoccupa...Princesa" rivelai con voce più intensa, ricca di desiderio per lei. Mi feci più vicino, alzando una mano, per accarezzarle la guancia fresca con le nocche.

"Joshua...mi devi parlare" mi riprese schiudendo appena le labbra e le palpebre, incantata dal mio tocco delicato.

"Non possiamo farlo domani?" Le domandai gracile, avvertendo il bisogno di baciare le sue labbra morbide. Mi stava divorando la sua presenza. Era debole e poi forte. Era un'emozione infinita e completa. Carlotta racchiudeva ciò che per me era un cuore pulsante. Serviva solo se c'era lei.

Si girò fissandomi. Bagliori ad intermittenza in quell'azzurro lussurioso. Era ad un palmo da me, così vicini a sfiorarsi.
Le andai più vicino, strusciando la punta del naso contro al suo più fresco, e così le circondai le spalle con il mio braccio.

"Perché mi sento sempre così?" Era una domanda con voce sconfitta, più a se stessa che a me.

"Così come?" Le domandai, a fiori di labbra, lasciandole piccoli baci sulle palpebre serrate in maniera leggera.

"Con la voglia di...donarmi a te" confessò arrendevole e fievole, mentre scesi più giù con le labbra fino a combaciarle con le sua. Lo sfiorarsi innocuo, mi causò di nuovo il brivido di avere di più.
La trascinai a cavalcioni su di me, facendole arpionare le sue braccia esili, dietro al mio collo.

"So già che me ne pentirò, di non averti fatto dire ciò che era nel mio intento su questa uscita insieme" rivelò sommessa, dandomi un bacio a stampo, preso alla sprovvista, che contraccambiai subito. Sentivo l'urgenza di lei, crescere e pigiare sul tessuto grezzo dei pantaloni.

"So già che se non ti bacio, mi pentirò sempre e comunque" le rivelai a mia volta, facendola esalare un sospiro dolce come un ansimo, e sentivo che avvertiva il mio membro più duro, così da pressarla di più contro di me, portando le mie mani dalle sue cosce, fino alle natiche sode, ed accarezzarle in modo passionale.

Ci guardammo un attimo negli occhi, con lo stesso scintillio che ci apparteneva, per prendere possesso delle sue labbra dolci, mischiare i nostri sapori. Il suo che mi mandava a puttane il cervello. Scivolai con la lingua dentro la sua bocca, che incontrò la sua, in una danza lenta ed estenuante. Mentre avrei solo voluta vederla arresa e distesa. Nuda in tutti i sensi, farla mia. Baciare ogni centimetro del suo corpo. Assaggiare di nuovo con la lingua la sua intimità. Ma mi accontentavo. Saperla lì con me era già unico.

"La serata non è finita" proclamai sulle sue labbra, vedendola deglutire, ed aprire piano gli occhi su i miei.

"Dove vuole portarmi, signor Wilson?" Domandò beffarda, mentre le presi la mano per farla alzare.

"In un locale. D'altronde dobbiamo ripercorrere ancora un po' del nostro passato" le confidai amabilmente, e quando le dissi quella frase capì il motivo del parco. Non era perché mi andasse di farle vedere qualche monumento, o farle sentire il suono dolce e schizzato dell'acqua che gocciolava e picchiava dalla piccola cascata.
Era per portarla in un parco, che ricordasse il nostro giardino di quando eravamo piccoli. Il nostro posto segreto.

"Sei pronta?" La riportai con la mente in questo posto, vedendola annuire.

"Ma ti avverto...sceglierò io come giocare" mi avvisò puntandomi un dito contro, ed allacciandosi il casco, guardandomi con i suoi occhi intriganti ed il sopracciglio innalzato con aria da spocchiosa.

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