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Capitolo 5

Capitolo 5

La sveglia cominciò a suonare solo quattro ore dopo che Nilufar era finalmente riuscita ad addormentarsi. Il suono stridulo sembrava quasi irridere il suo tentativo di riposo. Con gli occhi ancora gonfi e la testa pesante, si sentiva come se un'ombra le fosse rimasta incollata addosso, prosciugandola di energia.

Nonostante il giorno fosse appena iniziato, il suo corpo era già esausto. Il divano stropicciato testimoniava il tormento notturno: aveva passato ore a rigirarsi su un fianco all'altro, incapace di trovare pace, soffocata da un senso di angoscia che le stringeva il petto come una morsa invisibile.

Mentre si tirava a sedere sul bordo, sentì un vuoto dentro, una ferita che sembrava non volersi chiudere. Invece di sentirsi meglio, si ritrovava a lottare con una sensazione di perdita che le scavava dentro. Ogni ricordo, ogni pensiero di Fabio sembrava allargare quello squarcio che portava nell'anima, un dolore silenzioso ma costante.

Si trascinò in bagno, fissando il riflesso nello specchio con occhi spenti. Il viso pallido, segnato dalle occhiaie, era la testimonianza delle sue notti insonni. "Come posso andare avanti così?", si chiese in silenzio, ma sapeva già la risposta. Tre anni di ricordi non si cancellano con un battito di ciglia. Non si dimentica chi ti ha fatto ridere di cuore, chi sapeva tirarti su nei giorni di pioggia.

Fabio, con tutto ciò che rappresentava, continuava a essere un fantasma che la tormentava, anche se non faceva più parte della sua vita. Ma Nilufar sapeva anche che, con il tempo, le cose sarebbero cambiate. Le ferite, per quanto profonde, avrebbero smesso di sanguinare. Lui avrebbe occupato un posto diverso nei suoi ricordi, forse più distante, meno doloroso. E altre persone sarebbero passate nella sua vita, lasciando un segno, ma mai profondo come quello che aveva lasciato lui.

"Anche se ora non ci parliamo più, e siamo tornati a essere due sconosciuti persi nell'universo, devo rassegnarmi all'idea che farai sempre parte della mia vita, ma questa volta a modo mio", si disse con un sospiro, le labbra contratte in un sorriso amaro.

Con quella convinzione, o almeno con una parte di essa, Nilufar si preparò per il suo primo giorno conoscitivo di lavoro. Aprì l'armadio, lasciando che lo sguardo scivolasse sulle grucce: scelse un paio di jeans scuri, senza strappi, abbinati a una maglietta bianca con delicati motivi floreali. Niente di troppo appariscente, voleva apparire professionale ma rilassata. Decise di applicare un velo leggero di trucco, un po' di correttore per nascondere i segni della stanchezza e un tocco di mascara per aprire lo sguardo.

Si pettinò velocemente, lasciando che i suoi capelli le scivolassero morbidi sulle spalle. Ma appena sentì il calore soffocante della mattinata che si insinuava dalla finestra aperta, capì che non avrebbe mai sopportato quella chioma appiccicata al viso. "Troppo caldo", pensò, legandoli in una coda alta, lasciando che qualche ciocca ribelle incorniciasse il viso.

Infine, una spruzzata del suo profumo preferito dell'Avon: una fragranza leggera e fresca che la faceva sentire subito meglio.

Prima di uscire, si infilò un paio di scarpe comode e raccolse la sua borsa. Guardò per un attimo le chiavi di casa tra le mani, sentendo l'inquietudine di chi ancora non si sente veramente "a casa". Ma quella mattina, l'aria era diversa: un tepore gentile si posava sulla pelle e per un istante si concesse di assaporare quella sensazione. Chiuse la porta alle sue spalle, il rumore della serratura che scattava sembrava quasi mettere un punto fermo, un distacco simbolico da ciò che aveva lasciato indietro.

Il sole, già alto nel cielo, la avvolse mentre iniziava a camminare verso la sua nuova giornata. E, passo dopo passo, cercò di convincersi che, forse, anche quel cuore accartocciato avrebbe potuto tornare a battere libero.

Servendosi del navigatore, Nilufar raggiunse uno Starbucks vicino, sperando di trovare un po' di conforto in una colazione familiare. Entrando nel locale, l'atmosfera era quella tipica dei caffè internazionali: l'aroma del caffè appena macinato, il suono delle macchine per espresso in sottofondo e una lieve musichetta che cercava di dare un tocco rilassante al via vai incessante della clientela. Con un cenno rapido e un sorriso, ordinò il suo solito: un croissant e un cappuccino freddo.

Quando il vassoio le fu consegnato, si accorse subito che il croissant, per quanto croccante all'esterno, aveva la consistenza del polistirolo. Lo addentò comunque, sospirando.

Mentre si sedeva a uno dei tavolini in legno chiaro vicino alla finestra, osservò le persone che si affrettavano per strada, immerse nei loro impegni. Approfittò del momento di calma per documentarsi sulle colazioni giapponesi, una curiosità che le era sorta da quando era atterrata in Giappone. Aprì il browser e iniziò a leggere: scoprì che la colazione giapponese tradizionale era tutt'altro che leggera. Riso bianco al vapore, pesce alla griglia, natto (fagioli di soia fermentati) con sopra un uovo crudo, e la zuppa di miso accompagnata dai tsukemono, verdure sottaceto. Un contrasto netto con il suo croissant "made in Starbucks" e il cappuccino freddo.

"Un giorno ci proverò", pensò tra sé, fingendo coraggio. Ma subito dopo si corresse. "Non è vero, è che sono troppo golosa per mangiare riso al mattino!" Si concesse un sorriso ironico. "E poi, mica sono malata di stomaco da dover mangiare in bianco!"

Nel frattempo, si ritrovò a scorrere Instagram, ma senza prestare davvero attenzione a quello che appariva sullo schermo. Le immagini passavano davanti ai suoi occhi come un flusso indifferente. I video colorati e le storie frenetiche degli altri non riuscivano a distrarla dal pensiero del colloquio imminente. Continuava a tormentarsi su come sarebbe andata la giornata. Si immaginava già seduta di fronte a estranei, con domande pungenti che avrebbero messo in dubbio le sue capacità, e la paura di non essere all'altezza la paralizzava. Ma si fece una promessa in quel momento, mentre un'ombra di determinazione si faceva strada tra la sua ansia: avrebbe dato il meglio di sé. Non poteva permettersi di tornare indietro, non dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per arrivare fin lì.

Il colloquio si svolgeva in uno stabilimento nei pressi di Tokyo, lontano dal trambusto del centro. Arrivata sul posto, si trovò di fronte a un'area discreta. Il cancello era chiuso e i responsabili della manutenzione le vietarono l'ingresso, costringendola a chiamare la ditta che l'aveva ingaggiata. Non sapeva esattamente cosa aspettarsi, ma l'intera situazione la rendeva nervosa.

Poco dopo, una donna in abiti formali venne a prenderla, presentandosi come Haruka Takahashi.

Haruka era una donna elegante, dall'aspetto impeccabile: capelli neri lunghi e lisci, una pelle quasi di porcellana e un portamento fiero e sicuro. A trentacinque anni, emanava un'aura di sicurezza e intelligenza che Nilufar trovava affascinante e intimidatoria al tempo stesso. Con un cenno gentile, la invitò a seguirla all'interno.

Mentre camminavano per il lungo corridoio, Nilufar si rese conto di quanto fosse grande e moderno l'edificio. Tutto era fatto di vetro e acciaio, i riflessi delle luci artificiali si riverberavano sulle superfici lisce, creando un ambiente quasi futuristico. Si incrociavano con molte persone: tecnici con cuffie e attrezzature, addetti al montaggio e alla produzione video, altri alle prese con schermi pieni di grafici e dati. Lungo il tragitto, da alcune porte lasciate socchiuse, Nilufar intravide truccatori intenti a sistemare attori e modelle sotto i faretti brillanti.

L'ambiente era frenetico, quasi caotico, e il ritmo serrato delle conversazioni giapponesi la faceva sentire ancora più fuori posto.

Un senso di vuoto iniziò a farsi strada dentro di lei. "Cosa sto facendo qui?", si chiese, mentre una stretta di panico le avvolgeva lo stomaco. Ogni passo la faceva sentire sempre più piccola, in un mondo che sembrava troppo grande per le sue capacità. L'intero ambiente era surreale, come se stesse entrando in un universo che non le apparteneva. Le mani le sudavano mentre cercava di mantenere la calma.

Haruka si fermò davanti a una porta bianca, girò la maniglia con calma e la invitò a entrare. Nilufar esitò un istante, cercando di raccogliere le forze prima di varcare la soglia. "Coraggio", si disse, stringendo la borsa al petto. Avrebbe affrontato quel momento, qualunque cosa l'attendesse dall'altra parte di quella porta.

La stanza era arredata con sobrietà ed eleganza. Una grande vetrata panoramica incorniciava la vista su Tokyo, lasciando entrare una luce fredda e uniforme. Da un lato, un ampio divano in pelle nera; dall'altro, una scrivania di legno scuro perfettamente ordinata, dove sedeva il direttore del reparto trucco, Takeshi Nakamura. Il suo completo blu scuro, tagliato su misura, evidenziava la sua corporatura atletica per un uomo intorno ai quarant'anni. Il viso regolare e sereno era incorniciato da capelli neri tagliati corti, e i suoi occhi scuri tradivano una calma osservatrice.

«Signor Nakamura, la candidata arrivata dall'Italia», annunciò con un rispettoso inchino la donna in divisa.

Nakamura annuì, con un lieve cenno della mano.

«Prego, si accomodi», disse con voce controllata, accennando al posto di fronte alla sua scrivania.

Nilufar si sentiva fuori luogo. Il suo corpo tradiva un leggero disagio: il calore nella stanza sembrava più intenso e una sottile tensione le percorreva la schiena. Sedette con cautela, incrociando le gambe sotto la sedia, mentre le mani si nascondevano nervosamente sotto il bordo della scrivania. Cercò di mantenere la calma, concentrandosi sulle parole del direttore e tentando di apparire composta, lontana dall'immagine della classica straniera impacciata.

«Dal suo curriculum emerge che ha esperienza nel trucco e nella realizzazione di acconciature. È corretto?», chiese Nakamura, con una tonalità che non tradiva emozioni.

«Sì, signore», rispose Nilufar, abbassando leggermente lo sguardo in segno di rispetto.

Nakamura prese una breve pausa, poi continuò: «Le verranno concessi alcuni giorni di prova. Nel frattempo, valuteremo le sue competenze e terremo conto del feedback del team, soprattutto per quanto riguarda il comfort e l'armonia tra gli spettacoli. In passato, abbiamo avuto episodi di disagio che desideriamo evitare.»

«La ringrazio per questa opportunità, signore», rispose Nilufar, cercando di mantenere un tono professionale.

Nakamura fece un cenno alla donna che l'aveva accompagnata. «Signora Takahashi, per favore, mostri alla signorina il camerino dei tre artisti selezionati e fornisca le istruzioni necessarie.»

La signora Takahashi si inchinò nuovamente, poi invitò Nilufar a seguirla.

Nilufar, dopo aver ringraziato con un rispettoso inchino, la seguì lungo un corridoio stretto e silenzioso, fino a giungere a una sala attrezzata con tutto il necessario: trucchi, costumi, parrucche e materiali professionali.

«Le presento il suo assistente, Shiin Hatake», disse Takahashi introducendo un giovane di ventitré anni, alto, magro e con un sorriso lievemente asimmetrico. «Shiin la assisterà nella preparazione dei ragazzi. Qui troverà tutto ciò di cui ha bisogno. Le ricordiamo che la discrezione è essenziale: i ragazzi stanno lavorando a una produzione importante e ci teniamo che, durante il tempo passato qui, possano sentirsi a proprio agio. La preghiamo di mantenere il massimo riserbo riguardo alle riprese e alla loro ubicazione. La sicurezza è una priorità.»

Nilufar annuì, prendendo nota mentalmente di ogni dettaglio, mentre osservava l'ambiente con un misto di ansia e determinazione.

La sfida professionale era appena iniziata.

«I ragazzi sono Sakurada Yamazaki, Kuina Haruno e Chishiya Murakami. Shiin, li vada a chiamare, per favore.»

Shiin si inchinò rispettosamente e lasciò la stanza.

Nilufar, rimasta sola per qualche momento, avvertì una stretta al petto. Era arrivata lì pensado di lavorare per qualcosa di meno compplicato. Ora la pressione la stava schiacciando: le aspettative erano troppo alte e non si sentiva minimamente all'altezza. E se avesse fallito? Non aveva nemmeno esperienza in produzioni di questo tipo. Ma non poté rimuginarci a lungo, perché Shiin tornò, seguito da due ragazzi e una ragazza.

Sakurada Yamazaki fu il primo a entrare. Era il più alto dei tre, con una presenza che riempiva la stanza. I suoi capelli neri come la pece, con riflessi blu che brillavano sotto la luce, incorniciavano un viso scherzoso. Un finto tatuaggio gli decorava il collo e un piercing al naso completava l'aria da ribelle. Salutò Nilufar con un inchino e un sorriso scanzonato, il sopracciglio tagliato nel mezzo gli conferiva un'aria ancora più irriverente.

Dietro di lui, Kuina Haruno entrò con passo leggero. Era una giovane ragazza dall'aspetto aggraziato, i suoi capelli rosa, simili ai fiori di ciliegio, legati in trecce finte, le ricadevano con eleganza sulle spalle. I suoi occhi marroni scrutavano l'ambiente con timidezza. Nilufar pensò che il trucco che indossava fosse eccessivo per il suo aspetto naturalmente dolce e innocente.

Infine, Chishiya Murakami. Alto poco più di Nilufar, con un atteggiamento chiuso e misterioso, i suoi capelli biondi ossigenati ricadevano disordinati attorno al viso. Aveva un'espressione enigmatica e il suo sorriso somigliava al muso tenero di un gatto.

Quando i loro sguardi si incrociarono, Nilufar spalancò gli occhi.

«Tu!», esclamò, riconoscendolo pur non mollando la sua espressione apprensiva.

Era il ragazzo con cui si era scontrata la sera prima.

Chishiya le sorrise in modo enigmatico, ma fu Sakurada a rompere il silenzio, avvicinandosi a Shiin e alla donna che l'aveva accompagnata fino a lì.

«Ok, ragazzi, basta con questa messa in scena», disse con un gesto della mano, la sua voce rilassata. «Non vedete che la state spaventando?»

Nilufar sgranò gli occhi, sorpresa. Shiin e la donna si guardarono tra loro, visibilmente imbarazzati.

«Non preoccuparti, siamo solo dei semplici ragazzi», continuò Sakurada, rivolgendosi direttamente a Nilufar con un sorriso rassicurante. «Non siamo attori, né celebrità. La sera scendiamo in piazza e facciamo show da artisti di strada. Abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci aiuti con trucco e parrucco prima di esibirci. Niente di così formale o stressante come un set cinematografico.»

Nilufar rimase senza parole. Tutta la tensione accumulata fino a quel momento sembrava svanire. Non erano attori famosi, né doveva preparare nulla per una grande produzione. Erano ragazzi come lei, semplici artisti di strada.

«Ma... io non ho davvero esperienza», ammise con voce incerta, guardando Sakurada con un misto di sollievo e imbarazzo.

«Non preoccuparti», rispose lui con una risata leggera. «Non ci serve un esperto di Hollywood. Ci serve solo qualcuno che ci dia una mano e ci aiuti a essere un po' più presentabili per il pubblico. È tutto molto più semplice di quanto pensi.»

Kuina le sorrise dolcemente, mentre Chishiya, con le mani ancora in tasca, si limitò a guardarla con un sorrisetto enigmatico. Sakurada le diede una pacca sulla spalla, come per rassicurarla.

Nilufar respirò più profondamente. La situazione si era ribaltata completamente. Da un lavoro che la faceva sentire inadeguata, era passata a qualcosa che poteva davvero gestire.

Forse, dopotutto, ce l'avrebbe fatta.

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