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16. Sono felice di non essere tua amica

“Casa è ovunque la tua mente si sente in pace. ”

Sasha


«Sasha? Puoi aprirmi, per favore?», dice  mia madre con tono mansueto e bussa alla porta un'ultima volta, forzando in seguito il pomello, ma senza successo.

Seduto davanti alla scrivania, osservo il mio riflesso allo specchio che ho fregato a mia madre poco fa e finisco di disinfettare la ferita sulla fronte.

«Tesoro, voglio solo parlarti due secondi», adesso sento qualcosa spezzarsi nella sua voce, il senso di colpa si è impadronito di nuovo del suo corpo, ma non mi fa di certo cambiare idea.
Stringo gli occhi e contraggo la mascella; il bruciore è intenso, ma non è nulla di nuovo per me.

Con una mossa un po' impacciata, mi sfilo la maglietta dalla testa e indietreggio di qualche passo, mettendomi di lato e cercando di guardare le altre ferite nel piccolo specchio adagiato sulla scrivania.
«Merda», impreco mentre noto un rivolo di sangue che cola giù.
Prendo la pinzetta e provo a tirare fuori il piccolo pezzo di vetro rimasto conficcato nella mia pelle.
In questo momento odio non poter girare di più il collo per guardare meglio, ma questo è l'unico modo. Ho perso il conto di quante volte questo stupido specchio mi è stato utile per curarmi le ferite da vicino.

Digrigno i denti ad ogni tentativo di afferrare la scheggia;  racchiudo le dita intorno allo schienale della sedia in una stretta ferrea, e quando finalmente ci riesco, mi accascio sulla sedia e fisso il soffitto per un paio di secondi.
Mi rigiro, faccio un respiro profondo e prendo il disinfettante, cercando di rimediare anche a questo disastro.
Dopo aver medicato la ferita e aver messo la garza in un modo del tutto orribile, ringrazio che la ferita non sia né profonda né grave. Tra un paio di giorni non sentirò più nulla.

Ciondolo come un ubriaco fino al mio armadio,  aggancio un'altra maglietta pulita e la indosso. Mi siedo sul letto, accanto al fumetto, regalatomi da Chandra, che è rimasto ancora aperto dopo aver interrotto la mia lettura.
Noto una macchia di sangue sulla copertina e mi appresto ad asciugarla, ma ormai è rimasta impressa sulla carta.

Fortunatamente mia madre non insiste più e io sono felice di saperla lontana dalla mia porta, da me e dal mio mondo.

Nell'angolo più buio della mia stanza osservo tristemente il mio skateboard e so che per qualche giorno dovremo dirci addio.

Sospiro e tra una smorfia e un lamento soffocato di dolore, cerco di sdraiarmi sul letto e continuare a leggere. Ma i miei occhi non fanno altro che scivolare da una parte all'altra tra le due pagine, leggo i dialoghi ma non rimangono nella mia mente, tutto appare confuso e le immagini non sembrano altro che delle macchie colorate d'inchiostro.

Non riesco a leggere, non riesco a concentrarmi, non riesco a non odiare il mondo in questo momento.

Mi alzo dal letto come un cadavere ambulante e prendo il cellulare da sopra il comodino e lo infilo  nella tasca dei jeans. Rimango un attimo immobile a fissare il foglio spiegato sulla scrivania, vicino al portapenne. Mi passo la mano tra i capelli ancora imbevuti nelle gocce di sudore e poi afferro il pezzo di carta, lo infilo in una busta delle lettere e poi lo metto nella tasca posteriore dei jeans. Scorgo di nuovo il mio riflesso nello specchietto e mi passo i polpastrelli sulla macchia bluastra sotto l'occhio.

Ho bisogno di farmi una doccia e di riposare, ma adesso vorrei soltanto prendere una boccata d'aria fresca fuori da queste quattro mura.
Esco dalla mia stanza e richiudo la porta a chiave, poi scendo piano le scale, ma mia madre intercetta i miei passi e la vedo precipitarsi verso di me. L'espressione mortificata sul viso mi dà suoi nervi, le sue mani scosse da un tremito toccano il mio volto più e più volte.

«Come stai?», un sussurro appuntito come un ago, freddo come il ghiaccio, insopportabile come il rumore del trapano alle sette del mattino di domenica. Stringe il mio volto tra i palmi e mi guarda intensamente negli occhi.

«Una merda. Non c'è bisogno che tu ti finga preoccupata», la spingo delicatamente di lato. «Esco a farmi un giro, non aspettarmi.»

«Perché non riposi un po'? Guarda come sei combinato», si porta la mano davanti alla bocca, la sua fronte s'increspa mentre cerca di trattenere le lacrime.

«C'è una cosa che non ti perdonerò mai, mamma. Ma non è il momento giusto per dirlo ad alta voce, quindi vattene e lasciami respirare», sibilo stringendo con forza il corrimano.

Lei rimane ferma come una statua, sento soltanto il suo respiro soffocato e i singhiozzi che cerca di silenziare.
Scendo le scale e mi dirigo verso la porta.
Esco, lasciandomi alle spalle tutta la merda dell'ultima ora, ma mentre avanzo a passo lento verso il cancello, intravedo una sagoma alla luce debole del lampione.

Cerco di assumere una postura dritta e mettere a fuoco la persona davanti a me.
Socchiudo gli occhi non appena mi rendo conto di chi si tratta; sto per fare marcia indietro e rientrare in casa.
«Hey!», grida, appoggiandosi goffamente al cancello.

«Cosa diavolo ci fai qui?», indago, facendo un altro passo verso di lei.

«Sono venuta a dirti che sei uno stronzo», la sua voce manda in schegge la silenziosità della notte.
Alzo gli occhi al cielo, anche se lei non può vedermi, e avanzo finché non le sono davanti.

«Dimmi qualcosa di nuovo, ficcanaso», ribatto e faccio una smorfia quando allungo il braccio per aprire il cancello.

«Lasciami finire», il suo petto si alza e si abbassa velocemente; è nervosa, ma non ha motivo di esserlo.

Indietreggia e io adesso sono fuori dalla mia proprietà. Mi sembra di essere appena uscito dalla gabbia.
«Ti lascio finire», sospiro e cerco di cercare un punto di appoggio. Possibilmente qualcosa che sia più grande del mio cancello.
Mi sposto piano verso il lampione e mi ci appoggio con la schiena, chiudendo gli occhi e tirando un sospiro di sollievo interiore.

«Che hai? Sembri un vecchietto che è appena caduto da una carriola», tenta di scherzare, ma nessuno dei due sorride.

«Cosa ci dovrebbe mai fare un vecchietto in una carriola?», chiedo, accigliandomi.

Lei sembra imbarazzata, quindi sposta la conversazione verso l'argomento principale. «Dunque, stavo dicendo... Sono venuta qui per dirti che sei stato uno stronzo ad aver comprato il mio giradischi», arriccia la bocca e cerca di nuovo di assumere quell'espressione da dura.

«Era di tuo padre», la correggo.

«E mio padre è morto», mi ricorda tempestivamente.

«Sì, Chandra, so che vuoi farmi apparire come uno stronzo all'interno storia che ti sei creata nella tua testa, ma io ho semplicemente visto l'annuncio postato da tua sorella. Non sono venuta a casa tua a rubarlo. L'ho pagato

Sposta lo sguardo a terra e deglutisce. «Lo so, ma io ero lì, davanti a te. Avresti potuto riprenderti i soldi e ridarmi il giradischi. Quello che sarebbe stato corretto da parte tua.»

Sorrido quasi contro la mia volontà.
Vorrei davvero stare qui e continuare ad ascoltare il modo nervoso in cui parla e gesticola, ma ho bisogno di camminare o stendermi da qualche parte, e l'opzione più saggia in questo istante mi sembra la camminata notturna.
«Su, ti accompagno a casa», invento una scusa soltanto per muovermi e non rimanere inchiodato lì.

«Conosco la strada», borbotta, ma mi segue comunque.

«Sai cosa è stato davvero corretto da parte mia?», le chiedo mentre sposto per un attimo lo sguardo verso la luna che illumina il cielo.

«Cosa?», chiede, guardandomi con la coda dell'occhio.

«Aver comprato quel giradischi nonostante il tuo dolore in quel momento. E sai, non l'ho fatto per compassione, di solito non mi frega un cazzo di quello che provano le persone intorno a me, ma se non l'avessi comprato io, tua sorella l'avrebbe comunque venduto a qualcun altro.»

Chandra si ferma e alza un sopracciglio. «E quindi, cosa? Che sia tra le tue mani o tra quelle di un'altra persona, non mi importa. Non è tra le mie.»

Stringo i denti e le lancio un'occhiata torva, poi sbotto: «Magari con me è al sicuro per adesso.»

«Non sono venuta qui per darti ancora dello stronzo, volevo solo...», si gratta il mento nervosamente. Di nuovo quell'espressione imbarazzata sul suo volto. «Scusarmi, ecco. Io volevo scusarmi.»

Questa volta sono io a fermarmi di colpo. Infilo il pollice nel gancio della cintura e la guardo furtivamente. «Per cosa? Pensavo l'avessi già fatto regalandomi il fumetto.»

«Sono stata stronza anche io. Non ho un ego smisurato, so riconoscere i miei sbagli.» E per la prima volta da quando parliamo, intravedo uno di quei sorrisi spontanei sul suo viso. Distolgo immediatamente lo sguardo.

«Che ragazza saggia», celio, nascondendo il divertimento dietro ad una smorfia.

«Sempre stata», gonfia il petto e sposta i capelli lunghi sull'altra spalla. «Dunque, ti piacciono i fumetti, eh? Anzi, ho visto che adori la roba Marvel. Non hai paura che venga classificata come roba per bambini?»
Inizia a mordicchiarsi il labbro e osservo il modo in cui con l'indice inizia a grattare nervosamente lo strappo del jeans quasi all'altezza della tasca..

«Casper, sei circa un metro e sessanta di ansia, curiosità, nervosismo e goffaggine. Ma sì, i fumetti sono per me quello che per gli altri sono i libri. E no, non ho paura. Chi afferma che sia roba da bambini, probabilmente non ha mai letto un fumetto né visto un film simile.»

Lei fa schioccare la lingua contro il palato. «Un metro e sessantacinque, comunque», puntualizza con aria fiera, quasi come se quei cinque centimetri in più la facessero sentire molto più alta.

«Errore mio», sollevo le braccia in segno di resa.

«Non mi stai particolarmente simpatico, ma ci tengo ad essere perdonata da te, così stasera potrò dormire in pace», il suo respiro si fa di nuovo veloce e la sua unghia riprende a grattare il jeans.
Con un movimento fluido le afferro le dita per farla smettere.

Sotto la luce calda del lampione, lei solleva lo sguardo verso di me e i miei occhi rimangono incatenati ai suoi per un paio di secondi; mi sento prigioniero di uno sguardo che cerco sempre di evitare come la morte. Sgrana gli occhi piano piano per la sorpresa, e per sfuggire alla sensazione di disagio, le lascio la mano in modo rude e faccio una smorfia di disgusto.

«Hai battuto la testa?», indica la mia fronte e mi stringo nelle spalle.

«No, ma se continui a parlarmi, stanne certa che lo farò», la guardo male, ma stranamente le strappo una risata.

Persino lei si meraviglia quando quel suono dolce e genuino abbandona la sua bocca e la maschera da dura che indossa ogni giorno scivola a terra e lascia spazio alla sua vera faccia.

«Non te ne sei accorto, vero?», chiede mentre riprendiamo a camminare.

«Di cosa?»

«Abbiamo superato casa mia da un po'», mi dice e lancio uno sguardo alle mie spalle. Ha ragione.

«E che aspetti? Torna a casa», mi fermo davanti alle strisce pedonali, lei mi affianca.

«Mi dai l'impressione di uno che ha bisogno di parlare questa sera. Magari non gradiamo molto la compagnia dell'altro, ma a volte ci si deve accontentare, no?», incrocia le braccia al petto e attraversa insieme a me la strada.

«Chi si accontenta muore», le dico piatto.

Lei sbuffa. «E tu ci credi davvero?»

«Tu no?»

Si sposta davanti a me e apre le braccia, iniziando a gesticolare in modo bizzarro. A volte faccio fatica a seguirla, il mio sguardo si sposta dalla sua faccia alle sue mani, che sembrano sul punto di compiere qualche strano incantesimo. Persino il suo modo di gesticolare è incomprensibile e strano.

«Io non mi sono mai accontentata. Sai, da bambina facevo un sacco di capricci, ottenevo sempre quello che volevo. Ero piena di vita, io volevo divorare il mondo. Diamine, ero insaziabile. Ogni giorno una novità, ogni giorno un sorriso. Avevo quella grinta che mi avrebbe portata lontano un giorno, ma che oggi non ho più, e sai, io ero davvero diversa, non fuori, ma dentro. Però da quando...», la sua voce si spegne di colpo e le palpebre si abbassano, come se il ricordo doloroso e improvviso di suo padre gravasse su di esse. Abbozza un sorriso forzato, uno scudo che rimanda indietro il fiume di parole che probabilmente vorrebbe urlare al cielo e le lacrime che vorrebbero sgorgare fuori in tutta la loro furia.

«Da quando è morto tuo padre, è cambiato tutto. Sì, lo hanno notato tutti, Stewart», le dico con lo stesso tono indifferente di sempre, cercando di prendere le distanze.

«Sì, la vita per me è cambiata da un po' e ho imparato ad accontentarmi», conferma e rimane così, immersa in chissà quali pensieri macabri.

Mi vengono in mente tutte le sue parole, tutto il suo dolore, ma per l'ennesima volta decido di tenermi lontano dalla sua sofferenza e guardarla dall'interno della mia gabbia.
«È in continua evoluzione, sai? La vita cambia in base alle scelte che facciamo ogni giorno», cerco di portarla verso la strada che non vorrebbe percorrere più, verso  quella noiosa normalità che ha quasi abbandonato.

«Ed è sempre in base alle nostre scelte, che a volte la vita inizia e finisce», mi rivolge un sorriso malinconico e poi soggiunge: «Beh, spero tu stia meglio adesso.»

Batto le palpebre un paio di volte, incredulo. «Io?»

«Evidentemente avevi bisogno di parlare un po'. Hai sempre quel muso lungo, esattamente come me», sorride, ma scaccia via in fretta quella lieve curva che le anima il volto, lasciando spazio ad un'espressione persa. «Nella solitudine riconosco sempre i miei simili», solleva due dita e mi saluta.

«Aspetta», grido e infilo la mano nella tasca posteriore dei jeans, pentendomi subito di quello che sto per fare, ma sembra il momento giusto e sembra la scelta più saggia.
Estraggo la busta di carta e la allungo rapidamente verso di lei.
«Questa... Ti è caduta oggi nel corridoio. Non l'ho aperta», mi metto subito sulla difensiva.

Il suo sguardo si illumina. Mi strappa la lettera dalle mani, legge la scritta sulla busta, poi assottiglia lo sguardo. «È una macchia di sangue, questa?»

«È colpa mia», merda. Avrei potuto stare più attento. «Mi sono fatto male, devo averla macchiata per sbaglio.»

«Non non l'ho messa io nello zaino», sembra leggermente diffidente.

«Allora qualcun altro avrà provato a infilarla dentro e sarà caduta. Dovresti essere più attenta.»

«Grazie», sembra sollevata e io mi chiedo come reagirebbe se sapesse che la persona che continua a scriverle sono io e quelle parole del cazzo le scrivo nel momento in cui sono completamente a terra, distrutto, con l'umore sotto i piedi.

Cosa penserebbe, se sapesse che la persona che le sta antipatica la consola e cerca di aprirle gli occhi, impedendole di fare una scelta del cazzo?

«Grazie, è importante per me», se la stringe al petto come se fosse la cosa più preziosa che ha e in questo momento mi sento uno stronzo, ma io sono così e lei è... così, e non volevo trasformarmi in un cazzo di psicologo per una che ha pensieri suicidi ogni giorno, ma non posso semplicemente smettere come se non fosse mai successo. Anzi, sì, io potrei farlo, ma se lei compisse quel folle gesto, l'avrei sulla coscienza a vita, nonostante sia  sua la scelta di volerla fare finita.

«Le lettere sono passate di moda», è l'unica cosa che riesco a dire.

«E quindi?», mi trucida con lo sguardo.

«È quindi è ridicolo. Esistono i social, internet, lettere che puoi spedire online», insisto con queste stronzate, sapendo già come reagirà.

«Questo sembrerà davvero cattivo da parte mia, ma sono felice di non essere tua amica.»
Vorrei dirle che l'intento era proprio questo, e che io suo amico non vorrei esserlo mai.

«No, non sembra cattivo affatto. Io sono felice di non essere tuo amico. Ti auguro una buona serata, signorina Casper», faccio un buffo inchino, maledicendomi per l'idea stupida nel momento in cui una fitta mi attraversa tutta la schiena.

«Dio, sei veramente ridicolo», brontola e stringe tra le dita la lettera, come se avesse paura di perderla.

«Io oppure Dio?», chiedo e lei alza gli occhi al cielo, poi inizia a dirigersi verso casa. E io, per quanto stronzo appaia ai suoi occhi, non posso fare a meno di seguirla, restando però a debita distanza da lei.  Non sono così idiota da lasciarla tornare a casa da solo di notte.

«Che fai, adesso mi segui pure?», chiede senza voltarsi.

Mi concedo un debole sorriso adesso che non può vedermi. «Sto semplicemente tornando a casa. Non tutto gira intorno a te.»

E dopo la mia frase, lei non mi rivolge più la parola per il resto della camminata.
Rallento il passo e aspetto che rientri, ma quando mi fermo davanti a casa sua, lei è ancora sul pianerottolo e mi sta mostrando il dito medio. Soltanto dopo avermi fatto ridere, rientra e si chiude la porta alle spalle.
È tutta strana.

"Come te", suggerisce il mio cervello.

Appena arrivo a casa, noto che la mia macchina di mio padre non c'è ancora e sarò costretto a subirmi ancora lo sguardo addolorato di mia madre.

Il mio umore finisce nuovamente all'inferno e mi piacerebbe seguirlo, ma sono intrappolato in questa noiosa realtà che ogni giorno sono costretto a vivere.

Entro e trovo mia madre seduta sulla poltrona, con una foto di me di quando ero bambino, tra le mani.
Piange probabilmente da quando sono uscito di casa.

«Basta, vai a dormire», le prendo la foto dalle mani e la rimetto sopra il mobile.

«Come stai, tesoro?», mi stringe il braccio, ma io sciolgo lentamente la sua stretta e mi allontano.

«Non chiedermelo più se non vuoi sentirti dire la verità», e mi maledico ad ogni passo che faccio, ad ogni gradino che salgo, e ogni volta che mi chiudo la porta alle spalle.

Mi siedo sul bordo del letto e prendo il fumetto tra le mani, ma prima guardo la maschera di Spider-Man sopra la mensola, che ho ricevuto come regalo da bambino.

Da piccolo pensavo che, una volta indossata, la tristezza sarebbe sparita in automatico. Ero un supereroe. Ero forte come Spider-Man e ogni delusione veniva assorbita da quel pezzo di stoffa. Adesso però sono cresciuto e non mi sento più un supereroe, ma sono sempre più simile a Peter, incasinato e sempre pronto a perdere qualcuno.

Ma in questo momento penso soltanto al fatto che il regalo di Chandra non è altro che un enorme cerotto che copre tutte le mie ferite.

Avrei voluto ringraziarla in modo diverso, ma a modo mio lo sto già facendo.
Mi immergo di nuovo in questo mondo che le persone intorno a me non capiscono e nemmeno ci tengo che lo facciano.
«Grazie, Casper... Mi hai regalato una nuova scappatoia al momento giusto», sussurro e poi mi sdraio lentamente, continuando in silenzio la mia lettura.

Ecco qui, so che alcuni di voi lo stavano aspettando con ansia un pov Sasha 🥲❤️ pensavo che vi sarebbe piaciuto leggere dal suo punto di vista.
Come avete trascorso il Natale? Da me non è stato nulla di speciale, l'aria natalizia, nonostante tutti gli addobbi, non sono riuscita a sentirla ❤️

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