Prologo
Prologo
Era il 21 Maggio 2022.
Poteva sembrare una giornata tranquilla come le altre, con il cielo terso e l'aria fresca di metà mattina che accarezzava dolcemente il viso, o almeno così sembrava a prima vista. Tuttavia, dietro quell'apparente calma, qualcosa di indefinibile aleggiava nell'aria, come una tensione nascosta, pronta a rivelarsi da un momento all'altro.
Nilufar sedette sul sedile posteriore del furgoncino grigio della ditta di pulizie in cui lavorava, sistemandosi tra lo scaletto arrugginito e un mucchio di panni per pulire i vetri. L'odore acre di benzina, proveniente da una tanica mal chiusa nel bagagliaio, le riempiva le narici, mescolandosi con quello dell'umidità e del metallo: era il combustibile per il soffiatore, quello che usavano per ripulire i parchi dalle foglie secche.
Apparentemente sorrideva, ma il suo viso mascherava a fatica una stanchezza profonda, un dolore nascosto sotto strati di silenzio. Dentro, si sentiva distrutta, spezzata. Lo sguardo, vuoto e distante, vagava senza meta oltre il nulla. Con un gesto automatico, infilò una mano nel marsupio logoro, tirando fuori il cellulare. Scorse i messaggi con dita tremanti. Il cuore iniziò a battere più forte, martellandole nelle orecchie, in attesa di ciò che sarebbe venuto.
«Sono a casa», le scrisse lui su WhatsApp.
«Noi abbiamo finito adesso di pulire la banca», rispose lei, mentre si sistemava meglio sul sedile.
«Pesante?»
«No, sono io a essere stanca.»
«Hai dormito male, ci credo. Io ho portato l'auto a lavare. Sono dovuto andare da un altro, che quello era pieno.»
«Va bene.»
«Intanto mi distraggo un po' al pc.»
«Va bene, a me manca ancora da pulire il condominio a San Marco e la fabbrica.»
«Va bene», lui sembrava fintamente rilassato, quasi distante.
«Ok.»
Ci fu una breve pausa, poi...
«Tutto bene a lavoro?», chiese lui, ricordandosi improvvisamente della stanchezza di lei.
«Sì sì, abbastanza. Ormai con la collega ho stretto proprio un rapporto così solidale che il lavoro non pesa. Tranne con il signor Cesare, che mi fa impazzire.»
«Menomale, mi fa piacere.»
«Tu?»
«Volevo giocare, ma mi sono messo a guardare delle puntate in attesa che si aggiornasse il gioco.»
«Capisco, buona visione allora.»
«Grazie.»
«Prego.»
Nilufar De Luca era una ragazza riservata e riflessiva, originaria di Caserta, con una grande passione per la scrittura, la lettura, il trucco e la musica in generale. Sebbene fosse cresciuta in una piccola città, aveva sempre avuto grandi sogni di viaggiare e vedere il mondo. Tuttavia, la sua vita quotidiana era piuttosto monotona, fino a quando non conobbe Fabio Esposito, un ragazzo che sembrava essere il suo opposto sotto molti aspetti.
Si erano conosciuti per caso in una chat di Facebook, dove avevano iniziato a parlare per gioco, senza mai immaginare che quella conversazione li avrebbe portati a legarsi l'uno all'altra.
Fabio, nato e cresciuto a Santa Maria Capua Vetere, era l'opposto di Nilufar: poco empatico, impulsivo e amante dei videogiochi, era il tipo di persona che agiva prima di riflettere, e ciò lo portava spesso a prendere decisioni affrettate.
Nonostante le differenze, si era creato tra loro un legame inaspettato, qualcosa che andava oltre le parole o le passioni comuni, che in realtà non avevano. Dopo alcuni giorni di frequentazione virtuale, Fabio decise di andare a trovare Nilufar a Caserta, ed entrambi rimasero sorpresi di quanto la chimica fosse forte anche dal vivo.
I primi mesi della relazione furono entusiasmanti, pieni di scoperte reciproche e di piccoli gesti d'amore. Tuttavia, non tutto era stato facile. Essendo due personalità molto forti e spesso testarde, si trovavano a discutere frequentemente. Fabio aveva una passione sfegatata per la tecnologia e i videogames e trascorreva ore seduto davanti al computer per intrattenersi, mentre Nilufar preferiva perdersi nei suoi libri o nelle lunghe passeggiate solitarie che non confidava a nessuno perché era il suo piccolo, sciocco segreto.
Le loro giornate erano spesso scandite da piccoli battibecchi e di discussioni su cosa fare nel tempo libero.
Nonostante le difficoltà e gli alti e bassi, decisero che era giunto il momento di fare un passo avanti nella relazione. Concordarono di andare a convivere, sperando che la quotidianità condivisa li avrebbe aiutati a trovare un nuovo equilibrio. Trovarono un appartamento in affitto nei pressi di Casagiove. Non era la casa dei sogni, ma bastava: piccola e mal illuminata, con pochi arredi, ma era ciò che potevano permettersi in quel momento.
Nilufar si dedicò a decorarla con piccoli dettagli, cercando di trasformarla in un rifugio accogliente, mentre Fabio si occupava di piccole riparazioni e aggiustamenti.
La convivenza, però, non fu priva di sfide. Gli spazi ristretti non aiutavano e adattarsi alle reciproche abitudini quotidiane richiese tempo e pazienza. Fabio era abituato a cenare tardi e stare davanti al computer fino a tarda notte, mentre Nilufar preferiva un ritmo più tranquillo, con serate silenziose dedicate alla lettura o alla musica.
I primi mesi furono un continuo scontro tra le loro abitudini, ma con il tempo impararono a fare compromessi: Fabio iniziò a godersi i momenti di relax proposti da Nilufar, mentre lei, a sua volta, trovò il modo di apprezzare la sua compagnia durante le giocate al computer che spesso lo portavano a urlare come un matto. Il così detto "sclerare".
La loro relazione, nonostante tutto, era basata su un amore sincero, un amore che li aveva portati a superare differenze apparentemente insormontabili. Tuttavia, entrambi sapevano che solo il tempo avrebbe detto se questo equilibrio faticosamente raggiunto sarebbe bastato per il futuro.
Fabio era un bravissimo programmatore, un talento naturale con una mente logica e analitica. Passava ore di lavoro scrivendo codici e cercando di migliorare le sue competenze per raggiungere il suo obiettivo finale: aprire un'azienda di informatica.
Il suo sogno lo spingeva a lavorare incessantemente, spesso fino a ora tarda, con lo sguardo fisso sul monitor. Era determinato, nonostante le difficoltà, e sognava un futuro dove sarebbe stato il suo stesso capo, libero di creare e innovare.
Nilufar, al contrario, si sentiva intrappolata in una vita che sceglieva per lei troppe cose, senza darle margine di scelta. Era una ragazza dalle mille sfaccettature, un po' come un dandelion, quel fiore fragile e leggero che desiderava disperatamente librarsi in volo, ma qualcosa la tratteneva sempre a terra.
La sua vita non era quella che aveva immaginato. Aveva mollato il suo sogno di lavorare come parrucchiera o estetista. Non perché li odiasse, ma perché si lasciava guidare dalla paura, dalle insicurezze che le bisbigliavano all'orecchio di lasciar perdere perché non era portata per quelle mansioni. Ogni giorno era una ripetizione stancante e priva di significato, un ciclo che sembrava non avere fine. Così, aveva deciso di cambiare rotta, accettando un impiego in un'impresa di pulizie. Non era certo il lavoro dei suoi sogni, ma almeno le permetteva di staccare la mente, di tenersi occupata seppur il corpo le dava chiari segni di affaticamento: mal di schiena incessante, spesso fastidio alla testa e un ritmo che le scombinava l'organismo.
Nelle prime settimane si era detta che probabilmente doveva solo abituarsi agli orari e al ritmo delle pulizie veloci, ma più passava il tempo, più cominciò a sentirsi bloccata, immersa in una quotidianità che non la faceva sentire viva.
L'insoddisfazione non si fermava al lavoro: Nilufar non riusciva ad amare la casa che condivideva con il fidanzato. Si era sforzata contro ogni forza di volontà, ma quel bilocale stretto e soffocante, con una sola stanza da letto dall'arredo antico, era una prigione per la sua mente che aveva voglia di esplorare persino il confine. Il bagno senza finestra sembrava amplificare la sua sensazione di claustrofobia, e la cucina, con il piccolo balcone, era l'unico spazio in cui poteva respirare un po' d'aria fresca. Non c'era privacy, e per una come lei, che amava rifugiarsi nei suoi pensieri e negli spazi personali, questo era un peso insostenibile.
Fabio, con il suo urlare al computer per una partita persa, spesso invadeva inconsapevolmente quegli spazi. Lo faceva senza malizia, ma ogni volta che Nilufar sentiva la sua presenza troppo vicina un fastidio le montava dentro, una sensazione di essere soffocata in una relazione che non riusciva a dare respiro ai suoi bisogni più profondi.
Nilufar lo rispettava. Rispettava i suoi spazi e le sue passioni, era la base del loro equilibrio precario. Fabio passava ore e ore immerso nei suoi giochi, gli occhi fissi sullo schermo, come se il resto del mondo non esistesse. Era come se la sua mente si rifugiasse in un universo parallelo, dove non c'era spazio per lei, per i suoi bisogni o per le sue parole.
Nilufar non lo capiva, ma lo accettava. Era il suo modo di sfuggire alla realtà, come lei si perdeva nei suoi libri o nelle sue fantasie. E proprio come lei rispettava quel suo isolamento volontario, avrebbe voluto che Fabio fosse in grado di fare altrettanto. Glielo aveva chiesto più volte, non con rabbia ma con una dolce insistenza: «Amò, per favore, ho bisogno di un po' di tranquillità, di un angolo solo mio.»
La sua richiesta era sempre la stessa, semplice, ma sembrava non trovare mai ascolto. Fabio era un tipo irascibile e distratto, ed era come se le sue parole si disperdessero nell'aria non appena uscivano dalla bocca. Lui annuiva distrattamente, promettendo che si sarebbe ricordato, ma bastava un momento di frustrazione nel gioco perché tutto si dissolvesse. Ogni volta che Nilufar provava a ritagliarsi uno spazio per sé, ogni tentativo di chiudersi nel silenzio della lettura o nella scrittura dei suoi pensieri, veniva interrotto da quel grido che ormai era diventato insopportabile.
Fabio era rumoroso, esplosivo. Quando qualcosa non andava nel gioco, quando perdeva una partita o qualcosa non andava come previsto, le sue grida riempivano l'intero appartamento. Non c'era un posto dove Nilufar potesse nascondersi o trovare un po' di pace. Le pareti del bilocale erano troppo sottili, l'eco della sua voce si diffondeva ovunque, rimbalzando nei piccoli spazi come un'onda incessante. Lei tentava di isolarsi, si rifugiava in bagno o usciva sul balcone, ma la sensazione di essere costantemente invasa era sempre lì, come un'ombra.
Nilufar si chiedeva spesso quanto avrebbe potuto ancora sopportare. Si sforzava di rimanere calma, di non far trasparire quanto quelle continue interruzioni e urla la stessero logorando. Ogni giorno sembrava una battaglia silenziosa tra il suo bisogno di pace e la caotica esuberanza di Fabio. Lei gli aveva chiesto solo una cosa: che rispettasse i suoi spazi, così come lei faceva con lui. Ma quella piccola richiesta sembrava troppo difficile per Fabio.
La sera precedente era stata particolarmente difficile. Avevano avuto l'ennesima discussione, una di quelle in cui le parole non risolvono niente, ma anzi scavano una frattura sempre più profonda.
Nilufar si era ritirata presto, frustrata e delusa, sperando che la notte avrebbe portato un po' di sollievo, ma non fu così. La sensazione di amarezza e incomprensione non l'aveva abbandonata. Quella mattina, il peso dell'ennesima delusione era ancora lì, adagiato pesantemente sul suo petto, rendendo difficile perfino il respirare.
Fabio, d'altra parte, non sembrava accorgersi di quanto Nilufar si sentisse distante. Era immerso nei suoi progetti, convinto che stesse facendo il meglio per entrambi, ma la distanza emotiva che si era creata tra loro era ormai un abisso.
Nilufar fissava lo schermo del suo telefono, il cuore che batteva più forte a ogni secondo di silenzio tra un messaggio e l'altro. Le dita tremavano leggermente mentre rileggeva l'ultima notifica: uno smile.
Quel simbolo vuoto, che sembrava quasi una presa in giro in quel momento, le aveva fatto salire un nodo in gola. Fabio glielo aveva inviato come se quel piccolo cerchietto giallo potesse coprire il vuoto che si era aperto tra loro.
Non c'erano parole dietro quell'emoticon, nessuna spiegazione, nessun tentativo di aprirsi. Solo un inutile, sterile sorriso virtuale.
«Se non hai nulla da dire, evita queste false emoticon. Non sono scema e so che c'è qualcosa che non va», scrisse lei, cercando di mantenere la calma mentre sentiva crescere una rabbia sorda. L'ansia le stringeva il petto, la frustrazione le rendeva difficile concentrarsi su qualsiasi altra cosa.
Pochi istanti dopo arrivò la risposta di Fabio. Il suono della notifica la fece sobbalzare, ma non bastò a sciogliere la tensione.
La risposta era breve, distaccata: «Ne parliamo quando torni».
Nilufar sospirò, delusa. Quell'attesa costante, quella promessa di spiegazioni che non arrivavano, la facevano sentire come se fosse in sospeso, incapace di trovare una direzione. Sapeva che dietro a quel "ne parliamo" c'era qualcosa di grave.
«Va bene, ma se devi farmi un'altra sorpresa come l'ultima volta, evita. Vai e basta», gli rispose, con il cuore che iniziava a martellarle in petto.
«In che senso?», arrivò la risposta di lui, come se davvero non capisse. O forse non voleva capire.
Fabio aveva sempre avuto questa tendenza a scansare le questioni difficili, a fingere di non cogliere il sottotesto delle parole, ma Nilufar non aveva intenzione di lasciarlo sfuggire questa volta.
Le dita le tremavano mentre scriveva la risposta. Ogni lettera era un colpo, una ferita che si apriva di nuovo.
«Se te ne vuoi andare...»
Restò immobile, fissando quelle parole sullo schermo. Sapeva che quello era il punto di non ritorno.
Fabio ci mise qualche istante in più a rispondere, e Nilufar sentiva l'ansia crescere.
Finalmente, il telefono vibrò.
«Se me ne andassi via e basta sarei meschino, non trovi? Comunque pensa a lavorare ora, te l'ho detto, parliamo da vicino quando torni.»
«Vedi tu, non voglio rivivere quel momento... Sei troppo freddo. Arriva al sodo!», scrisse Nilufar, con un misto di rabbia e disperazione, facendogli inconsapevolmente pressione.
Il ricordo di quell'ultima volta, di quella discussione che non aveva portato a nulla se non a ulteriori ferite, era ancora troppo vivido. Fabio aveva un modo di essere che la faceva sentire come se ogni problema fosse solo suo, come se lui fosse immune alle tensioni tra loro.
Nilufar appoggiò il telefono sul sedile del furgoncino, sentendo un peso gravare sul petto. Mentre lo schermo si oscurava, lei si lasciò scivolare contro lo schienale, come se cercasse rifugio in quell'angolo stretto. L'interno del veicolo sembrava improvvisamente più piccolo, soffocante. Era come se le pareti stessero iniziando a chiudersi lentamente attorno a lei, lasciandole appena il respiro necessario per tenere a bada l'ansia che cresceva dentro.
Fuori, il sole del mattino brillava con una luce troppo forte, quasi ironica, data l'oscurità che sentiva in quel momento. Il signor Cesare, alla guida, era assorto nei suoi pensieri mentre il furgoncino attraversava il quartiere di San Marco Evangelista e si avvicinava al parco da pulire.
I successivi cinque minuti furono i più lunghi della sua Vita. Il silenzio attorno a lei diventava assordante, mentre la mente era un vortice di pensieri confusi: cosa stava succedendo veramente tra lei e Fabio? Perché aveva la sensazione che quella conversazione non avrebbe portato a nulla di buono?
Con ogni metro percorso, il suo malessere cresceva. Il tempo sembrava dilatarsi e il tragitto, seppur breve, diventava interminabile, un viaggio sospeso verso l'ignoto.
Quando finalmente scesero dal furgoncino, il parco appariva immenso, ma allo stesso tempo opprimente. Nilufar afferrò gli strumenti di pulizia, ma i suoi movimenti erano meccanici, privi di energia. Si avviò verso quella scala di due piani che doveva lavare, ma sembrava che l'incombenza fosse diventata improvvisamente insormontabile. Lo stomaco cominciava a contorcersi e sentiva che da un momento all'altro sarebbe stata male.
Poi, all'improvviso, sentì la vibrazione del telefono nel marsupio. Lasciò la scopa appoggiata al muro, inspirò profondamente e, con mani tremanti, cliccò sul messaggio.
«Nessuno vorrebbe rivivere un momento così, ma purtroppo a volte è necessario. Volevo dirtelo di persona, ma visto che mi stai facendo pressione...», iniziava il messaggio di Fabio. Le parole scorrevano sullo schermo, fredde e distanti, ogni frase una lama che si infilava nel cuore. Sentì un'ondata di nausea invaderla mentre continuava a leggere, costretta ad affrontare la realtà che tanto aveva temuto. «Io non ce la faccio più a continuare così. La realtà è che in me sono cresciute delle sensazioni man mano che sono rimasto con te e ti ho conosciuta meglio.»
Nilufar rimase immobile, le gambe sembravano non reggerla più. L'aria intorno si fece pesante e il parco, che normalmente le dava una sensazione di libertà, sembrava adesso un labirinto senza vie di fuga.
«Vedi, io non ci vedo proprio bene insieme. Siamo troppo diversi e facciamo troppa fatica a venirci incontro. Mi sono reso conto che non sto facendo altro che forzare questa relazione ad andare avanti. Io ci ho provato a farla funzionare, ma credo che tu non sia quella giusta per me, e me ne sono reso conto pian piano, poco a poco, e l'ho capito solo oggi ripensando agli ultimi avvenimenti. In più mi sono reso conto che anche l'amore che provavo per te, a poco a poco, si è spento. In pratica non vedo più un futuro per noi due e penso che tu saresti più felice con qualcun altro più simile a te. Mi dispiace dirtelo così, ma è inutile continuare a ignorare quello che provo e che ormai mi sembra chiaro. Noi due siamo entrambi infelici insieme. E per il nostro bene, credo sia meglio che io me ne vada.»
Ed eccolo il mondo che, ancora una volta, si sgretolava sotto ai suoi piedi. Non c'era un appiglio a cui aggrapparsi per non essere sepolta sotto le macerie, né qualcuno che l'abbracciasse per condividere le percosse a quel cuore che, già colmo di cerotti, tentava l'ennesima rianimazione. Il respiro le si spezzava in petto, come se l'aria stessa fosse diventata un peso insopportabile. Le gambe erano troppo pesanti e mentre faticava a scendere il secchio dalle scale per appoggiarlo all'ingresso del condominio, le dita rigide e tremanti non riuscivano a mantenere una presa sicura.
Nilufar lo chiamò. La sua voce, stridula e spezzata, riempì l'aria circostante con una disperazione palpabile. Mise i suoi bisogni prima di ogni cosa, prima di lui, accecata dalla rabbia, delusa come donna e frustrata. Ogni parola era un colpo inferto al silenzio, un coltello affilato che squarciava l'anima all'altro capo del cellulare, quel povero ragazzo che, con parole placide e caute, provava a farla ragionare.
Ma Nilufar non aveva tutti i torti. Lei si sentiva usata, tradita: la sera prima avevano giaciuto insieme e quella mattina, quando si erano salutati, lui l'aveva baciata come se nulla fosse cambiato. Come se il mondo non stesse crollando.
La confusione e il dolore le si erano attorcigliati nello stomaco, trasformando l'amore in amarezza.
Non seppe con quale forza riuscì a terminare la giornata lavorativa. Il viso pallido, le mani indurite dai detergenti e il corpo esausto, sembravano solo la cornice di un'anima ormai vacillante.
Il titolare dell'impresa, il signor Cesare, si era accorto della sua agitazione e, con un sorriso incerto, le aveva offerto una pausa più lunga, mentre la collega Maria, discreta ma premurosa, le aveva lasciato un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. Ma lei aveva il disperato bisogno di tornare a casa e fermarlo per la terza volta.
E quando, terminate le pulizie alla fabbrica del ferro due ore dopo, la lasciarono al mercato di Casagiove, Nilufar sentì il peso del mondo intero sulle spalle. Il cielo si stava tingendo di nuvole e ogni cosa sembrava avvolta da un'oscurità che le faceva eco dentro. Lottò contro i crampi allo stomaco, contro il cuore che le pulsava nelle orecchie, così forte che sembrava volerle esplodere nel petto. La bocca arida, incapace di pronunciare parole di conforto nemmeno a sé stessa, rendeva ogni respiro affannoso. Eppure, continuò a correre. Si trascinò verso di lui, ansimante, con il volto cinereo e quasi cadde dalla stanchezza.
Quando finalmente arrivò all'ingresso del palazzo, le scale sembravano infinite, come se la separassero da un destino che non voleva affrontare. Le salì due a due, spinta dalla paura, dalla speranza disperata che tutto potesse ancora essere salvato. La porta si aprì con un cigolio sinistro, e con mano tremante la sbatté alle sue spalle. Corse in camera da letto, quasi inciampando nei suoi stessi passi.
Il silenzio della stanza era irreale. Questa volta i cerotti che avvolgevano il suo cuore si staccarono per davvero e i cocci caddero, frantumandosi nell'anima ormai morta, così il dandelion che voleva essere appassì senza pietà.
Fabio, con il volto teso e gli occhi stanchi, stava raccattando le sue cose, deciso ad andarsene. Sul letto giacevano le valigie già colme di roba, un simbolo di fine che Nilufar non riusciva a tollerare. Tentò di essere razionale, di dirle che non c'era altra scelta, che forse era meglio così. Ma le sue parole erano solo sussurri contro la tempesta.
Nilufar era un fiume in piena, preda di ansie e paure che la divoravano dall'interno. Ogni parola che pronunciava era un grido disperato, un tentativo maldestro di trattenere ciò che ormai sembrava inevitabile. Piangeva, tremava, e in quel momento sentiva che il mondo non solo si sgretolava sotto i suoi piedi, ma la stava inghiottendo del tutto.
Fabio, impotente davanti a tanto dolore, la guardava con gli occhi di chi vorrebbe salvarla, ma sa che non può.
«Io voglio stare con te!», singhiozzò lei, con le mani tremanti che si aggrappavano a lui, come se cercassero disperatamente di trattenere qualcosa che ormai le sfuggiva.
Le lacrime le rigavano il volto, bagnando le guance brucianti, ma non le importava. Il petto si alzava e si abbassava con respiri affannosi, interrotti dal peso del dolore. I suoi occhi, arrossati e gonfi, lo cercavano, cercavano una risposta che potesse dare senso a quel caos che la stava inghiottendo. La voce le tremava mentre il suo cuore sembrava esplodere, e ogni parola che pronunciava era un colpo diretto al silenzio opprimente della stanza.
«Non lasciarmi di nuovo... non ci credo che finisce così... Stanotte ho sentito il bene che provi per me, quando mi hai abbracciata. E pure stamattina quando mi hai baciata.»
Fabio si passò una mano tra i capelli, nervoso, evitando il suo sguardo. La stanza sembrava rimpicciolirsi attorno a loro, soffocante. Il ticchettio dell'orologio era l'unico suono, inesorabile, come il tempo che stava per separare le loro vite. Il suo volto era una maschera di stanchezza, gli occhi cerchiati e il respiro lento e pesante, come se ogni parola che stava per dire richiedesse uno sforzo immane.
«Se davvero ci tieni a me lasciami andare allora, per il mio bene», le disse lui con una calma che sembrava forzata, quasi meccanica. La sua voce era bassa, ferma, priva di calore. Stava cercando di mantenere il controllo, mentre stringeva i pugni lungo i fianchi, combattendo contro la voglia di voltarsi e uscire di corsa da quella stanza.
«Non posso. È proprio perché ci tengo a te che voglio continuare. Ti prego, amò, ti amo», sussurrò lei, il fiato spezzato. La sua mano scivolò, ricadendo pesantemente lungo il fianco, come se avesse perso l'ultima forza che le restava. Si fece indietro di un passo, quasi barcollando, e lo fissò con uno sguardo disperato, cercando ancora una volta qualcosa nei suoi occhi che potesse indicarle una via d'uscita, un motivo per sperare.
Lui sospirò, chiudendo gli occhi per un attimo, come se stesse cercando di trovare la forza per proseguire. Le valigie sul letto, ordinate ma pesanti, sembravano un confine invalicabile tra di loro, simbolo di una decisione già presa.
«Rispetta anche quello che sento io. Non voglio più continuare, te l'ho detto! Ci ho già provato la volta scorsa, come hai visto, e rieccoci di nuovo qui», continuò Fabio, aprendo gli occhi e guardandola, ma il suo sguardo era vuoto, distante, come se stesse già altrove. Si strofinò la fronte, nervoso, poi alzò le spalle in un gesto di resa. «Continuare sarebbe solo una presa in giro per entrambi. Sì, staremo male all'inizio, ma poi si sta meglio. Meglio di come stiamo ora di sicuro.»
Le sue parole colpirono come pugni, l'eco del suo rifiuto risuonò nella stanza. Lei scosse la testa, quasi non credendo a quello che aveva sentito.
«Non è vero! Ti prego... non scappare di nuovo... Per favore, amò! Voglio stare con te!», strepitò Nilufar.
Si aggrappò al suo braccio, ma Fabio lo tirò via con dolcezza, evitando di guardarla negli occhi. Ogni respiro era una pugnalata nel petto, ogni movimento la faceva sentire più lontana, più persa.
Fabio fece un passo indietro, creando ancora più distanza.
«Io non sono felice con te, come te lo devo dire?» La sua voce si incrinò per un istante, ma si riprese subito. «Non mi trovo più bene a stare insieme. Quando sto con te sto male, perché ho capito che non sei fatta per me e non lo volevo accettare. E ora, con quello che ho provato, ne sono sicuro. Non puoi fare nulla perché semplicemente non funziona tra noi.»
Ogni parola era un colpo, un taglio netto che la separava dalla realtà. Lei scosse la testa con veemenza, come se rifiutare le sue parole potesse cancellarle. Ma lui continuò, più deciso, più freddo.
«E lo sai anche tu, ma fai finta di non saperlo perché hai paura di stare da sola.»
Quelle ultime parole caddero pesanti come macigni.
Niluifar rimase immobile, incapace di rispondere, incapace di reagire.
Paura di stare da sola...
No. Lei non aveva paura che ciò accadesse. La paura l'aveva già affrontata mille volte, e ogni volta ne era uscita più forte. Aveva lottato contro la fame quando non c'era lavoro, stringendo la cintura sempre più stretta attorno ai fianchi, e si era lavata con l'acqua gelida in pieno inverno, sentendo la pelle che le bruciava per il freddo, perché mancavano i soldi per pagare il gas. Ogni giorno era stata una battaglia, una prova di resistenza, eppure aveva tenuto duro. Non si era mai tirata indietro, nemmeno quando la vita le aveva messo di fronte la depressione di sua madre, che si era rifugiata nell'alcol, lasciandole sulle spalle il peso della casa e della famiglia.
Lei ne aveva pagato il prezzo, fisico ed emotivo, ma non si era mai arresa.
Aveva dormito per terra quando si era rotto il letto, ogni muscolo del suo corpo protestava al mattino, ma aveva stretto i denti. Aveva badato alle sue sorelline, anche se era poco più che un'adolescente lei stessa, e quando non c'era cibo in casa, si era nutrita di un panettone scaduto, preferendo il rischio di star male piuttosto che continuare a sentire i crampi della fame che la consumavano la notte.
Lei non aveva paura. Lei era innamorata.
«Per favore, Fabio...», sussurrò, la voce appena udibile, come se le parole stesse le bruciassero in gola.
Non era la richiesta disperata di una donna spaventata, ma l'ultimo appiglio di chi aveva dato tutto e non voleva vedere il suo mondo crollare un'altra volta.
«No!», rispose lui bruscamente, la voce tagliente come un coltello. «Non ti accetto più per come sei.»
Per come sei...
Nilufar abbassò lo sguardo per un istante, le mani strette in pugni lungo i fianchi. Dentro, una parte di sé voleva gridargli in faccia: "Tu non sei meglio di me". Voleva fargli capire che lui non aveva mai davvero visto tutto ciò che lei aveva affrontato, tutto ciò che lei era. Ma non disse nulla. In quel momento, le sue parole sarebbero state sprecate.
«Siamo stati insieme stanotte...», mormorò con voce spezzata, cercando di afferrare l'ultimo frammento di ciò che credeva fosse ancora reale.
Il ricordo del loro corpo che si fondeva in uno, le mani di lui che la stringevano come se non volesse lasciarla mai, ora sembrava una bugia crudele.
Fabio scosse la testa con frustrazione.
«Dovresti credere a quello che dico, non solo a quello che vuoi credere tu», il tono della sua voce era gelido, come se ogni emozione fosse stata spenta, lasciando solo un vuoto doloroso tra di loro.
«Io voglio un futuro con te», disse lei, cercando di recuperare almeno un pezzo di ciò che avevano immaginato insieme. «Con la casa che progettavamo.»
«La casa, sì. Be', il fatto di non poterci ancora andare mi faceva piacere da un lato, perché non me la sentivo.»
«Amò...»
Il sussurro di Nulufar era quasi un lamento, come se chiamarlo con quel nomignolo potesse riportarlo indietro. Ma lui non la guardava nemmeno più.
«Vedo che il nostro rapporto non fa altro che vacillare. Ho aspettato, sperando che magari le cose migliorassero», fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste, ma alla fine furono ancora più dolorose di quanto lei potesse immaginare. «Be', sono peggiorate.»
Nilufar sentì il cuore affondare nel petto, come se una mano invisibile lo stesse stringendo fino a farlo scoppiare. Gli occhi le si riempirono di altre lacrime, ma non voleva piangere. Non più. Non davanti a lui.
«Ti prego...», ripeté, ma questa volta era solo un sussurro rotto.
«Non ti amo più», disse Fabio con una voce che suonava più come una condanna. «Sono solo un cumulo di tristezza e frustrazione. Voglio solo andarmene!»
Quelle parole risuonarono nella stanza come un'eco infinita.
Nilufar rimase immobile, incapace di muoversi, incapace di reagire. Non c'era nulla da fare. Tutto il coraggio, la forza che l'aveva sempre sostenuta, ora sembrava evaporare sotto il peso di quell'addio. E per la prima volta in tanto tempo, si sentì davvero sola.
In preda alla disperazione, afferrò Fabio per le spalle e lo spinse a sedersi sul letto con una forza inaspettata. I suoi occhi erano velati di lacrime e ogni respiro sembrava spezzato a metà dai singhiozzi che la scuotevano. Senza preavviso, gli gettò le braccia al collo e si strinse a lui, quasi soffocandolo con quell'abbraccio disperato. Ogni lacrima che aveva ripreso a scendere lungo il viso gli bagnava la maglietta, ma lei non riusciva a smettere, perché il dolore che sentiva dentro doveva trovare una via di fuga in qualche modo.
Con mani tremanti, infilò le dita in tasca e tirò fuori una lametta. Era una di quelle che usava al lavoro, per rimuovere lo scotch dai portoncini dopo averli puliti. L'oggetto metallico luccicava alla luce fioca della stanza, quasi innocuo nella sua semplicità, ma nelle sue mani diventava l'arma del suo tormento interiore. Iniziò a parlare, balbettando scuse confuse, farneticando frasi prive di logica, mentre con movimenti rapidi e precisi la lama cominciava a segnare la pelle delle sue braccia.
Il primo taglio fu netto, superficiale, e il dolore la colse di sorpresa, simile a quello che si prova affettando le verdure quando ci si taglia involontariamente un dito. Ma quel dolore... quel dolore le piacque. Sentì come se, attraverso quella lama, potesse sfuggire a qualcosa di più grande, come se potesse bilanciare quello che sentiva dentro. Era come tornare a vivere, percepire davvero la propria esistenza. Più la lama affondava nella pelle, più si aggrappava alla vita peggio di un naufrago che si aggrappa a un pezzo di legno in mezzo a un mare in tempesta.
Fabio, a quel punto, si accorse che qualcosa non andava. La sentiva agitarsi tra le sue braccia e l'istinto lo spinse a guardare. Il sangue le scorreva lungo le braccia e la vista di quel rosso vivo lo fece gelare.
«Che stai facendo?», strepitò, la voce intrisa di panico.
Provò a fermarla, a prendere la lametta dalle sue mani, ma Nilufar lo spinse via con una forza nuova, quasi brutale. Voleva continuare, doveva farlo. Alzò l'arma e tracciò un taglio lungo la zona del collo, sentendo le lacrime che le scendevano copiose. Ogni lacrima si mescolava al sangue, creando una macabra danza tra la vita e la sofferenza.
Fabio, terrorizzato, riuscì finalmente a strapparle la lametta dalle mani, e Nilufar scoppiò in un urlo rabbioso, dando in escandescenza.
«OGNI VOLTA CHE VEDRAI IL SANGUE, DOVRAI RAMMENTARE QUESTA SCENA!», gridò, le parole taglienti come la lametta che aveva usato.
Parole dure, parole crudeli, che riecheggiavano nella stanza come un'eco che non avrebbe mai smesso di tormentarlo.
Nilufar scappò via, correndo verso la cucina, quasi fuori di sé. Cercava qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse completare quel dolore che la consumava. Aprì il cassetto dei detersivi e cercò febbrilmente la candeggina, ma non c'era. Ansimante, si accontentò del Bref con l'etichetta blu, lo afferrò con mani tremanti e cercò di aprirlo per ingerirlo. Ma Fabio riuscì a strapparglielo di mano prima che potesse farlo.
Nilufar cadde a terra, senza più forze, lasciando che il suo corpo si accasciasse sul pavimento freddo. Non le importava quanto potesse sembrare folle in quel momento, quanto fosse fuori di testa. Tutto il dolore, la rabbia, il senso di colpa e la frustrazione si riversavano in quel gesto, come se stesse cercando disperatamente di farsi sentire, di fargli capire quanto fosse profonda la sua sofferenza.
Fabio, ancora tremante, la sollevò da terra. Tentò di portarla a casa di sua madre, sperando che la presenza di un adulto, di una figura familiare, potesse calmarla. Ma Nilufar lo spinse di nuovo, questa volta facendolo cadere sul divano, e crollò tra le sue braccia.
Per un attimo il tempo sembrò fermarsi.
Nilufar affondò il viso contro il suo petto, respirando il suo odore, cercando di imprimerlo nei suoi ricordi come l'ultimo frammento di quella relazione che sentiva ormai perduta.
La stanza era silenziosa, fatta eccezione per i singhiozzi di Fabio, che ora stava piangendo come un bambino. I suoi occhi erano fissi sulle braccia di Nilufar, sul sangue che le macchiava la pelle bianca, sul segno tangibile di ciò che aveva distrutto.
«Guarda cosa ti ho fatto...», sussurrò, la voce spezzata dal dolore e dal senso di colpa.
Nilufar, con un gesto delicato, lo strinse ancora più forte.
«Non sei stato tu, amore mio», sussurrò, cercando di calmare i singhiozzi, anche se dentro di sé sentiva ancora quel caos incontrollabile. «Sono stata io... è tutta colpa mia! Rovino tutto quello che tocco...»
I loro animi, lentamente, cominciarono a placarsi. Le voci si abbassarono e per la prima volta, in quella giornata, cominciarono a conversare come due persone civili.
Parlarono, scoprendo che entrambi avevano commesso errori, che entrambi avevano contribuito alla caduta di quel rapporto. E, tra quelle parole sincere, riaffiorò anche l'amore che ancora li legava. Si accorsero che forse, dopotutto, c'era ancora qualcosa da salvare, che forse si poteva ricostruire ciò che avevano distrutto.
Ma col tempo, Nilufar si chiese se quella fosse stata davvero la scelta giusta. O se, in fondo, Fabio aveva avuto ragione: a volte, anche l'amore non è sufficiente a curare le ferite più profonde.
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