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14. Ora capisco perché non parli con nessuno

“Pensavo che il mondo fosse il vero nemico all'interno della mia storia.
Poi ho capito che lo era la mia mente.”

«Villa vandalizzata da alcuni studenti del liceo Pierson, nella serata di…», mia madre si ferma e solleva lentamente gli occhi dal giornale che tiene tra le mani. 

Muovo la forchetta nel piatto, spostando piccoli pezzi di bacon da una parte all'altra. 

«Ieri sera», dice, posando delicatamente il giornale accanto al mio piatto, mostrandomi il titolo e l'immagine della villa dei Plath. 

Diamine, Sasha aveva ragione! 

«Dove sei stata ieri sera, Chandra?», mi chiede, prendendo posto accanto a me. Mi mordo il labbro. Non riesco a guardarla negli occhi, capirebbe che sto mentendo. 

«Il figlio dei Plath ammette di aver organizzato un raduno pacifico, con l'intento di aprire una raccolta fondi per aiutare le famiglie povere, ma gli studenti della Pierson High, oltre a non aver aderito alla raccolta, si sono presentati con bottiglie di alcool, hanno vandalizzato la proprietà, imbrattato tappeti e pareti di vernice colorata», mia madre si ferma di nuovo e sospira profondamente. 

Sono nei guai. Non posso più sfuggirle. Ieri sera, quando sono rientrata, mi sono scontrata con lei all'ingresso. Non ha fatto domande quando mi ha visto con un'altra maglietta addosso, il viso e i capelli sporchi, ma mi ha spedito direttamente in bagno a togliermi quello schifo di dosso. 

E adesso non posso di certo mentirle. Dio, è così evidente ormai. 

«Ciò che ha scritto non è vero», riesco a dire, continuando a mangiare nonostante lo stomaco si sia ormai ristretto.

«Chandra, ieri sera sei tornata in condizioni pietose. Sei uscita con un'amica, hai detto», mi ricorda con tono autoritario. «Dove siete andate?»

Bevo un sorso d'acqua. «Mamma, sì, siamo andate lì. Ma il figlio dei Plath mente. Non c'è stata alcuna raccolta per aiutare i poveri. Sono stati loro ad organizzare la festa, a portare l'alcool e a fare casino. Noi non abbiamo fatto nulla.»

Mia madre scuote la testa, amareggiata. Ho visto fin troppe volte, negli ultimi giorni, quell'espressione delusa sul suo viso. «Non ci posso credere!», esclama, alzandosi in piedi. 

«Non è successo niente. Non mi hanno beccata lì», cerco di rassicurarla. 

«Hanno chiamato la polizia!», alza il tono di voce, facendomi sussultare. «Cosa intendi fare? Finire nei guai proprio prima del diploma?», sibila. 

Prima che possa aprire bocca, Ruth entra in cucina, stropicciandosi un occhio. «Che succede?», chiede, ancora assonnata.

Mia madre mi guarda a lungo, poi chiude gli occhi, come se volesse dimenticare. 

«Che hai fatto?», ringhia Ruth, afferrandomi per il braccio con forza. 

Un pezzo di omelette mi va di traverso e inizio a tossire mentre mi libero dalla sua presa. 

Bevo un sorso d'acqua. Lei prende il giornale. Poco dopo la sento dire: «C'entri qualcosa con questi deficienti?»

«No, non c'entra nulla. La stavo avvertendo», sì intromette mia madre. «Spero di non doverla mai tirare fuori dai guai per colpa di quegli animali maleducati.»

Alzo gli occhi al cielo e trattengo uno sbuffo. 

«Ti conviene, perché se rovini la nostra reputazione da famiglia per bene, ci penserò io stessa a buttarti fuori da questa casa. Non abbiamo bisogno di delinquenti come te. Siamo stati sulla bocca di tutti già per abbastanza tempo, o lo hai già rimosso dalla testa?», abbaia al mio orecchio. 

«Smettila. Le decisioni spettano a me, Ruth. Ogni tanto ti dimentichi che il genitore in questa casa sono io. Ora siediti e mangia, altrimenti non stressare tua sorella e trovati qualcosa da fare», nonostante la delusione che ho provocato a mia madre, tiro un sospiro di sollievo silenzioso quando sento che sta prendendo le mie parti. 

Ruth stringe i pugni e la mascella. Mi lancia un'occhiata tagliente, poi se ne va, quasi pestando i piedi come una bambina arrabbiata. 

«Grazie», mormoro, alzandomi. 

«Ti comporti come se ti odiassi, Chandra. Sono soltanto preoccupata per te. Ultimamente esci di più e sono davvero felice per te, ma spero che tu non prenda una strada che in realtà, la vecchia te, non avrebbe mai percorso», appoggia una mano sulla mia spalla e poi mi scivola lentamente accanto, spostandosi davanti al lavandino. Inizia a lavare i piatti, probabilmente per sfuggire al mio sguardo. 

«Vado», dico, uscendo di casa con il cuore pesante. 

Sasha aveva davvero ragione. Ma come avrei potuto saperlo? Forse non era una cattiva idea rimanere a casa come il resto delle volte. 

Mia madre sta perdendo la fiducia in me, ho rischiato di essere acchiappata dalla polizia per non aver commesso alcun reato, e se non fosse stato per quell'essere scorbutico che a volte faccio fatica a tollerare, io sarei finita in un mare di guai. 

Sarei dovuta andare via nel momento esatto in cui i miei occhi non hanno intercettato Bennie e i suoi amici. Loro sono ovunque, a qualsiasi festa. È sempre stato così. 

Mentre mi dirigo verso la fermata dell'autobus, rivedo gli occhi spenti di mia madre, lo sguardo infuriato di mia sorella e le stelle che hanno smesso di brillare negli occhi di mio padre. 

Iridi puntate su di me come armi, parole che mi avvolgono come corde, rubandomi il respiro. 

Sollevo lo sguardo verso il cielo mentre rallento il passo e chiudo le palpebre, sognando per un attimo il silenzio nella mia mente. 

Ogni singolo giorno è la stessa routine: salgo sull'autobus, saluto Eric e lo ringrazio di avermi tenuto il posto libero. 

Mentre scavalco le gambe allungate di alcuni studenti, sento parlare gli altri di quello che è successo ieri sera. All'ultimo posto intravedo Tony Lee e Ashton che confabulano insieme ad altri ragazzi. Ashton batte il pugno contro il sedile e si rivolge a Tony: «Dobbiamo parlarne con Bennie. La dovranno pagare.»

Rimango ferma a guardarli, finché Tony non incrocia il mio sguardo e scatta in piedi, allungandosi verso di me e serrando gli occhi. 

«Tu», dice. «Eri alla festa ieri sera insieme a tutti gli altri, non è così?»

Apro la bocca per rispondere, ma mi lascio cadere sul sedile e deglutisco. 

«Tutti voi frequentate questa dannata scuola e non avete ancora imparato chi sono i nostri nemici. Testa vuota», preme l'indice contro la mia fronte e poi si tira indietro, sedendosi al suo posto. 

Tutti gli altri si girano verso di me, ma li ignoro e infilo gli auricolari nelle orecchie.

Quando arriviamo alla nostra fermata, scendo e trovo Riley ad aspettarmi insieme a Bonnie. 

«Stai bene?», grida correndomi contro. 

«Sì, sto bene. Voi?», domanda con voce piatta. 

«Tutto bene, come puoi vedere», risponde Bonnie, storcendo la bocca. «Ci siamo cascate come delle idiote.»

«Non dire così», la rimprovera Riley. «C'erano anche gli altri.»

Bonnie aggrotta le sopracciglia. «Quel gruppo di cervelli in coma è sempre stato invitato e ieri non c'era. Anzi, loro si sono sempre autoinvitati», punta l'indice contro il gruppo di amici di Bennie. 

Riley ci pensa un po' su. 

«Ha ragione. Ma ormai è successo», faccio spallucce, guardandomi intorno. 

«Chi cerchi?», Riley inarca un sopracciglio. 

Le mie guance iniziano a riscaldarsi. «Nessuno.»

Mentre Bonnie attaccata con una filippica e Riley fa fatica ad ascoltarla, i miei occhi cercano come impazziti le uniche due persone che fino a qualche settimana fa non avrebbero mai sentito il bisogno di cercare. 

«Farò un leggero ritardo», dico ad alta voce mentre mi allontano, correndo a perdifiato verso l'unica libreria che non dista molto dalla scuola. 

Forse è un'idea stupida. Molto stupida. Ma papà una volta mi disse che i regali più significativi sono quelli fatti con il cuore e spontanei. 

Entro in libreria e vado nella sezione fumetti, restando immobile davanti allo scaffale. 

«Serve aiuto?», la voce gentile di una ragazza più grande di me attira la mia attenzione. 

«Cerco un fumetto», rispondo stupidamente.

«È un regalo?», chiede con sguardo comprensivo. 

«Sì», ammetto.

«Sai già cosa piace a questa persona? Così saprei consigliarti meglio», sorride un po' a disagio. 

«Marvel. Penso ami la roba Marvel», sento ancora i muscoli bruciarmi per la corsa di prima. 

«Questo è uscito proprio due giorni fa», afferra un fumetto dalla copertina rigida che raffigura Spiderman. 

«Va bene, prendo questo», mormoro senza pensarci troppo. 

Ci dirigiamo alla cassa e lo avvolge nella carta regalo blu e rossa, poi pago e lo infilo dentro lo zaino. 

Corro di nuovo verso la scuola, rischiando persino di inciampare un paio di volte. 

Quando arrivo davanti al cancello, la maggior parte degli studenti è già entrata nell'edificio. 

Corro verso l'entrata della scuola. Ho il fiato corto, gli arti attraversati da un tremolio. 

Apro la cerniera dello zaino e stringo il fumetto tra le dita, poi cammino lungo il corridoio, verso il ragazzo girato di spalle. 

Un sorriso stupido affiora sulle mie labbra. Nonostante abbia sempre quello sguardo come se volesse bruciare il mondo, so che apprezzerà il regalo. È il mio ringraziamento per avermi aiutata ieri sera. 

Mi fermo a debita distanza non appena noto l'altra ragazza accanto a lui: Aretha

Lei sta sorridendo e nel frattempo sta giocando con una ciocca di capelli. Lui ha una spalla appoggiata contro l'armadietto, lo zaino è ai suoi piedi, sulla tavola di legno. 

Li scruto sentendomi improvvisamente il terzo incomodo. 

Sfioro la carta lucida che avvolge il fumetto, e nel momento in cui lui si gira verso di me, nascondo il fumetto dietro la schiena. 

Aretha punta il suo sguardo tagliente su di me, Sasha smette di sorridere e si irrigidisce. 

Non è uno di quei sorrisi che rivolge a me, a volte. È un sorriso di circostanza, si nota. 

Trattengo il fiato e inizio ad indietreggiare, fingendo quasi di essere invisibile ai loro occhi. 

«Sembra che tu abbia visto un fantasma, Stewart», ridacchia Aretha, visibilmente compiaciuta della mia espressione stordita. 

«E magari è proprio dietro di te», rispondo con un sorrisetto sarcastico. 

«Divertente», alza gli occhi al cielo. 

Sasha vorrebbe guardarmi negli occhi, ma distoglie lo sguardo e si schiarisce la voce. Afferra la cinghia dello zaino e il suo skate, e saluta Aretha, incamminandosi verso di me. 

Ha davvero smesso di parlare con Aretha per me. 

Ma man mano che si avvicina, smetto di esultare. Sasha mi passa accanto, ma si ferma, dicendo: «Che hai lì?»

Mi giro, continuando a nascondere il regalo. «È un pensierino per una persona», dico, il cuore inizia a crivellarmi la cassa toracica come impazzito. 

«Ah sì? E ti comporti come se lo avessi rubato?», eccolo di nuovo quel tono derisorio! 

«È per Manuel!», prorompo con una vocina stupida. Lui sbatte un paio di volte le palpebre, confuso. 

«Per Manuel?», chiede, puntando lo sguardo sulle mie mani dietro la schiena. «Vuoi che sia io a darglielo? È per questo che mi cercavi?»

Mi metto subito sulla difensiva. «Io non ti stavo cercando. Mi sei capitato davanti.»

«Certo… saresti dovuta essere già a lezione», dà un'occhiata all'ora sul cellulare. 

«Potrei dire la stessa cosa di te», ribatto, infilando di nuovo il regalo nello zaino. 

«Tu e Manuel, eh?», accenna appena un sorriso. «Buona fortuna», si allontana, ma non va verso l'aula. 

«Stupida. Sei una stupida», sibilo tra me e me, mentre mi dirigo verso le scale d'emergenza. 

Entrambi camminiamo in due direzioni opposte, ma quando inizio a salire le scale, vedo il suo sguardo puntato su di me in lontananza. 

Affretto il passo e raggiungo il tetto, sedendomi a terra e stringendo lo zaino al petto. 

«Papà, combino soltanto un disastro dopo l'altro», dico in un sussurro. Mi umetto le labbra e sollevo lo sguardo verso il cielo limpido. «La mamma è delusa, Ruth vorrebbe buttarmi fuori di casa, io volevo fare un gesto carino e ho dovuto mentire per non so quale ragione...», mi gratto la nuca, imbarazzata. «Sono qui perché… perché è come se tu mi stessi aspettando ogni giorno. Non puoi rispondermi, ma ti sento nell'aria che respiro, ti vedo nell'azzurro del cielo, sento la tua voce nel canto degli uccelli, tra i rami degli alberi… Sei ovunque intorno a me, ma non ci sei davvero.»

Affondo i denti nel labbro inferiore e poi sposto lo sguardo verso l'altra estremità del tetto. In un angolo intravedo una cosa. Mi alzo e raggiungo l'oggetto avvolto in una carta regalo blu scuro decorata da piccole stelle gialle. La scatola sembra incartata un po' male, come se avesse avuto qualche difficoltà. Leggo il biglietto appiccicato: Te l'ho detto, un giorno sarebbe venuta la luna da te. In un universo così grande, c'è una luna destinata ad ognuno di noi, non pensi? Questa è la tua.

Cerco di togliere l'orribile fiocco che ha cercato di creare, trattenendo a stento una risata, e inizio a scartarla.

Appallottolo la carta e guardo la scatola quadrata davanti a me. 

La apro e trovo una mano in ceramica e una piccola lampada a forma di luna piena. Poso il supporto a forma di mano sul cornicione e appoggio la luna su di essa, come da istruzione, poi tocco il sensore e vedo la luna accendersi, anche se la luce è abbastanza debole visto che è giorno. 

Sorrido come una bambina e la rimetto dentro la scatola, poi la nascondo dentro lo zaino. 

Fisso il biglietto davanti ai miei occhi finché non vedo una lacrima bagnare il pezzo di foglio.

«Hai visto papà? Sembra che a qualcuno importi davvero di me», dico, piegando il biglietto e mettendolo dentro la tasca. 

Eppure… non mi ha lasciato alcuna lettera. 

Guardo l'ora sul cellulare e poi scendo di nuovo le scale. In fondo trovo Sasha, seduto su un gradino con i piedi appoggiati sullo skate, facendolo muovere lentamente a destra e sinistra. 

Mi schiarisco la gola dietro di lui. 

«Dovrei passare.»

Lui piega la testa all'indietro e faccio l'errore di guardarlo negli occhi: aghi di ghiaccio avvolti dalle tenebre nei suoi occhi, il suo sorriso peccaminoso corrompe quella parte del mio cervello che pensavo fosse ancora in grado di ragionare. Una tempesta di neve che travolge il mio cuore, facendolo sussultare. 
«Smettila di fissarmi in questo modo, stronzo scorbutico», mi lascio sfuggire a voce alta, come se trovarmi davanti a lui fosse un continuo tentativo di farci la guerra. 

Si sposta di lato e io gli passo accanto, ma lui mi afferra per il polpaccio, trattenendomi. 

Ci guardiamo negli occhi, faccio un sospiro profondo e poi apro lo zaino per prendere il suo regalo, ma la carta blu appallottolata cade a terra e lui si affretta a prenderla. Se la rigira tra le mani e mormora: «Stelle e stelline.»

«Senti», esordisco, cercando di mantenere la calma. «Questo in realtà è per te», gli passo il regalo, lui sembra sorpreso. «È per ringraziarti… sai, per ieri sera.»

Lui sfiora la carta con i polpastrelli e poi mi guarda di nuovo, intravedo una scintilla di paura nei suoi occhi. 

«Grazie, suppongo...», corruccia la fronte e infila le dita sotto il nastro rosso. 

«Spero ti piaccia. Non è per Manuel. Ho mentito, prima. Ero in ansia», mi stringo nelle spalle. 

«Dunque ti rendo nervosa», constata con un sorriso divertito. 

«Dunque adesso Aretha è diventata una piacevole compagnia per te», ribatto lasciando trapelare il fastidio nella mia voce. 

«Qualcuno qui è… geloso?», si alza in piedi e si appoggia alla ringhiera. 

«Io? No, non ho alcun motivo di essere gelosa», lo trucido con lo sguardo. «Se provassi dell'interesse per qualcuno, sarebbe sicuramente per il tuo amico e non per te.»

Sasha smette di sorridere. «Mi sorprende che una come te possa ancora provare dell'interesse per qualcosa o qualcuno.» 

La sua frase mi colpisce dritto nello stomaco. 

«Sai cosa?», stringo i pugni e mi piazzo davanti a lui, fronteggiandolo. 

«Cosa?»

«Ora capisco perché non parli con nessuno», e mi pento all'istante di averlo detto. So cosa si prova, eppure l'ho detto lo stesso.

«Le parole diventano un'arma soltanto quando il bersaglio davanti a te lo conosci abbastanza bene da avere la presunzione di poterlo ferire», pronuncia con un tono di voce calmo, che non tradisce in alcun modo il suo stato d'animo. E io rimango come una stupida a fissare la sua schiena mentre si allontana. Vorrei soltanto capire perché agisco così in sua presenza. 

Eccomi, finalmente 💜
Settimana scorsa l'ho trascorsa con... La persona che, praticamente, è diventata la mia musa per scrivere di Sasha e questa storia in generale, per chi non lo sapesse. 🥲 Magari vi sono mancati 🌻
Loro che si aiutano, poi si stanno sulle scatole a vicenda, diciamo che devono fare pace col cervello ☠️

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