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22. Io non voglio farti innamorare

I am just a freak.

-Surf Curse


Ci sono alcuni sorrisi che sono stati disegnati apposta per noi, diceva mia nonna. Quando parli con qualcuno e lo vedi sorridere, ricordati che sei stata tu a creare quella piccola curva sul suo volto. C’è qualcosa di speciale in ogni sorriso, perfino in quelli tristi. Oh, soprattutto in quelli. Un sorriso triste non vorrebbe nemmeno baciarti il volto, eppure lo fa. Manifesta il tuo dolore, ecco perché ti anima il viso con delicatezza ed è con la stessa delicatezza che dovresti sfiorare la tristezza degli altri. Ama quel sorriso anche quando non ha voglia di manifestarsi e ama chi attraverso di esso saprà arrivarti dritto al tuo cuore.

Oh, come mi manchi, nonna…

Quanto vorrei poter parlare ancora con lei, sedute sul solito dondolo in giardino, mentre stringiamo tra le mani un bicchiere di limonata fresca preparata dal nonno. Gli occhi rivolti verso il cielo e i raggi del sole che tracciano il contorno del nostro volto.

E adesso, riporto con delicatezza gli occhi stanchi sulla figura di Tom, ammiro la sua espressione felice e gli sorrido, sentendomi capita da quel suo sorriso malinconico. Dietro a quella lieve curva si nasconde la sua gratitudine.

«Devo ammettere, piccola Chandra, che mi sei mancata», mi dice mentre camminiamo a passo lento sul lungomare puntellato da palme. «Oggi non sei andata a scuola?»

Il suono dei gabbiani e la gente che corre in spiaggia mi ricordano il momento trascorso insieme a Sasha. Un gruppo di ragazzi giocano a beach volley e altri cercano di cavalcare le onde.

«Mi sei mancato anche tu», sfrego il palmo sul suo braccio. «E no, oggi niente scuola», mi stringo nelle spalle con nonchalance. «Ho chiesto a Nino dove fossi, spero non sia un problema.»

«Come mai? Ti sei stancata, non è così?», ride e mi scompiglia i capelli, un gesto affettuoso. «Non è assolutamente un problema. Come puoi ben vedere, Nino è stato abbastanza gentile da offrirmi un suo vecchio cellulare», dalla tasca estrae un telefonino di vecchia generazione. «Meglio di niente.»

«Già. Ma adesso almeno posso chiamarti e assicurarmi che tu stia bene», gli do una piccola gomitata nel costato, lui ride.

«E io potrò fare la stessa cosa?», inarca un sopracciglio.

«Certo. Vuoi per caso sentire i miei lamenti prima del diploma?», abbasso lo sguardo e il sorriso si spegne lentamente. Chissà se riuscirò ad arrivarci viva fino ad allora.

«Manca sempre meno», cerca di incoraggiarmi. «Aspetta un secondo.»

Si allontana da me, io conficco le unghie nei palmi delle mani e cerco di calmarmi.

Non posso dirgli che mia madre mi ha buttata fuori di casa. Non posso dirgli che sono scappata come una codarda. Non posso dirgli che sono un fallimento e che, no, mio padre non sarebbe davvero così fiero di me.

Poco dopo mi raggiunge e dice: «Questo è per te», mi passa lo zucchero filato e lo guardo esterrefatta. «Tu mi hai regalato una nuova vita, io ti regalo una nuvola di zucchero.»

Sollevo gli occhi velati dalle lacrime e lo guardo come una figlia guarda il proprio padre. Ed eccola di nuovo quella piccola curva che ho disegnato sul volto; un raggio di luce trafigge le sue iridi e poi si ferma nel mio cuore. Un puntino rifulgente che si fa spazio in quel posto disabitato e polveroso.

«E spero di riempirti di nuvole di zucchero finché non riuscirò a regalarti il cielo in segno di ringraziamento», le sue parole mi entrano dentro con forza, sì fossilizzano da qualche parte tra le vertebre e acuiscono quel dolore che spesso fatico a nascondere.

«Infatti vorrei proprio avere un cielo tutto mio», gli dico con una risata poco sincera e fisso il bastoncino che stringo tra le dita. Una sfilza di immagini scorrono veloci davanti ai miei occhi. Non amo particolarmente lo zucchero filato. È appiccicoso e non sono una grande amante dei dolci, però la prima volta fu papà a comprarmelo al luna park, anche se poi Ruth si prese la briga di finirlo al posto mio. Allora le cose sembravano andare bene. Non mi odiava ed eravamo felici così.

«Però essere sotto lo stesso cielo e guardare la stessa luna ci fa sentire più uniti, anche quando si è lontani», ribatte regalandomi un sorriso dietro al quale giace la sua latente preoccupazione. Sto bene, vorrei dirgli.

«Favorisci?», allungo il bastoncino verso di lui e con le dita ne prende un po’.

«Sai cosa amo della vita?», esordisce all’improvviso e lo guardo attentamente. «I momenti così, Chandra. L’esatto istante in cui capisco che il sole ha deciso di brillare anche per me, dopo tanti giorni trascorsi a ripararmi dalla pioggia. È questa la vita: un cielo fatto di lampi, tuoni, sole e stelle.»

«Sono d’accordo.»

«Dopo tanto tempo passato in strada, so riconoscere un paio d’occhi tristi», si ferma e appoggia le mani sulle mie spalle. «Non sono qualcuno d’importante nella tua vita, e probabilmente mai lo sarò, però sappi che puoi parlarmi di tutto.»

Quando le parole non sono più in grado di unirsi, l’unico modo che ho di esprimere ciò che provo è l’abbraccio. Ed è una cosa che non accade spesso.

Chiudo gli occhi mentre immagino le braccia di mio padre circondare il mio esile corpo. Per la seconda volta non mi sento soffocata da qualcuno. È successo con Sasha quando mi sono intrufolata nella sua stanza. Ho abbracciato entrambi senza aver permesso alla paura di divorarmi dentro.

Eppure, ci sono attimi in cui non amo sentirmi intrappolata tra le braccia di un altro essere umano. Una parte della mia mente sussurra ogni volta: Chi ti stringe troppo, finirà per andare via e tu continuerai a cercare quelle braccia, senza più trovarle. Davvero desideri questo?

E mentre la mente me lo ricorda ancora, io mi stacco da Tom e deglutisco rumorosamente. Un’ondata di panico mi travolge di nuovo, ma il mio dolore rimane quieto in quel vuoto al centro del petto e per una volta decide di non risalire su, di non graffiarmi la gola.

«Sei l’unica persona che mi ricorda la figura paterna, quindi non dire mai più di non essere importante. La maggior parte delle volte io non so esprimermi a parole e spesso mi tengo le cose dentro, ma con i gesti sono più brava», mi asciugo rapidamente una lacrima che scorre lungo lo zigomo.

«È per tuo papà, non è così?», mi chiede, le sue dita pettinano i miei capelli con dolcezza.

«Cosa?», sollevo di poco il capo.

«Non riesci ad andare avanti, Chandra. So che è difficile, io ho perso tutto ciò che avevo di più bello. È solo che ad un certo punto tu ti fermi ma la vita no, quindi non permettere al mondo di girarti intorno con arroganza e non permettere alla tua mente di metterti i freni, impedendoti di girare insieme a lui. La vita è una questione di scelte. Scegli tu se restare ferma o riprendere da dove sei rimasta.»

E il suo discorso in questo momento mi ricorda terribilmente tanto le parole di Sasha.

“La vita cambia in base alle scelte che facciamo ogni giorno”.

«Stai sorridendo», mi fa presente Tom, dandomi un pizzicotto. «Non vorrei essere indiscreto, ma adesso sono davvero curioso di sapere chi è il fortunato.»

Infilo la mano dentro la tasca dei pantaloncini e poi fisso il fiore bianco sul palmo della mano, allargando ancora di più il mio sorriso.

«Si tratta decisamente di un ragazzo», dichiara, formando una o perfetta con la bocca.

Sento il calore propagarsi con velocità lungo le mie guance.

«Una persona un giorno mi ha detto una frase simile», gli spiego, infilando di nuovo il fiore dentro la tasca.

«E questa persona ha un nome?», inarca un sopracciglio e cerca di trattenere il sorriso.

Guarda, Sasha. Stai disegnando un sorriso sul mio volto e non sei nemmeno qui.

«Si chiama Sasha», ed è incasinato tanto quanto me.

«Com’è successo?», indica una panchina e ci sediamo all’ombra.

«Com’è successo cosa?», aggrotto le sopracciglia, confusa.

«Come ha fatto a fare breccia nel tuo cuore?», i suoi occhi sono illuminati da una pura allegria.

Mi stringo nuovamente a riccio. «Non lo so», ammetto e con le dita inizio a togliere la crosticina di una ferita sul ginocchio.

«Non lo sai», ripete con sguardo perso. «Ed è proprio nel non sapere una cosa che si nasconde la felicità. Non cercare mai di scoprirlo, va bene? Chiediti perché, ma non provare a darti per forza una risposta. Se ci riesci, allora sai esattamente come e perché è avvenuto. Se non sai, è perché non te lo aspettavi. Ed è quando non ti aspetti una cosa, che te la godi di più. Ascolta me, Chandra. Io non aspettavo un aiuto da parte tua, non so nemmeno perché o come sia successo. Ma so che adesso la mia vita è cambiata.»

Appoggio la testa sulla sua spalla e continuiamo a mangiare lo zucchero filato in silenzio. Vorrei dirgli il motivo per cui l’ho fatto. Perché è la mia ultima stupida buona azione prima di andarmene.

Ma adesso c’è un piccolo dubbio che si insinua dentro di me ogni volta che il mio sguardo incrocia quello di Sasha: Vuoi davvero andare via?

Non so darmi una risposta… ma forse ha ragione Tom. Magari è nel non sapere che si nascondono le cose più belle.

«Sai cosa amo di più, Tom?», gli dico con gli occhi puntati su un uccello che spicca il volo. «Quando la vita non conferma i miei pensieri». Quando non mi conferma che sono un disastro.  «E amo anche quando mi regala momenti così», aggiungo con un sorriso.

Quando più tardi torno a casa, noto che la macchina di mia madre non c’è. È andata al lavoro, per fortuna. A passo svelto mi dirigo verso la porta e faccio per entrare, ma non si apre. Mi hanno chiusa sul serio fuori?

Colpisco con il palmo della mano la superficie di legno bianco e trattengo un urlo di frustrazione. Controllo tutte le finestre, ma soltanto quella di mia sorella è aperta.

Bene, se non morirò cadendo dall’albero, morirò comunque per mano sua.

Inizio ad arrampicarmi sull’albero davanti alla sua finestra e mi muovo lentamente senza abbassare lo sguardo.

Scendo sul tetto e poi mi aggrappo al davanzale e mi infilo dentro la sua stanza come una ladra qualsiasi. Cado sul pavimento e mi sfugge un lamento di dolore. Cavolo, non metto piede qui dentro da una vita.

Mi alzo e mi guardo intorno spaesata. Ruth di solito è ordinata. Odia quando qualcuno tocca le sue cose. Che diavolo le è successo?

Sotto la sedia intravedo un paio di mutande rosse e ai piedi del letto un paio di boxer maschili.

Sul suo comodino c’è un portacenere e una lattina di birra vuota e sotto il letto una bottiglia di vino quasi finita. La sua scrivania è costellata da fazzoletti sporchi, scatole di pizza vuote e nel cestino della spazzatura intravedo perfino l’involucro color argento del preservativo. Ma che diavolo…

Mia sorella non ha mai portato gente in camera sua.

Ad attirare del tutto la mia attenzione è lo spinello a metà accanto alla tastiera del computer. Muovo il mouse e la schermata sì illumina. Davanti agli occhi spunta una pagina di Google ancora aperta.

“Centro di salute mentale”.

È questo ciò che ha cercato? Sta provando a chiedere aiuto? Sorrido e una piccola speranza si riaccende di nuovo dentro di me. Rilascio inaspettatamente un sospiro di sollievo.

Esco dalla sua stanza, chiudendo la porta alle mie spalle, e mi dirigo verso la mia. Chiudo a chiave e mi butto a peso morto sul letto.

Ruth chiederà aiuto e finalmente questo incubo finirà.

Ad ora di cena esco dalla mia stanza e scendo al piano di sotto. Mia madre sembra in attesa, lo sguardo impaziente.

Appena intercetta i miei passi il suo sguardo scatta verso di me e tira un sospiro di sollievo.

«Chandra», dice e si passa una mano tra i capelli biondi. «Vieni, voglio parlarti.»

Ho la gola secca, le mani tremano.

Scendo lentamente le scale, il palmo sudato scivola lungo il corrimano. Siamo faccia a faccia. Mi aspetto un’altra delle sue filippiche, ma apre le braccia e mi stringe a sé.

«Mi dispiace, Chandra. Ero soltanto arrabbiata, delusa e preoccupata.»

Rimango di sasso.

«Dove sei stata? Stai bene?», controlla ogni centimetro del mio corpo, ma cerco di staccarmi da lei delicatamente  e prendere le distanze.

«Sto bene», asserisco stringendo i denti. «Sono stata in un posto sicuro.»

«Dove?», insiste e racchiude il mio volto tra le sue mani.

«Sei pazza se pensi che ti fornirò un nome o un indirizzo», sussulto non appena finisco di pronunciare la frase. Perché sono così arrabbiata? Ha detto che le dispiace.

«Chandra, ho sbagliato, ma sono ancora tua madre e ho il diritto di sapere con chi esci e dove vai», puntualizza con tono severo.

«Forse dovresti tenere d’occhio l’altra figlia. Dopotutto, non sono io quella che lascia spinelli sulla scrivania, biancheria intima da uomo sul pavimento e bottiglie di bevande alcoliche vuote sul comodino», abbaio velenosa. Un sorriso perfido prende vita sul mio volto, una sensazione gratificante si fa spazio dentro di me. Vedi? Non sono io quella sbagliata.

Ma è soltanto quando vedo mia madre salire le scale come un tornado, che realizzo ciò che le ho appena detto. La rabbia e il rancore che provo per colpa di Ruth mi hanno portato a percorrere la sua stessa strada: quella della vendetta. E la parte cattiva di me, che continuo a reprimere con tutte le mie forze, inizia a farmi sempre più paura.

«Come diavolo è possibile?», grida al piano di sopra. Il cuore batte forte nel petto.

Mia madre scende le scale, ma questa volta non mi guarda nemmeno. Afferra il suo cellulare dalla borsa e se lo porta all’orecchio. Dopo poco la sento gridare: «Porta il tuo maledetto culo a casa e non farmelo ripetere una seconda volta. Ti voglio qui entro dieci minuti, sono stata chiara?»

Chiude la chiamata e getta lo smartphone sul divano. Il petto si solleva e si abbassa velocemente, ha le narici dilatate, lo sguardo pieno di rabbia. La stessa rabbia che aveva quando mi ha buttata fuori di casa.

Mi lancia un’occhiata tagliente e decido di sfuggire alla sua furia, così mi sposto silenziosamente in cucina e mi preparo un toast.

Mia madre si abbandona ad una risata isterica e poi si trascina pigramente verso di me. Prende un bicchiere e una bottiglia di vino e si siede su uno sgabello, sorreggendosi la testa con una mano.

«Non so cosa diavolo io abbia fatto di male per meritarmi tutto ciò», mormora e trangugia il liquido rosso in un unico sorso. Riempie di nuovo il bicchiere. «Sono esausta. Mi credi, Chandra? Una figlia si scopa solo Dio sa chi in casa mia, fuma erba e beve, e l’altra passa la notte fuori con chissà chi, dorme chissà dove, ma sono io quella che sbaglia, giusto?», si punta il dito contro, gli occhi velati dalle lacrime. «Sono io».

Rimango seduta sullo sgabello e continuo a piluccare il toast, ma ogni boccone sembra della ruvida sabbia che mi graffia la trachea.

Che cosa ho fatto?

E mentre lei si perde in un bicchiere di vino, mia sorella minuti dopo si precipita iraconda in cucina. «Perché mi hai parlato in quel modo?», l’aggredisce sin da subito.

Mamma alza piano lo sguardo verso di lei, ma Ruth riduce gli occhi a due fessure e mi fissa. Sa che c’entro io.

«Ho sempre rispettato la tua privacy, ma vorrei davvero sapere…», sorride amaramente. «Cos’è lo schifo che ho appena trovato nella tua stanza. Esigo una spiegazione, altrimenti, Ruth, le regole in questa casa cambieranno. Forse è arrivata l’ora che tu faccia l’adulta. In estate lavorerai, metterai da parte i tuoi risparmi per il college. Pulirai la casa quando non ci sono. Ti impegnerai in cucina. Mi darai una mano in tutto. E se le regole non ti stanno bene, allora sei libera di cercarti una casa per conto tuo.»

«Cosa?», Ruth spalanca gli occhi, io mento inizia a tremarle dalla rabbia. «Mamma, ti senti? Posa via quel cavolo di bicchiere e ragiona!»

Ma nostra madre non sembra più propensa ad un dialogo pacifico. «Sto ancora aspettando la tua spiegazione, Ruth».

Mia sorella però guarda me e stringe i pugni. «Sei stata tu, non è così? Cazzo, sei stata tu!», si avventa su di me, ma nostra madre la trattiene per il braccio e inizia ad urlarle contro.

E dopo aver passato il pomeriggio a lavarmi, a scrivere una lettera e a rimuginare sulle cose successe in quelle poche ora, adesso sento di nuovo i miei piedi muoversi rapidamente verso l’uscita. E ancora una volta, mi ritrovo da sola a correre per strada. I capelli fluttuano ad ogni mio passo, il respiro veloce mi ricorda che sono ancora qui, intrappolata in questa brutta realtà.

Ed è come se le mie paure, le mie lacrime e tutti i miei pensieri  mi portassero da lui.

Ho lo sguardo incollato sulla sua finestra, il desiderio di vederlo e sentirmi meno sola brucia come una ferita dentro di me. Prendo un sassolino per lanciarlo, ma ho una mira talmente orribile che finisco per colpire la macchina parcheggiata davanti al garage e scatta l’allarme.

«Merda, merda, merda», dico tra me e me. Qualcuno esce fuori, ferma l’allarme, e poi grida con voce dura: «Chi c’è lì?»

Inizio ad indietreggiare lentamente, i palmi sudati e i polmoni che minacciano di cedere da un momento all’altro.

«Controllo io, rientra pure», è la voce di Sasha.

Cado a terra sul marciapiede e gattono fino a nascondermi in mezzo a due cespugli. Perché diavolo sono qui?

«So che sei qui, esci fuori, chiunque tu sia», dice quasi con voce annoiata. Rimango raggomitolata, i ramoscelli mi graffiano la pelle e le foglie mi fanno venire voglia di grattarmi.

Tengo lo sguardo puntato sulle Vans nere davanti a me e poi Sasha si abbassa sulle ginocchia per guardarmi meglio in faccia.

«Non riesci più a stare senza di me, non è così?», e nella penombra intravedo le sue fossette e il suo sorriso mozzafiato.

«Ciao», dico con voce flebile. La sua mano si allunga verso il mio volto e mi sposta i capelli dietro l’orecchio. «Avresti potuto scrivermi su Instagram. Non è romantico provare a distruggere la macchina di mio padre».

«Hai detto che lo hai disinstallato e inoltre la batteria del mio cellulare è morta. Volevo colpire la tua finestra, non di certo la sua macchina», mi difendo.

Sasha si passa una mano tra i capelli neri e si siede accanto a me, davanti al cespuglio. «L’ho installato di nuovo», distoglie lo sguardo per un paio di secondi e si schiarisce la gola. «Solo per te.»

Tra di noi cala un silenzio imbarazzante.

«Cosa ti ha portato qui?, mi chiede, cambiando discorso. Faccio spallucce e mi aiuta ad alzarmi. Le sue dita scivolano sul mio braccio, facendomi venire la pelle d’oca. «Ti stai riempiendo di graffi a furia di cercarmi», mi rimbrotta.

E ancora una volta, non ho il coraggio di pronunciare le parole a voce alta. Guardami bene, Sasha. Il mio dolore percorre il sentiero che hai tracciato tu e adesso mi porta sempre da te.

«Non lo so», mento.

«Andiamo», mi fa cenno di seguirlo, sospira profondamente.

«Dove?», chiedo, ma le mie gambe hanno già preso a muoversi.

«Non lo so», mi rivolge un sorriso malandrino e cerco di stargli accanto, sorridendo a mia volta.

E quel “Non lo so” mi fa sorridere. Le parole di Tom rimbombano nella mia testa. Non sappiamo dove stiamo andando e sono felice.

«Perché sorridi in questo modo?», chiede e infila le mani dentro le tasche dei jeans neri.

«Perché per la prima volta sono felice di non avere una meta», confesso. «Fino a poco fa la mia meta eri tu.»

«Se è questo il tuo modo di farmi innamorare, sappi che-»

La mia testa scatta come una molla verso di lui. «Assolutamente no! Ma che vai a pensare?», esclamo, spalancando gli occhi.

«Fammi finire», mormora, ruotando gli occhi al cielo.

«Io non voglio farti innamorare. Dio, ci mancherebbe! Perché lo pensi? Sei impazzito?» Sasha si ferma e sospira. «Lascia perdere. Cammina e non aprire più la bocca».

E dopo un paio di minuti trascorsi in silenzio, picchietto le dita sulla sua spalla e bisbiglio: «Quindi davvero non sai dove stiamo andando?»

«Seguo l’istinto», ribatte, poi si ferma e gli viene la brillante idea di violare la proprietà privata di qualcuno. «Che stai facendo?», sibilo, pestando i piedi a terra come una bambina. «Torna qui!»

Un cane inizia ad abbaiare, Sasha corre verso di me. «Corri, Casper! Corri!», mi afferra per il braccio e mi trascina dietro di lui, ma i miei occhi seguono il movimento del fiore bianco che stringe nell’altra mano. Il vento leggero rimbalza sulla nostra pelle, il latrato rabbioso del cane viene rimpiazzato dallo scoppio delle nostre risate.

Mi fa svoltare di colpo l’angolo della strada e continuiamo a correre. Superiamo un cancello e ci fermiamo per riprendere fiato. Quando rialzo lo sguardo, Sasha corre verso la pista da skate e mi fa cenno di seguirlo.

«È un caso che siamo finiti qui?», gli chiedo.

«Sì, altrimenti avrei portato il mio skate», dice con il fiatone. Si avvicina ad una panchina e si abbassa sulle ginocchia, poi da sotto prende uno skateboard non proprio in ottime condizioni. «Però la vita mi vuole bene», mi fa l’occhiolino e io scuoto la testa.

«Qualcuno lo avrà dimenticato lì, rimettilo a posto», mi avvicino, ma lui non mi dà retta. Continua a tenere il fiore in una mano, nell’altra stringe lo skateboard. E soltanto adesso capisco che mi ha portato nel suo posto preferito. È il suo rifugio. È dove cadono tutte le sue maschere ed è dove inizio ad indossarle io. Mi sento un’intrusa.

«Vieni, ti aiuto a salire», mi indica una pista abbastanza alta e vorrei declinare l’invito, ma afferro la sua mano, la stessa che stringe il fiore. Abbasso lo sguardo sulla nostra stretta, su quei petali bianchi imprimo tutta la felicità che provo in questo momento. «È per te, comunque.»

E una volta in cima, lascia la mia mano e poi sorride e si lascia cadere nel vuoto, facendomi prendere un colpo. Lo vedo poco dopo dall’altro capo della pista mentre esegue un salto sullo skate. Ed è questa l’immagine più bella che i miei occhi abbiano mai visto. Ogni suo slancio verso l’alto sembra un tentativo di voler sfiorare il cielo. Un girasole che sboccia tra miliardi di stelle.

Ritorna da me, con un sorriso che gli bacia le labbra e gli occhi pieni di vita. «Dovresti provare. Mi sembra di volare», solleva lo sguardo verso il cielo, la sua mano sfiora la mia. «Mi piacerebbe», ammetto, guardandolo con la coda dell’occhio.

«Davvero?», chiede. Il suo sorriso è il cerotto più bello che io abbia mai usato per coprire le mie ferire.

Annuisco.

Lui si lancia di nuovo sulla pista, questa volta gridando: «Whooo!»

E io, con il fiore stretto al petto, sussurro: «Mi hai portato sul lato oscuro della luna, Baker.»

E chissà se c’è spazio anche per te.

Chissà quanto mi farà male.

È rimasto al centro della pista, sdraiato sullo skate mentre si dondola avanti e indietro. Le note della canzone Freaks raggiungono le mie orecchie. Sorrido. «Sai cosa mi piace in questo momento?», grido in modo che mi senta.

«Cosa?»

«Tu», rispondo.

«Cosa? Non ho sentito», si alza in piedi e mi guarda da laggiù.

«Non ho intenzione di ripeterlo», scoppio a ridere, lui afferra lo skate tra le mani e dice: «Adesso vengo lassù e me lo dici».

Ma io non so essere coraggiosa due volte di fila.


Ecco il nuovo capitolo ❤️🌻 ci ho messo un po' a scriverlo, perché, se devo essere sincera, la notizia della guerra in Ucraina mi ha sconvolta e per giorni non sono riuscita a fare altro, a parte informarmi. Diciamo che mi sono sentita prosciugata dalla notizia, ed è soltanto da pochi giorni che cerco di informarmi di meno (ed è meglio così per la mia salute mentale), e fare ancora le cose che mi piacciono. Il prossimo capitolo sarà probabilmente la lettera di Chandra. 🌻

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