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21. Io non voglio essere qui, Baker

 Say I wouldn't care if you walked away
But every time you're there I'm begging you to stay.

-Paloma Faith

Sasha

Qualcosa di delicato solletica le mie narici.
Apro un occhio e la prima cosa che noto sono i suoi capelli lunghi sul mio petto e sulla mia faccia. Un ventaglio di seta dal profumo dolce. Afferro una ciocca e la faccio scivolare tra le mie dita. Chiudo gli occhi ed inspiro profondamente. Non è davvero qui. Dev’essere un sogno. Un’allucinazione.

Ma quando risollevo lentamente le palpebre la vedo accanto a me, rannicchiata, mentre stringe al petto il cuscino e mi dà le spalle. Quel cuscino era la nostra unica barriera. Una barriera che avrebbe dovuto proteggerci da… non so nemmeno io cosa. Ho avvertito fin dentro le viscere il desiderio urgente di averla vicina, ma lontana. Ad un passo dal poterla guardare negli occhi, ma abbastanza lontana da non poterla sfiorare. E quella lontananza, purtroppo, l’ho vista soltanto nella mia mente, perché lei è più vicina di quanto mi aspettassi. Molto vicina. Abbasso lo sguardo verso la sua schiena leggermente inarcata e sul suo sedere molto vicino ad una zona delicata. Cristo santo.

Sposto i suoi capelli e mi alzo piano dal letto, piantando i piedi a terra. Fisso il pavimento per un paio di secondi e mi passo la mano tra i capelli. Ho dormito insieme a Chandra Stewart.

Mi alzo in piedi e rimango immobile con lo sguardo inchiodato sul suo viso rilassato e illuminato da un pallido raggio di sole. Inizio a pensare. Penso a così tante cose che non saprei dove collocare i miei pensieri: in quel posto oscuro dentro di me oppure in quello spazio luminoso dove appare costantemente il suo volto negli ultimi giorni? L’ho vista scontrosa, l’ho vista sorridere, l’ho vista piangere. Ho visto la sua rabbia soffocarla, il dolore atterrirla e la voglia di sparire avvolgerla. Ho visto tutte le sfumature che ha mostrato senza timore e le ho racchiuse nella mia mente una ad una. Ho visto un attimo di allegria baciarle le labbra e la tristezza trovare rifugio nei suoi occhi. Ho visto tutto e non ho ignorato nulla.

E in questo momento vorrei allungare la mia mano verso la sua fronte, sfiorarla e prendere i suoi pensieri più brutti e farli diventare miei. Vorrei dirle che sono io la persona a cui non vede l’ora di scrivere. Che sono io il ragazzo che si allontana e si avvicina continuamente, come se fossi un elastico che tira troppo e poi lo rilascia all’improvviso. Quante maschere devo indossare anche con te?

Sono io, Chandra. Sono io quello che ha dovuto far rinascere di nuovo la sua fenice. Aggiungo vita ai tuoi giorni e tu doni un po’ luce al mio cielo senza stelle. E anche se non lo sai, siamo una luna divisa a metà che non si completerà mai.

Mi sposto pigramente ai piedi del letto per guardarle meglio il viso. Sembra triste anche mentre dorme. Mi chiedo cosa sia successo… perché è venuta da me? Perché non è corsa dalla sua amica? Come ha fatto a salire quassù?

I miei occhi scendono sulle sue ginocchia graffiate e sento una stretta intorno allo stomaco. Tra tutte le ferite che esistono, quelle che fanno uscire sangue sono le uniche che non vorrei vedere sul suo corpo.

Perché io ne ho avute così tante addosso e continuo ad averne, che ogni singolo giorno della mia vita si trasforma in un livido sul mio corpo.

Abbasso lo sguardo sulla cicatrice che ho sul braccio e deglutisco.

Chandra non merita di stare qui. Non merita di avere uno come me accanto.

È lei a non meritarlo o forse sei tu a pensare di non meritare lei?

Ma lei è qui… e sta dormendo su un letto di spine, dove il mio sangue e il mio dolore si sono mischiati un sacco di volte. Sta dormendo tra le mie tenebre e non ha paura. E vorrei rimanesse così sempre. Vorrei poterle dire chi sono davvero. Vorrei poter riportare a galla i ricordi ha rimosso dalla sua mente. Forse non ha rimosso un bel niente, semplicemente ti ha ignorato tutto il tempo.

Faccio una smorfia e sposto lo sguardo. Una parte di me si ribella. Mi urla di lasciar perdere. Mi sta dicendo di correre lontano, di lasciare che lei sia felice in altri modi e di continuare a sorvegliare su di lei in silenzio, di restare un viso anonimo.

Non è forse ciò sono?

Sono quella faccia che lei non ha mai guardato davvero. Quegli occhi che l’hanno scrutata di nascosto e ne hanno memorizzato ogni dettaglio. Sono quelle mani che lei ha sfiorato poche volte e non si ricorda più. Sono colui che l’ha fatta piangere quando era al settimo cielo.

Mi stropiccio gli occhi ed esco dalla mia stanza, lasciando la porta socchiusa per sentire eventuali rumori.

Scendo al piano di sotto e mi dirigo in cucina. Nella penombra, seduta sulla sedia, intravedo la figura di mia madre. Il capo chino sopra la tazza, lo sguardo perso, immerso in chissà quali pensieri e il corpo avvolto dalla solita vestaglia color crema.

«Buongiorno», le dico piatto. La puzza di sigaretta e l’odore del caffè mi fanno venire il voltastomaco. Vado ad aprire le veneziane. La luce del mattino si riversa prepotentemente in cucina, mia madre si porta la mano davanti agli occhi.

«Detesto la luce», brontola e mi lancia un’occhiataccia di rimprovero.

«E io detesto questa casa», dico e apro il frigorifero. Prendo una foglia di lattuga, del prosciutto, del formaggio e un cetriolo.

«Non hai mai mangiato quella roba al mattino», mi fa presente. «Anzi, tu non fai mai colazione», si acciglia e continua a guardarmi con aria scettica.

Prendo le due fette di pane tostato e allungo la mano per afferrare il coltello, ma non lo trovo al suo solito posto. Inizio a cercare in mezzo alle posate, ma non ce n’è neanche l’ombra.

«Mamma, dove sono i coltelli?», le chiedo, stringendo i denti. So cosa ha fatto. Cazzo, so perfino cosa sta per dire.

«Oh, giusto», si dà un colpetto sulla fronte ed esce dalla cucina, poi ritorna da me con i coltelli avvolti in un panno. «Per sicurezza… Sai, a volte ho paura», ride nervosamente e sento lo stomaco stringersi fino a diventare minuscolo. Appoggio i gomiti sul bancone della cucina e mi prendo la testa tra le mani.

«Cristo santo, mamma», ringhio. «Non pensi sia arrivata l’ora di mettere un punto a tutto questo?», sibilo, stringendo il manico del coltello tra le mani.

Lei osserva scrupolosamente la mia stretta e indietreggia, sedendosi di nuovo sulla sedia. Si stringe nelle spalle come per scusarsi. «Come mai questa volta non dai di matto?» mi chiede, alzando un sopracciglio.

Taglio alcune fette di cetriolo e finisco di preparare il toast, con i nervi ormai a fior di pelle e la rabbia fossilizzata tra le vertebre.

«Perché sono stanco», dico con uno sguardo ferrigno.

Lei si alza nuovamente e si passa la mano tra i capelli spettinati con fare svogliato. «Sì, caro. Sei uguale a tuo padre certe volte», avanza verso di me e mi scompiglia i capelli. La fisso inorridito mentre lei esce dalla cucina.

Sei uguale a tuo padre…

Stringo così forte i pugni fino a sentire la pelle bruciare.

No, non sono uguale a lui.

Punto gli occhi sulla foto di famiglia appesa al muro, accanto al frigorifero, e trattengo un conato di vomito.

«Figlio di puttana», ringhio e con uno scatto veloce il mio pugno colpisce la foto, rompendo il vetro della cornice in mille pezzi. Rivoli vermigli colano sulle mie nocche. «Merda», sussurro e poi afferro un panno per pulirmi.

«E io che pensavo che per una volta le cose sarebbero andate diversamente», mia madre sospira profondamente, ha le mani sui fianchi e mi guarda con aria delusa. «Pulisco io».

Prendo il disinfettante e i cerotti e curo le ferite. È successo così tante volte che ogni azione ormai sembra automatica.

Mia madre si piega per raccogliere le schegge. «Sai», esordisce con un sorrisetto malizioso. «Adesso ho capito perché stai cercando di essere il più silenzioso possibile».

Avvolgo il toast nella carta, però mi blocco non appena finisce la frase.

«Chi è la ragazza che giace nel tuo letto?», domanda impertinente. Mi si mozza il fiato.

I miei occhi taglienti cercano immediatamente i suoi.

«L’ho vista, sai?», incrocia le braccia sotto il seno. «Ed è buffo. Hai ripetuto così tante volte “Io non mi innamorerò mai”, che stavo iniziando a crederci. E adesso… sorpresa», ride, scuotendo la testa. «E lei sa dei tuoi attacchi di rabbia? Delle cose di cui ti lamenti ogni giorno? Della situazione che tanto odi?»

Il suo sguardo indifferente mi arriva come un pugno nello stomaco. È ferita, non farci caso. Ignorala. Cazzo, ignorala.

«Ma guardati, tesoro, hai appena tirato un pugno», viene verso di me e mi accarezza dolcemente la guancia. «Se non vuoi che ci siano problemi tra me e tuo padre, ti conviene fare attenzione a quello che le dici, perché basta una parola da parte mia per fare crollare tutto», mi dà un buffetto sulla guancia. La rabbia preme forte contro il mio petto, la mia mano scatta come un serpente verso il suo mento. Glielo stringo tra le dita e la fisso dritto negli occhi: «Sto subendo tutta questa merda per colpa tua e dei tuoi capricci del cazzo. E continuerò a farlo finché non avrò la possibilità di andarmene da questa casa. Ma fino ad allora, mamma…», avvicino il viso al suo, gli occhi infiammati dall’odio. «Se osi anche soltanto rivolgerle la parola, non risponderò delle mie azioni. E questo te lo posso giurare.»

Mia madre mi schiaffeggia il braccio e si tira indietro, con le lacrime agli occhi e l’espressione oltraggiata. «Stai minacciando tua madre… », si porta la mano davanti alla bocca, le lacrime scorrono come un fiume in piena sul suo viso.

«È soltanto un piccolo avvertimento. Stanne fuori», sputo con odio, ma una parte di me cerca di fermarmi, di farmi ragionare. La stessa parte che mi ha costretto a subire e tacere davanti a loro.

«Quindi lei è davvero così importante per te…», alza il mento all’insù e si asciuga furiosamente le lacrime con le dita tremanti.

«Non azzardarti. Mai più. A parlare di lei», pronuncio minaccioso. «Mai più», ripeto, poi prendo il piatto e risalgo in fretta nella mia stanza, trattenendo per la prima nella mia vita la voglia di sbattere la porta fino a vedere i libri tremare sulla mensola.

Chandra è seduta sul mio letto a gambe incrociate. I capelli spettinati scendono morbidi sulla sua schiena; lei indossa ancora la mia maglietta.

«Ehi», sussurra con la voce impastata dal sonno. Avrà sentito me e mia madre al piano di sotto? L’ha vista?

Rimango immobile come un ebete a fissarla. Sto guardando la persona a cui potrei rovinare la vita da un momento all’altro.

«Sasha?», perfino il mio nome che esce dalla sua bocca sembra un suono soave. Scende dal letto e si avvicina a me, con la testa leggermente inclinata. «Tutto okay?»

Guardo il piatto che ho tra le mani e annuisco. Lo poso sulla scrivania e mi allontano da lei. «Ti ho portato qualcosa da mandare giù.»

Lei si porta una mano sullo stomaco e sorride. «Sto morendo di fame, in effetti. Grazie», il suo sguardo indagatore scende sulle mie mani. «Che hai fatto lì? Ieri sera non avevi niente», aggrotta la sopracciglia e faccio spallucce.

«Non ho voglia di parlarne», rispondo mordace e mi siedo il più lontano possibile da lei.

Sei come tuo padre…

«Cazzo», esclama e il mio sguardo scatta su di lei. Smette di masticare e fissa il toast con un’espressione sconvolta. La sento deglutire e mi dà le spalle, sussurrando: «Farò finta che questa sia una pura coincidenza…».

«Se non ti piace, non mangiarlo», le dico, cercando di calmarmi. Non parlarle così.

«Era il mio toast preferito», ammette con voce asfittica. «L’avevo quasi rimosso dalla mia mente per una serie di motivi...», la sento ridere nervosamente.

«Lo mangiavi spesso», mi guardo le mani e prego che il mio cuore smetta di battere così velocemente. «Tutti a scuola volevano assaggiarlo. Non ti piaceva il cibo che davano in mensa. Eri perennemente accerchiata dai bambini che guardavano ammaliati ogni boccone che mandavi giù. Eri vista come quella che aveva il pranzo più buono», sorrido amaramente.

«Io ero lì Chandra. Ero sempre lì ogni cazzo di minuto», mi alzo in piedi e prendo dei vestiti puliti dall’armadio. Cerco di reprimere la voglia di guardarla negli occhi; cerco di smetterla di comportarmi come un coglione qualsiasi in questo momento.

«Ero semplicemente invisibile ai tuoi occhi, così come adesso tu cerchi di esserlo ai miei». L’istinto mi dice di girarmi. Di guardarla. Di analizzare la sua espressione. Ma con la coda dell’occhio riesco soltanto a valutare i danni che ho fatto. Ha la testa bassa, le mani tremano incontrollabili.

Che cosa hai fatto?

«Devo andare…», la sua voce è un tremulo bisbiglio. Lascia il toast a metà e si alza in piedi, ciondolando su se stessa. «Mi dispiace, Sasha», cerca di contenere le lacrime, i suoi occhi vagano da una parte all’altra nella stanza, alla disperata ricerca di un’ancora a cui aggrapparsi per non annegare davanti a me. «Tu non sai come comportarti con me, ma io… io non so come vivere senza sentire ogni volta gli occhi in fiamme e il cuore indolenzito. Ogni mia mossa sembra sbagliata. Ogni parola fuori posto. E scappo sempre… Dio, scappo anche adesso. Io mi sento… Cazzo, Sasha, io mi sento come se-», preme i palmi delle mani sugli occhi e cerca di nascondere le sue lacrime. Dillo, Chandra. Dillo a me. Sfogati con me e non con quel dannato pezzo di carta. «Io non so più chi sono.»

«Entrambi scappiamo da qualcosa…», lascio cadere i vestiti sul letto e mi avvicino piano a lei. Le afferro le braccia e gliele abbasso. Ha gli occhi gonfi e rossi. «E scappare va bene, a volte. Finché non perdi pezzi di te, puoi andare ovunque tu voglia.»

«Io non voglio essere qui, Baker. Non voglio», mi punta l’indice contro il petto e nei suoi occhi si riversano all’improvviso tutte le parole che ha messo per iscritto. Ogni sua parola mi è rimasta impressa nella mente. Tutti i suoi sogni. Tutta la sua sofferenza. Quando diavolo è successo davvero? Quando è che il suo dolore è diventato mio?

La prima volta, quando ho stretto quella lettera al petto mi sono detto: “Che cazzo di guaio… questa non può essere davvero lei.” Ci sono milioni di persone nel mondo che riescono a superare un lutto, cos’è che accentua così tanto il suo dolore? Cosa la spinge così tanto verso il dirupo?

Quando l’ho vista quella sera sul tetto l’ho riconosciuta sin da subito dalla voce. Ho sorriso dietro la maschera, la sua era uguale. E cazzo, ero lì con lei, ancora perfettamente invisibile ai suoi occhi. Dopotutto, dalle lettere che mi ha scritto, ho capito che per lei non sono altro che un tizio scontroso e antipatico.

Ho sperato con tutto il cuore, ad un certo punto, che smettesse di scrivermi. Ho sperato che si allontanasse da me. E adesso le mie parole fanno da cuscino al suo dolore. E non riesco a tornare indietro, a cambiare il verso delle cose.

L’ho guardata e mi sono tuffato tra le sue frasi e ho capito che ciò che prova è reale. Ogni sua parola è un pugno nello stomaco. E adesso quella cazzo di luna inizio a odiarla.

Lei non vuole essere qui. Non vuole. Allora perché è rimasta?

«Sei ancora qui», le dico quasi speranzoso. «Tu sei ancora qui, Chandra.»

I suoi occhi sono puntati sul giradischi di suo padre, che sua sorella mi ha venduto. «Sono ancora qui perché… perché», il suo petto si alza e si abbassa velocemente. Le parole muoiono dentro la sua bocca.

Perché, cosa?

Sei ancora qui grazie alle mie lettere. Perché ti dico ogni dannata volta di restare. Sei qui per me e nemmeno lo sai.

«Devo andare», ripete e indossa velocemente le scarpe, prende il suo cellulare e va verso la finestra. E io la lascio andare. Lascio che il suo desiderio più grande ritorni a galla e la guardo mentre affonda di nuovo nelle sue paure. Non è tuo compito farle cambiare idea, Sasha.

Ma chi diavolo voglio prendere in giro? Il piccolo Sasha adesso mi prenderebbe a pugni.

Ad entrambi piace esistere in un mondo in cui per gli altri non c’è più spazio…Vorrei dirle. Ricordi, Chandra?

«Stupido coglione!», tiro un calcio nella sedia, ribaltandola, e corro alla finestra. Chandra si abbassa e strappa un fiore bianco dall’aiuola come promesso, poi scavalca la staccionata e si mette a correre.

«Fa male, non è così?», chiede mia madre sulla soglia della porta. «E farà ancora più male. È la figlia di Lorainne Stewart?»

«Ti ho detto di starne fuori!», grido e lei si chiude nella sua stanza. Vado a cambiarmi, prendo lo zaino, lo skateboard e gli auricolari ed esco di casa. Questa volta non prenderò l’autobus. Questa volta non voglio pensare a me. A mia madre. A mio padre. O a lei

Soprattutto a lei.

Infilo gli auricolari nelle orecchie e ascolto a tutto volume Freaks. Passo davanti a casa sua e mi fermo, puntando lo sguardo verso la sua finestra.

Continuerò a recarmi su quel tetto alla stessa ora. Continuerò a cercarti tra le parole.

Continuerò a scriverti e ad essere invisibile ai tuoi occhi, se è questo l’unico modo per farti vivere un giorno in più.

Ecco il nuovo capitolo ❤️ questa volta ho voluto farvi entrare nella testa di Sasha, che non è davvero scontroso come appare dal punto di vista di Chandra, ma dietro al suo comportamento si nasconde molto di più. 💔 Spero abbiate capito qualcosa, anzi due in particolare 🌻 dalla notte trascorsa insieme in spiaggia è cambiato tutto, non solo per Sasha, ma anche per Chandra, che adesso si ritroverà ad essere più confusa di prima. Incuriosita dallo sconosciuto che le scrive le lettere e le dà forza, e dal ragazzo scorbutico che cerca di avvicinarsi e capirla di più senza nascondersi dietro ad un pezzo di foglio. Paura per la reazione che avrà quando scoprirà chi si nasconde dietro a quelle lettere?

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