13
Pov. Joshua
Avevamo scherzato e giocato. Eravamo ritornati un po' ad essere noi stessi. Fatti sempre di emozioni contrastanti di contraddizioni semplici, ma eravamo noi.
Ripulimmo il casino lasciato in cucina, una guerra mondiale scoppiata tra quelle quattro mura e su quelle piastrelle beige ed il parquet rovere, che presentava ancora qualche chiazza, dove Carlotta aveva passato lo strofinaccio.
Aveva salutato i suoi genitori ed i miei, e così anche io. Guardai Anthony restio sull'accettare la mia mano. Lo potevo ben capire. Mi ero comportato da ciò che ero diventato senza di lei.
"Quando arrivi chiamami" le urlò dietro le spalle Anny, mentre attraversava la strada, facendo il giro per aprire lo sportello.
"Sarà fatto" le rispose con un sorriso dolce che le rilassò i tratti docili del viso, per accomodarsi sul sedile, chiudendo debolmente lo sportello. Ed ora assunse di nuovo quell'aria contratta. Di chi doveva stare lì contro il suo volere. Come imprigionata in un posto che non le stava più consono addosso.
Salutai Anny e mia madre con un'alzata di mano, prima di girare il volante e partire. Ormai era sera inoltrata. La luce potente dei lampioni si stagliavano addosso a noi, sbattevano sul vetro e sul percorso asfaltato della strada. Il silenzio era pesante quanto il buio che ci avvolgeva. Non era più tardi delle nove e mezzo, constatai dall'orologio che pulsava ogni minuto, sul vetro del cruscotto, appena sopra la radio spenta.
"Una bella giornata" presi una boccata per parlare e sciogliere parte di tensione integrante che veniva ingerita ogni secondo sempre di più, quasi a diventarne ingordi.
Gettai un'occhiata fugace verso di lei, senza perdere del tutto la concentrazione sulla strada che si prospettava di fronte, sorpassando un dosso. Aveva il volto girato verso il finestrino ma i suoi occhi incrociarono i miei, mascherando il fatto che l'avessi colta a guadarmi. E di nuovo sfuggì, verso un punto non definito che non si vedeva dal buio fuori.
"Direi che un po' di musica ci sta tutta" ritentai mio malgrado ad iniziare una conversazione: sembrava che la Carlotta di quella casa, una volta messo il naso fuori sparisse, e diventasse una maschera di cera, impossibile da sciogliere. Una di quelle che erano esposte nei musei delle cere. Fredde e rigide. Da posture meccanizzate. Dove ogni dettaglio veniva scolpito alla perfezione, ma non trasmettevano niente, se non il vuoto negli occhi spenti.
Pigiai il pulsante della radio, alzando appena con la manopola il volume, a diciassette. Né troppo basso né troppo alto. Il giusto per mantenere un sottofondo.
Cambiò posizione delle gambe. Le ginocchia da prima stese fino a toccare con le scarpe la fine del tappetino, si drizzarono, per far battere il dietro delle ginocchia al sedile, mostrando le scarpe.
La borsa tenuta in grembo come uno scudo. Possibile proteggersi da qualcosa dove non hai alcuna protezione.
Le note camminavano sulla strada, l'aria pesante. Abbassai appena il finestrino per far entrare un refolo leggero di vento fresco. I suoi capelli si mossero leggermente, alcune ciocche dietro e si riposarono sulla sua cascata di seta.
Tenevo il volante saldo, quasi ad aver paura che le mie mani scivolassero verso il suo corpo. In qualsiasi parte, bastava toccare la sua pelle. Così liscia e morbida, da renderla irresistibile.
Sbruffò appena, portandosi una ciocca dietro l'orecchio e mostrare un orecchino di perla avorio.
"Voglio fermarmi" proruppe ad un certo punto, spezzando il silenzio che era solo fatto dalle melodie della musica.
"Vuoi scendere dalla macchina? Ma che cazzo di..." non finii poiché la vidi scuotere la testa, come a prendermi per matto.
"Voglio fermarmi ad un pub. Ma non in quello di Mitch." aggiunse gesticolando, come se non volesse portarmi in quel posto.
Mi ricordavo che nelle vicinanze c'era un locale. Quello dove c'incontrammo quella volta. Lei dove ballava con Michael.
Parcheggiai la macchina nel parcheggio di fronte al locale. La ghiaia scricchiolò debolmente, quasi a lamentarsi del peso della gomma, finché non spensi.
"Pensi di scendere o devo firmare una cambiale?" La presi in giro bonariamente, guardandola afferrare la borsa ed uscire, sbattendo la portiera. Dove la macchina sembrava rimbalzare.
Si avviò dentro lesta, quasi ad evitarmi. Come se ero una presenza da scacciare via. La segui a passo sostenuto, portandomi le mani dentro la tasca dei pantaloni.
Doveva sempre essere tutto così complicato, perché niente era semplice.
Entrai, venendo colpito dalle luci ad intermittenza. Il locale era rimasto uguale, solo qualche quadro e specchi di varie forme erano stati fissati sulle pareti grigio perla.
La vidi al bancone, parlare con il barista che annuì sotto una sua richiesta.
Sorrisi avvicinandomi, vedendola girarsi con il viso verso di me, mentre le braccia erano incrociate sul bancone.
"Lo stesso che ha preso lei" intimai al barista che mi guardò scettico per poi sorridermi.
"Arriva subito" m'informò, finendo di preparare un cocktail ad una ragazza dai capelli biondi.
"Ho preso un succo alla pera" sembrava che parlasse con il muro, poiché il suo sguardo era rivolto verso gli scaffali zeppi di bottiglie, con qualsiasi liquore. Rimpicciolì gli occhi azzurri, per leggere l'etichette appiccicate sopra ciascuna bottiglia, come ad ispezionarle da grande intenditrice.
Per poi voltarsi verso di me, piegando la testa dove i capelli ricaddero dolcemente sulla spalla esile.
"Sei astemia, piccola" mi feci beffa, finché non vidi il bicchiere sotto al mio naso, che produsse un rumore cristallino.
"Grazie" ringraziai con un sorriso il barista, mentre presi una sorsata, sentendo il liquido pastoso scendermi giù in gola. Ma era strano, forte. Qualcosa che bruciava. Alcol corrosivo Dio mio. Che cazzo di roba era.
"Ma che cazzo è?" Sbottai disgustato dal sapore. Vedendola gettare la testa all'indietro e ridere, battendo una mano sul bancone.
"Ho detto che era succo di pera, ma non ti ho detto che dentro c'era il rum ed il redbull" affermò prendendone una sorsata compiaciuta, gustandoselo, fino a simulare un mugolio di piacere immenso ed alzare le spalle, guardandomi con quegli occhi ipnotici, caleidoscopici. Occhi che ti prosciugavano l'anima, privandoti di ogni risorsa.
"Che spocchiosa" ribattei divertito dal suo modo di prendermi sempre in giro in un modo o nell'altro, ci riusciva come nessuna sapeva fare.
"Uhm questa canzone mi piace" parlò con la cannuccia sulle labbra, quasi a strascicare le parole e renderle incomprensibili. Lasciò il bicchiere mezzo vuoto sul bancone, andando in pista, dove alcune persone erano già radunate a ballare. E non le importava di essere da sola. La musica le faceva compagnia, le si posava addosso così bene da renderla un tutt'uno. La gente si stava accalcando, quasi a formare una poltiglia mista, ma io vedevo solo lei. Anche se le persone la sovrastavano i miei occhi sapevano dove dirigersi, dove sbattere senza lasciarla perdere d'occhio neanche un millesimo di secondo. Ed era così leggiadra e sensuale in ogni mossa, ballava sincronizzata ad ogni nota. Si fondeva e mi consumava la vista.
Lasciai il bicchiere finito sul bancone, dirigendomi da lei. Sorpassavo le persone per incontrarmi con la mia metà. Mi sarei unito a lei nella danza. Non ero mai stato bravo in quello, ma volevo sentire il suo corpo al contatto con il mio. Sentire le temperature corporee mischiarsi.
La raggiunsi vedendola con le braccia alzate e la camicetta si sollevò appena su i fianchi, quei fianchi morbidi dove poggiai le mie mani.
Sussultò al mio contatto, quasi a trasalire. Era calda, invitante.
L'accarezzai mentre sospirò debolmente, pressando di più la schiena contro il mio petto che stava rimbombando dentro, forte, incessante. Un ritmo che altri non avrebbero sicuramente capito.
"Mi piace quando ti muovi su di me" le sussurrai intenso e rauco all'orecchio, portandola ad annuire e poggiarsi sul mio petto con la sua cascata di seta.
"Joshua ti prego" la voce più bassa e seducente. Una supplica. Una di quelle parole che mi diceva quando facevamo l'amore. Aspettava impaziente di essere riempita e venire avvolta dal mio corpo che le faceva da mantello.
"Ti prego cosa?" Le domandai con quel tono, ricordandole che le dicevo sempre questo alla sua supplica debole e febbricitante.
Sospirò, vedendo il suo petto alzarsi ed abbassarsi.
"Non fare così. Non dire queste cose, ti prego" aggiunse l'ultima parola della supplica, ma quello che volevo sentirmi dire non c'era. Pensavo che mi avrebbe pregato di andare via e fare l'amore con lei. Cazzo se lo volevo. Stavo perdendo le staffe, non mi orientavo. Avevo la bussola del cuore momentaneamente disfunzionale.
Ingoiai il magone, finché non vidii una ragazza guardarmi in modo persistente, mentre ero ancora ancorato a Carlotta.
Si avvicinò, con passo sicuro e convinto.
"Tu sei. Joshua? Joshua Wilson il cantante?" Gridò l'ultima parte del mio nome, e gente che era attorno a noi ora era con gli occhi su di noi e più precisamente su di me.
Vidi Carlotta staccarsi e riprendersi il suo libero arbitrio, girandosi confusa.
"È il cantante ragazze" gridò euforia verso le sue amiche, ed anche altre persone. Si accalcarono addosso a me, pressandomi in un cerchio senza via di fuga, mentre Carlotta era fuori da quel cerchio, fuori dal mio mondo.
Allungavano bracci con pennarelli, chiedevano autografi. Sentivo mani addosso, mani che non appartenevano a lei.
La guardai girare la testa e scuoterla, avviandosi fuori dalla pista per raccogliere la borsa adagiata sullo sgabello nero, ed uscire fuori da quella porta, per venire avvolta dal vento fresco, mentre la vetrata sbatté dentro di me. Capace di farmi male.
"Carlotta" la chiamai ma ormai era fuori anche dalla mia visuale. Scansai la gente, facendomi spazio, vedendo alcune reggermi per la maglia che presi dal lembo tirandola con forza verso di me. Si sarebbe strappata. Non m'interessava. Il mio scopo era raggiungerla.
Uscii fuori dal locale, mentre una folata mi fece accapponare, guardando con gli occhi persi i suoi. Per sentirmi ancora vivo. Ancora parte di qualcosa. Un motivo valido per andare avanti. Per superare un'altra notte.
"Carlotta" urlai il suo nome come se la stessi invocando, passandomi la mano tra i capelli spettinati ed in modo frustrato.
"Cazzo, cazzo" ribattei imprecando con le labbra serrate e digrignando i denti tanto da frizzarmi la bocca, sentendo quel brivido freddo.
Tirai un calcio, al bidone di metallo posto fuori da quel locale, per poi vederla. Era poggiata al muro dietro, con le braccia conserte e la testa china. Fissava la punta delle sue scarpe, ruotandole e scacciando sassolini e ghiaia come se non sapesse cosa fare.
"Carlotta" la chiamai più debole e dolce, avvicinandomi a lei che scosse di nuovo la testa.
"No. Stai distante ti prego. È questo che sei, per loro, per il mondo. Ed io non ne faccio parte Joshua. Non è un posto che mi appartiene" la voce cupa e spezzata dai singhiozzi, mentre guardai una lacrima brillare sulla sua guancia, macchiata da poco blush rosa.
Non mi curai delle sue parole, avvicinandomi. Lei era parte del mio cuore. Il suo posto era con me. Non dovevo ma ne sentivo il bisogno repellente. Sbagliavo sempre, non ero capace di aggiustare niente.
Le andai di fronte, portando l'indice sotto il suo mento, per farle alzare il viso verso di me. Il suo azzurro era straripante, un oceano immenso di cose da scoprire.
"Non era questo che volevo, non era questo che progettavo" le confidai dolcemente mentre mi guardò più dolce.
"Non è un fatto di ciò che vuoi Joshua. È di quello che succede e succederà ogni attimo della tua vita. Non prendiamoci in giro, non me lo merito" un'altra lacrima le rigò il viso ora arrossato dalle lacrime.
Sempre bella, sempre perfetta. Gli occhi appannati da un velo di tristezza che non potevo sollevare.
Le andai più vicino, circondandola con le mie braccia.
"Io...non lo so...so solo..." non terminai poiché rividi quella ragazza. Cazzo! Era un tormento.
Si avviò verso di noi, per tornare indietro e chiamare le sue amiche, mentre sgranai gli occhi. Afferrai la mano di Carlotta arresa, in uno scatto repentino.
"Corri" le intimai ridendo, mentre i suoi occhi si allargarono in un sorriso genuino, unendosi a me.
L'adrenalina scorreva dentro, le nostre risate si disperdevano nell'aria e il resto era celato dentro, nello stesso posto dove abitava da sempre. Nel cuore.
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