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13. Ti ho trovata, Casper

This is the part where I take all my feelings and hide 'em
'Cause I don't want nobody to hurt me.

-Juice WRLD


In questo momento mi sento distaccata dalla realtà. Sono qui fisicamente, ma la mia testa è altrove. 

Sento mia madre, percepisco i suoi movimenti davanti ai fornelli, ma per la prima volta decido di non aiutarla. 

Le dita avvolte intorno al bicchiere di succo di frutta e la schiena premuta contro la porta del frigo. Sono qui, a pochi passi da lei, ma sento i miei arti completamente rigidi.

Vorrei poter arrestare il flusso di pensieri che scorre incurabile da una parte all'altra, disegnando il volto caotico dell'unica persona che nelle ultime ore ha popolato in modo impudente la mia mente: Sasha. 

Le sue parole m'infestano la mente; penso al modo in cui si è irrigidito nel sentirmi nominare Manuel. Ripenso al suo gesto carino nei miei confronti. 

Un lupo solitario che brancola nel buio; lo sguardo torbido della notte che è rimasta senza luna. 

Ma nei suoi occhi non ho scorto nulla di strano; non hanno lasciato trapelare alcuna emozione particolare. Forse era soltanto sorpreso, perché mai una come me chiede di Manuel?

E se fosse davvero lui il ragazzo che risponde alle mie lettere?

La sua bontà è rinomata in quella scuola. Nessuna rissa. Nessuna regola infranta. Nessuno scontro verbale. Ma anche lui, come Sasha, ha il potere di farti tacere con uno sguardo. 

«Hai intenzione di aiutarmi?», la voce di mia madre è come un bicchiere che si rompe in mille pezzi. Posa nervosamente il guanto sul bancone e mi fissa. 

«Dove sei stata ieri? Ruth ha detto che non sei rientrata allo stesso orario di sempre», picchietta le unghie sul legno scuro, i suoi occhi indagatori scavano dentro di me. Non riuscendo più a sostenere lo sguardo, afferra un coltello e inizia a tagliare il tacchino che ha cucinato al forno. 

«Sono stata a casa di un'amica», rispondo con voce incolore, cercando di ignorare la sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco.

«Ultimamente esci di più. Appari perfino più luminosa», mi fa presente e sorride appena.

Le rivolgo una breve occhiata in segno di risposta, poi prendo le posate e vado ad apparecchiare il tavolo.  

«Chandra, hai chiesto scusa a tua sorella?», forse un pugno allo stomaco avrebbe fatto meno male. Crede veramente a lei? Non è ancora riuscita a guardare oltre il velo di ipocrisia che le ricopre il volto?

«No e non ho intenzione di farlo», asserisco.

Pochi secondi dopo, Ruth ci delizia con la sua presenza. Indossa già il pigiama, ha i capelli legati in una coda disordinata e tra le mani stringe un sacchetto di arachidi. 

Si avvicina e si siede al suo solito posto, accanto alla sedia vuota di papà. 

Nota il mio sguardo insistente e un solco impercettibile marca la sua fronte. «Che hai da guardare?».

I miei occhi ruotano in automatico verso l'alto. Non sto pensando a lei. Non mi soffermerei così tanto sulla sua faccia, sulle sue smorfie insopportabili e sulle sue azioni da villana.

Io sto pensando alla lettera che ho lasciato stamattina sul tetto della scuola. 

Chissà se cerca ancora la mia presenza in mezzo all'inchiostro nero che narra il mio dolore.  

Sorrido soltanto all'idea e mi auguro che questo scambio di pensieri, di attimi indelebili, rimanga per sempre così, intatto. Che nessun altro, oltre a noi due, sfiori il sussurro triste di quel pezzo di foglio.

Mi piace la sua presenza. Mi fa sentire meno sola. Compresa.

«Conosco quel tipo di sorriso», esclama Ruth, puntellando i gomiti sul tavolo e trucidandomi con lo sguardo. Mette il sacchetto da parte e si solleva di poco, piegandosi e allungandosi verso di me. «Qualcosa ti rende felice.»

No. Lei questo non lo saprà mai.

«Ti sbagli», affermo, sostenendo il suo sguardo.

«Lo verrò a sapere, Chandra. E ti porterò via quello che ti fa stare così bene, esattamente come tu hai fatto con me» sibila, i suoi occhi minacciosi mi inceneriscono. Lancia un'occhiata rapida oltre la mia spalla, assicurandosi che nostra madre non senta la nostra conversazione.

«Buona fortuna, allora», perché non so nemmeno io cosa mi rende felice, vorrei dirle. Non la chiamo nemmeno felicità, questa. È soltanto sollievo. Sì, mi sento sollevata nel sapere che per qualcuno, là fuori, il mio dolore non sia invisibile.  

«Quella sfumatura di odio che si sta pian piano cristallizzando nelle tue iridi, non passa inosservata, sorellina», ghigna, stando di nuovo composta.

Mi rifiuto di ribattere. Lo sta facendo per provocarmi, lo so. 

«Quel tuo sguardo omicida... Oh, vuoi per caso distruggermi il volto di nuovo?», esibisce un'espressione innocente che non le appartiene per niente. 

«Io non ti ho toccata», peroro la mia causa, nonostante non abbia il supporto di mia madre in questo momento. 

«Sì, l'hai fatto», insiste e accavalla le gambe, assumendo un atteggiamento altezzoso.

«Non ti ho nemmeno sfiorata. Bugiarda», digrigno i denti e stringo il manico del coltello. 

Ruth nota le nocche bianche delle mie dita e sfoggia un altro sorriso malizioso. 

«Mamma, Chandra sta perdendo le staffe di nuovo. Vieni a vedere», grida, passandosi poi la lingua sulla labbra lentamente, senza distogliere lo sguardo dal mio. Vorrei prendere la sua dannata testa e sbatterla contro il tavolo. Le voglio bene, ma lei è capace di portare in superficie il mio lato peggiore. 

Fa scoppiare la rabbia dentro di me come una bomba.

«Chandra, che cosa stai facendo?», domanda mia madre guardandomi sconvolta. Il suo sguardo scivola sulla stretta intorno al coltello e si affretta a prendermelo dalle mani. 

Mi metto subito sulla difensiva. «Non ho fatto niente. Stavo apparecchiando.»

Ruth le fa gli occhi dolci. «Non è vero, si capisce quando è arrabbiata. Guardala bene.»

«Non so davvero cosa fare con voi due. E Chandra, per caso hai perso il lume della ragione?», mi redarguisce, dandomi in seguito uno strattone. 

«Io non ho fatto proprio nulla», ripeto, abbassando la voce. 

«Mi voleva cavare un occhio soltanto perché le ho detto che papà non sarebbe fiera di lei, se fosse ancora in vita», inventa senza il minimo rimpianto. Usa il ricordo che ha di lui a suo favore. E lo fa senza pietà. 

Uno scatto d'ira mi spinge ad allungarmi verso di lei, con la mano ben aperta e intenta ad afferrarla per il collo, ma mia madre posa con forza le mani sulle mie spalle e mi fa allontanare da lei.

«Non ha tutti i torti», scuote la testa con aria delusa. «Se tuo padre ti vedesse così...», si porta la mano davanti alla bocca, soffocando un singhiozzo.

«Sai cosa? Non ho più fame», dichiaro, indietreggiando lentamente. 

«Resta qui e mangia», mia madre si ricompone. Il suo tono di voce assume una sfumatura più cupa. 

«Non ho fame», ripeto, gelida.

Ruth sbuffa sonoramente. «Nostra madre lavora ogni giorno, e nonostante la stanchezza ha preparato comunque la cena perché voleva che mangiassimo insieme come una famiglia felice, e tu stai di nuovo rovinando tutto!», il palmo della sua mano si schianta con forza sul tavolo, facendo tremare i bicchieri. 

«Tu hai bisogno di essere seguita da qualcuno, perché sei fottutamente pazza», grido a pieni polmoni. Mia madre sgrana gli occhi e punta il dito sulle scale. 

«Vai nella tua stanza. Subito», ordina. 

Non me lo faccio ripetere due volte. Salgo le scale con l'ira che mi circonda il corpo come una spirale. Le lacrime incendiano i miei occhi  e il dolore inizia a scavare di nuovo al centro del mio petto, facendosi spazio sempre di più. 

Mi chiudo nella mia stanza, sbattendo la porta fino a sentire i cardini tremare, e scivolo con la schiena lungo la superficie di legno alle mie spalle. 

«Stronza», sussurro. Le lacrime scorrono lungo le mie guance, mi appresto ad asciugarle subito con il dorso della mano. Afferro il cellulare e, con il corpo ancora scosso da fremiti implacabili, vado a chiudermi in bagno. 

Apro il rubinetto e lascio che la vasca si riempia d'acqua. Aspetto, con le gambe strette al petto, seduta sulla tavoletta del water e penso alla mia voglia di sparire. 

Metto i piedi sul bordo della vasca e fisso la schermata del cellulare. Il mio dito scivola quasi in automatico sull'icona del social che odio di più. 

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Connessione assente. 

Esco dall'applicazione, blocco di nuovo la schermata, inizio a spogliarmi e poi mi sdraio nella vasca. 

Poso il cellulare vicino alla mia testa e lascio che l'acqua calda avvolga il mio corpo. Quando sto per chiudere gli occhi e rilassarmi, il mio cellulare inizia a squillare incessantemente. 

Giro il capo pigramente soltanto per leggere il nome di chi ha deciso di derubarmi di un momento simile. 

Afferro l'asciugamano che ho lasciato a terra e mi asciugo le mani, poi premo sul tasto verde. 

«Pronto? Riley?», dico cercando di non far sentire il nervosismo nella voce. 

«Allora, ho una proposta per te», esclama poco convinta. «Sai che io soffro d'ansia e non riesco ad andare ovunque da sola, quindi stavo pensando… che ne dici di accompagnarmi ad una festa? Dicono sia uno sballo! È stata organizzata da un certo Benjamin, l'invito è stato esteso ad un sacco di gente della nostra scuola. A te è arrivato il messaggio?»

Vorrei dirle che nessuno prenderebbe in considerazione l'idea di invitarmi da qualche parte, al momento. Mi sono chiusa talmente tanto nella mia bolla, che gli altri si limitano a guardarmi dall'esterno e basta. 

«Sai che non ho voglia», rispondo, giocherellando con la schiuma nella vasca. 

«Per favore! Almeno vediamo come va. Se fa schifo ce ne andiamo subito», insiste lei. 

Alzo gli occhi al cielo e sospiro. «Mi dai la tua parola?»

«Assolutamente sì! Ti aspetto tra circa mezz'ora all'angolo della strada, così tua sorella non ci vedrà», mi fa sapere e chiudo la chiamata. 

Mezz'ora

Faccio pressione sul bordo della vasca, poi mi do una spinta ed esco fuori dall'acqua,  rischiando di scivolare sulle piastrelle. Avvolgo il mio corpo gocciolante nel primo accappatoio che trovo accanto alla porta. 

Sfrego il palmo della mano sullo specchio appannato e osservo il mio riflesso. La stanchezza non intende abbandonare il mio viso. 

Apro il cassetto e prendo i miei trucchi, cercando di donare una sfumatura più vivace al mio sguardo. 

Quando finisco, esco dal bagno, corro nella mia stanza e apro le ante dell'armadio. 

So come sono le feste di solito e sono consapevole della miriade di ragazze che si metteranno in tiro questa sera, ma una paranoica come me non può fare a meno di pensare al peggio, quindi niente vestitino e tacchi. 

Indosso un paio di jeans neri, una maglietta bianca e le mie converse nere. 
Metto il cellulare dentro la tasca posteriore e poi mi catapulto al piano di sotto, scontrandomi con mia madre. 

«Dove stai andando?», chiede, accigliandosi immediatamente. 

«Esco con Riley», le dico, distogliendo lo sguardo.

«A fare cosa?», indaga Ruth, avvicinandosi furtivamente e appoggiandosi con la spalla al muro. 

«Non sono affari tuoi», sentenzio, stringendo i denti. 

«Va bene, ma non fare tardi», pronuncia mia madre, lanciandomi un'occhiata eloquente. Sì è sempre fidata di me, ho sempre rispettato le regole e il coprifuoco.

Ruth mi fissa, una smorfia le deforma il viso. Si dirige verso le scale, ma prima esclama: «Cavolo, ti è già passata la depressione post lutto!»

La sua frase è come un pugno nello stomaco. Mia madre sospira e incrocia le braccia al petto, esausta. «Chissà quando la finerete, voi due. Tutti in questa casa sentiamo la sua mancanza e tutti soffriamo in silenzio. Vi chiedo soltanto di smetterla.»

Non so quando finirà. Non dipende da me, vorrei dirle. Prima o poi Ruth riuscirà a farle il lavaggio del cervello. Ha già mostrato di cosa è capace. 

Esco di casa e mi fermo ad osservare il barbecue trasandato in un angolo del giardino, che papà usava nel fine settimana per fare le sue meravigliose grigliate, millantando le sue incredibili qualità da cuoco ogni volta. 

Ora quella parte del giardino è rimasta vuota e mamma ogni tanto paga qualcuno per curare l'erba. Tutto ciò che era la normalità, adesso è soltanto un vago ricordo. 

La grigliata non la facciamo più. 

I suoi amici non vengono più a trovarci, perché mamma inventa ogni volta una scusa diversa. L'assenza di papà le grava sul cuore. 

Da Nino's pizza adesso ci vado sa sola. 

Spero che Tom stia meglio di me, in questo momento, e che Nino sia fiero di lui. 

Mentre cammino sotto la luce fioca del lampione, intravedo un baluginio in fondo alla strada. 

Quando sono abbastanza vicina, vedo Riley muovere energicamente una mano in aria. «Ehilà», grida. Indossa un semplice vestito rosso con fiorellini bianchi e ai piedi ha un paio di converse rosse. Sono felice di non essere l'unica ad aver puntato sulla semplicità. 

«Ecco la sua carrozza, sua maestà», mi apre la portiera, facendomi salire sul sedile posteriore. Alla guida c'è Bonnie, che solleva due dita in segno di saluto. 

«Niente cavalieri in armatura scintillante per noi, non ne abbiamo bisogno. Andiamo, mie donzelle!», batte il palmo della mano sul volante e poi mette in moto. Sorrido e annuisco, rivolgendo lo sguardo fuori dal finestrino. 

«Dev'essere questa, la festa. L'indirizzo corrisponde», mormora Riley, controllando attentamente l'invito scritto nel messaggio. 

Blocca la schermata e Bonnie parcheggia dietro ad una macchina bianca. «Il  modo in cui parcheggio non dev'essere perfetto, l'importante è che la macchina stia qui ferma», afferma, come se si aspettasse già qualche commento cattivo da parte nostra. 

«Io non ho la patente, quindi non m'importa. Sono felice di essere arrivata qui viva», rido, scendendo per prima. 

«Chandra ha ragione. Ora speriamo di riuscire a tornare a casa», dice con ironia. 

Avanziamo tutte e tre verso il cancello. Prima di varcarlo, solleviamo lo sguardo verso il cartello bianco all'entrata e leggiamo la scritta: Ingresso gratuito solo se mandi giù uno shot. 

«Io non bevo», dico, incrociando le braccia al petto. 

«Non lo sentirai nemmeno, vedrai», cerca di rassicurarmi Riley. 

Ci mettiamo in fila dietro agli altri. Un ragazzo scuote una bottiglia di tequila e accoglie gli invitati con uno stupido sorriso finto sul viso. 

Do un'occhiata intorno a me, analizzando quasi nei minimi dettagli l'ambiente che mi circonda. 

C'è perfino una piscina, il bordo già costellato da coppiette che parlano e fanno dondolare i piedi nell'acqua. 

Quando tocca a me, prendo subito il piccolo bicchiere e mando giù il liquido trasparente, facendo una smorfia. 

«Non sembri molto abituata a questo», commenta il ragazzo davanti a me, ma non riesco nemmeno a rispondere. Ho la gola in fiamme e gli occhi in lacrime. 

«Poteva andare peggio», tenta di scherzare Bonnie. 

«Sorridete, ragazze!», Riley solleva il cellulare per scattare una foto e postarla nelle storie di Instagram. Una curva lieve ravviva il mio sguardo spento. 

«E adesso, per favore, balliamo. Ho bisogno di sciogliermi in qualche modo», prende Bonnie a braccetto, ma io decido di mettermi in disparte. 

«Sarò qui intorno», le faccio sapere e poi  raggiungo un angolo meno trafficato del giardino. 

I volti intorno a me non sono del tutto sconosciuti. Li ho già intravisti più di una volta nei corridoi della scuola.

I miei occhi intercettano una figura che riconosco sin da subito.

Sulle scale della villa c'è Manuel. Dalla faccia sembra annoiato. Ha la schiena appoggiata alla ringhiera in marmo bianco, un bicchiere rosso stretto in una mano e il cellulare nell'altra. 

Avrà già letto le mie parole? 

Deglutisco e decido di farmi coraggio. 
Mi avvicino lentamente, lo stomaco in subbuglio. 

Quando il suo sguardo si solleva all'improvviso e i suoi occhi si posano su di me, io rimango pietrificata. Non riesco più a muovermi. 

Il suo sorriso raggiante manda in frantumi il disagio. «Ehi, che piacere vederti qui», mi dice. Il calore si diffonde nuovamente sulle mie guance, fino alle punte delle orecchie. 

«Manuel», il mio tono di voce sembra un trillo assordante. «Sei da solo», ipotizzo, passando in rassegna con gli occhi il giardino disseminato di persone, alla ricerca del suo amico.

«Oh sì. Non c'è stato verso di convincere Sasha», ammette con una risata divertita. 

In effetti mi sembrava strano. Sono sempre insieme come Spongebob e Patrick. 

«Chiunque sia stato, è un figlio di puttana», grida d'un tratto una ragazza mentre scende le scale come una furia. Ha i pugni stretti lungo i fianchi, le labbra serrate e un liquido verde schifoso che le cola lungo il vestito bianco e sulle gambe. 

Manuel si alza, incuriosito. «Cos'è successo?», chiede.

«Non lo so, qualche coglione mi ha fatto questo», grida, collerica. 

Manuel sposta l'attenzione per un paio di secondi sul bicchiere e poi lo getta a terra, contraendo la mascella. Perché questo gesto?

Poco dopo un'altra ragazza ci sfreccia davanti e si butta addosso al ragazzo che serve da bere all'entrata, prendendolo a schiaffi. 

«Che cosa avete messo in quei cazzo di brownies?», gli urla contro, lui invece scoppia a ridere. 

«Vado a fare una telefonata», dichiara Manuel, allontanandosi da me. 

Le mie amiche sono ancora in disparte, chiacchierano, sembrano contente. Menomale.

In assenza di compagnia, decido di salire le scale e raggiungere l'ingresso della villa. Rimango ferma e perlustro con lo sguardo l'atrio zeppo di persone che si scatenano a ritmo di musica. 

Mi faccio coraggio e mi addentro. Sembra tutto nella norma. Ma allora cosa diavolo aveva la ragazza di prima? 

Sposto lo sguardo su una sconosciuta che per poco non sta divorando la faccia del ragazzo su cui si è seduta. Un altro tizio sul divano sembra strafatto, ha lo sguardo perso e sorride lievemente al nulla. 

«Brownies?», chiede un ragazzo, facendomi sussultare. 

«No, sono a posto.»

«Lo mangerai», insiste lui, questa volta con tono perentorio. 

«Come, scusa?», chiedo, inarcando un sopracciglio. 

«Frequenti la Pierson High, giusto?», indaga, lanciandomi uno sguardo sprezzante. 

«È un problema?», decido di prendere le distanze da lui, senza smettere di guardarlo in modo torvo.

«Non conosci Benjamin Plath, vero?», una risata, a tratti perfida, abbandona la sua bocca carnosa. 

«No», ammetto. 

«Perché non chiedi a Bennie o a Sasha? Li conosci, no?», sghignazza, come se fossi all'oscuro di qualche evento spiacevole. « Oh, preparati una scusa per dopo», allunga la mano verso il mio viso e mi accarezza la guancia con il pollice. Sorride un'ultima volta ed esce fuori, chiudendosi la porta alle spalle. 

Cosa diavolo intende? 

Mi giro e afferro la maniglia, decisa a raggiungere le mie amiche, ma la porta non si apre più. 

Provo ancora ad aprirla, ma risulta bloccata. 

Corro alla finestra e sposto le tende, guardando fuori. Alcune persone varcano il cancello e vanno via. 

Batto ripetutamente il palmo della mano sul vetro, ma nessuno riesce a sentirmi a causa della musica troppo alta. 

«Cazzo!», impreco. Mi allontano con la mente completamente annebbiata e inizio a vagare per la casa, alla ricerca di un'uscita d'emergenza. 

Salgo al piano di sopra e apro tutte le porte, una per volta.

Entro in una delle camere da letto, ma all'improvviso sento un liquido viscido piombare sulla mia testa, e colando in seguito sui miei vestiti. Trattengo il respiro e abbasso lo sguardo sulla mia maglietta bianca, adesso rossa. 

Qualcuno deve aver fatto la stessa cosa alla ragazza di prima. 

Chiudo la porta per evitare che qualche coppietta in preda agli ormoni mi disturbi, e mi avvicino alla finestra che dà sulla parte opposta del giardino. 

«Che divertente», commento, pulendomi il viso con le mani. «Davvero da persone mature.»

Prendo il cellulare dalla tasca e accendo la connessione, poi entro su Instagram. 

Sento il trillo di diverse notifiche, tra cui il tag nella storia di Riley e… diversi messaggi da parte di Sasha. 

"Questa sei tu" 

È la frase che appare sotto l'immagine che mi ha mandato. Un ladro che scappa via con un sacco nero sulla spalla e con all'interno un fiore bianco. 

Mi abbandono ad una breve risata, dimenticandomi per un attimo l'aspetto pietoso che ho al momento. 

Man mano che leggo gli altri messaggi, il sorriso si affievolisce fino a spegnersi del tutto. 

"Ho visto la foto. Dall'espressione che hai, deduco tu ti stia divertendo un mondo." 

"Domanda totalmente priva d'interesse, a quale festa sei andata?"

"Rispondimi, Chandra." 

Mi ha davvero chiamata per nome? 

"Vattene via da lì. Adesso."

Scusami?! 

L'arroganza con cui l'ha scritto mi fa venire voglia di spaccargli la faccia. 

«Ci ho già provato, genio», brontolo. 

Poi, però, un dubbio germoglia di colpo nella mia mente. Se non gli importa nulla, allora perché mi ha detto di andare via? Se è una festa da sballo, allora perché Bennie non è qui? Perché Aretha e le sue seguaci non hanno ancora sfilato davanti a noi?

Provo ad uscire dalla stanza, ma anche questa porta non si apre più. 

«No, no e ancora no», grido, tirando un calcio nella porta. «Ma chi è che si diverte a fare questi giochetti idioti?»

Mando un messaggio alla mia amica.

"Riley, sono chiusa in questa casa di merda. Tirami fuori prima che mi venga un attacco di panico."

Richiesta azzardata, visto che lei è, a livello di ansia, è messa peggio di me. 

Pochi secondi dopo, il suo nome spunta sulla schermata del cellulare. Dio, grazie!

«In che senso sei chiusa dentro? Qui si sta mettendo male. Sono arrivati Bennie, Tony e Ashton e ci hanno obbligati ad abbandonare la festa. Non sto capendo niente», grida in preda al panico. «Dobbiamo tirare fuori Chandra da quel posto di merda», la sento dire. «Ehi, aspettami, dove stai andando senza di me? È la mia amica quella!», aggiunge e questa volta sul mio viso spunta un sorriso sincero che coinvolge anche gli occhi. 

La chiamata si interrompe. Corro alla finestra e la apro. «Ehi, sono qui!», grido a squarciagola, ma la mia voce si disperde nell'aria insieme alle note della canzone. 

Ci rinuncio

Do un'occhiata veloce alla distanza che mi separa dal suolo. Non posso saltare, finirei per rompermi una gamba. 

Ormai scoraggiata, mi siedo per terra, fregandomene del colore ancora fresco sui miei vestiti. Che bugia dirò a mia madre? Non appena mi vedrà conciata così, attaccherà con uno dei suoi sermoni e probabilmente mi vieterà di uscire per il resto dei miei giorni. 

Un clangore metallico attira la mia attenzione. Gattono verso la finestra e quando sto per alzarmi e controllare, qualcuno si aggrappa al davanzale e prova ad entrare nella stanza, ma le nostre teste si scontrano. Io cado all'indietro e lui piomba sul mio corpo.

«Oddio, spostati razza di maniaco!», grido, divincolandomi come un'ossessa sotto di lui. 

«Ti ho trovata, Casper», il sussurro della sua voce in questo momento sembra il suono più bello che io abbia mai sentito. Sono salva. Non sono più da sola. 

«Sasha», un tremulo sospiro scivola tra le mie labbra, scalfendo l'argine della sua bocca. Non si perde in sguardi fugaci, a differenza mia. Si tira su con una mossa fluida e mi fa cenno di seguirlo. «Andiamo.»

«La porta non si apre», gli faccio sapere mentre mi rimetto in piedi anche io.

«Usciremo dalla finestra. Non ho cercato una scala per niente.»

«Sul serio?», chiedo. 

Lui non risponde, quindi decido di dargli ascolto e inizio a scendere piano. 

Appena sono giù, per poco non bacio terra. 

Sasha balza accanto a me, poi mi afferra per il polso e mi sprona a corrergli dietro. 

«Perché non sei con Manuel?», gli chiedo.

«Perché non potevo lasciarti in mezzo a questo casino. Dobbiamo andare via», e appena lo dice, in lontananza sentiamo le sirene della polizia. «Cazzo!», grida.

«Sta arrivando la polizia, via, via!», grida Bennie in mezzo alla strada.

«Le mie amiche», grido mentre corriamo a perdifiato. 

«Sono già andate via», ribatte, tranquillizzandomi. 

«Cos'è successo?», chiedo, piegandomi sulle ginocchia e cercando di riprendere fiato. 

«È una trappola messa in atto da quelli del liceo Morrison. Bennie se lo aspettava», spiega, poi mi fa cenno di velocizzare il passo. Svoltiamo su una stradina poco illuminata e mi aggrappo con forza al suo braccio non appena sento il miagolio furioso di un gatto vicino ad un cassonetto.

«È soltanto un gatto», mormora, annoiato. 

Camminiamo in silenzio l'uno accanto all'altro, poi allunga un braccio davanti a me, fermandomi. «Aspetta, ti hanno fatto qualcosa?», si gira verso di me, intravedo il suo sguardo adombrato.

«No, sto bene», rispondo. «A parte questa roba, sto bene», indico il colore che ho addosso. 

«Infantili», commenta con disprezzo. 

«Conosci un certo Benjamin Plath?», gli chiedo e interrompe di nuovo la sua camminata. 

«È un coglione», taglia corto. «Non dovresti nemmeno nominarlo.»

«Ma tu e Bennie lo conoscete», insisto. 

«Sì. La nostra squadra ha giocato contro quella della Morrison tempo fa, vincendo. A fine partita Benjamin ha provocato Bennie, quest'ultimo ha dato di matto come sempre e la situazione poi è degenerata. Sono intervenuto insieme agli altri per separarli. Mi avranno preso di mira, deduco», cerca di dissimulare il nervosismo dietro all'indifferenza. 

«Mi dispiace», dico soltanto. 

«Perché non sei andato via con Manuel?», mi mordo il labbro. Ho fatto una domanda irritante.

«E lasciarti lì da sola? È stato Benjamin stesso a chiamare la polizia. Il suo scopo è mettere in cattiva luce la nostra scuola, così quando ci sarà l'ultima partita, la nostra squadra verrà squalificata in automatico. Si inventerà qualche stronzata con la polizia. Quella è una delle sue abitazioni, e se di solito non è abitata, diranno che degli adolescenti si sono infiltrati dentro e hanno organizzato una festa a loro insaputa.»

«Cavolo, prevedi il futuro?», gli chiedo, guardandolo con la coda dell'occhio.

«No, ma ha fatto la stessa identica cosa due anni fa. Vedrai l'articolo che uscirà domani: la villa dei Plath vandalizzata.»

Oh. 

Imbocchiamo la nostra via e camminiamo senza pronunciare una parola. Ogni tanto osiamo guardarci di nascosto, ma è soltanto un incontro fugace di sguardi e nulla di più. 

Sollevo la testa verso il cielo e osservo la luna. Così bella e luminosa. Sorrido e riporto lo sguardo davanti a me. Le mie gambe sono ferme, così come quelle di Sasha. 

Si è fermato insieme a me a guardare la luna.

«A cosa pensi?», la sua voce, così bassa e allo stesso tempo così curiosa, mi fa contorcere le budella per un attimo.

«È bella, non trovi?», mi avvicino a lui. 

«È soltanto una palla luminosa. Su, andiamo», si irrigidisce e mi volta le spalle. Cammina a testa bassa, tutto ad un tratto sembra un'altra persona.

«Antipatico», mormoro tra me e me.

«Guarda che ti sento.»

«Non m'interessa», assottiglio lo sguardo mentre lo seguo come una bambina indispettita.

«Brontolona», mi stuzzica. 

«Arrogante.»

«Sei sempre così lenta?», chiede. 

«E tu hai sempre qualcosa di cui lamentarti?», aumento il passo e gli do una spallata quando gli passo accanto. 

«SÌ. Mi diverte», ma la sua voce non lascia mai trapelare il minimo accenno di divertimento.

Mi giro verso di lui, mettendo le mani sui fianchi. «Prestami una maglietta.»

Lui si passa una mano tra i capelli. «Neanche per sogno, ci si vede», attraversa la strada come se niente fosse.

«Non posso tornare a casa così! Mia madre mi ucciderà e mia sorella mi romperà le scatole per il resto dei miei giorni. Per favore», grido fingendomi triste, poi attraverso la strada e lo seguo. In effetti, questo è lo scenario più probabile. Quella stronza di Ruth è sicuramente  rimasta sveglia ad aspettarmi soltanto per ricordarmi che anche oggi dovrei essere io a morire.

Sasha attraversa di nuovo la strada, cambiando marciapiede. 

«Ma sei serio? Sasha!»

In assenza di una sua risposta, continuiamo a camminare finché non raggiungiamo casa sua. Attraverso la strada e aspetto accanto alla staccionata. 

«Ti ho già detto di no», asserisce senza degnarmi di uno sguardo.

«Non posso tornare a casa conciata così, dico davvero. Fammi soltanto questo ultimo favore», lo prego, unendo i palmi delle mani. 

Si prende un minuto per riflettere. Un muscolo guizza sulla sua mascella. «Vieni, i miei sono fuori città», mi fa cenno di seguirlo. Dalla tasca estrae un mazzo di chiavi e apre la porta in vetro del portico, facendomi entrare. 

E io come un'idiota lo seguo in silenzio, dopotutto sono stata io ad insistere. Magari mi farà fuori.

Apre anche l'altra porta e accende la luce nel corridoio. 

«Avanti», inizia a salire le scale e io lo seguo come una mummia.

Si ferma davanti ad una porta bianca e la apre. 

La prima cosa che vedo è un poster enorme dei Sum 41 sopra la testiera del letto e uno che ritrae gli Avengers sulla parete sinistra, accanto alla sua collezione di Funko. 

Sull'altra parete, sulla mensola, vi sono posizionati alcuni fumetti Marvel, diversi libri e alcuni vinili. 

Mi addentro nel suo mondo insieme a lui. Non aspetto che mi dia il permesso. In realtà non dice nulla. Ogni tanto il suo sguardo tagliente intercetta il mio e mi osserva come se avesse paura.  

Per me ci sono due tipi di persone al mondo:

•Quelle che della loro stanza ne fanno un mondo proprio, racchiudendo tra quattro pareti l'essenza del loro essere;

•Quelle che nella propria stanza non ci mettono nulla di così personale, perché preferiscono rimanere anonimi perfino all'universo. 

E la differenza tra me e Sasha è così palese in questo momento. Il suo mondo è la sua stanza. 

Il mio mondo è racchiuso nella mia mente, dove mi ci perdo giorno e notte. La mia stanza non è altro che un posto dove il mio dolore si sente al sicuro. Il luogo in cui mi chiudo a chiave e fingo di gustarmi una nuova realtà. 

La verità è che, a differenza sua, io del mondo ne posso fare a meno. Non importa quanto impegno ci metta a creare un mio rifugio personale. Prima o poi verrà contaminato comunque da sentimenti che non voglio provare, da pensieri che non voglio avere. 

E un po' lo invidio. Lui ha qualcosa di suo. 

Io il mondo l'ho già preso a morsi. L'ho divorato. L'ho spogliato. L'ho preso a calci. L'ho odiato e a volte l'ho amato. L'ho tenuto tra le braccia e mi sono sentita un frammento insignificante al suo interno. Ho provato a renderlo mio. Ho provato a vivere in questo guscio mezzo rotto, guardando la realtà attraverso una fessura.

Ma io, a differenza di tutti gli altri, il mondo continuerei a divorarlo e non sarei comunque sazia... Perché un mondo così sa di nulla. Un mondo così non mi lascia niente, a parte un retrogusto amaro che mi fa pensare "Un giorno questa vita avrà un sapore diverso", ma di diverso sarà soltanto il giorno.

E mi chiedo se quelli come lui, questo, lo capiscano. 

«A volte pensi troppo», rompe il silenzio tra di noi mentre apre l'anta dell'armadio e afferra una maglietta nera.

«Non è vero», assumo un atteggiamento sostenuto e sollevo il mento.

«È così, Casper. Ti guardo in silenzio e fai tanto rumore», getta la maglietta verso di me e la prendo al volo.  «O ti senti a disagio o stai pensando davvero troppo in questo momento.»

«Ho semplicemente la mente altrove, Sasha. Non tutti hanno sempre qualcosa da dire.» Non so nemmeno perché senta il bisogno impellente di giustificarmi davanti a lui. Nemmeno sa cosa mi passa per la testa.

«Cosa ti fa pensare che le conversazioni siano sempre fatte di parole?», il suo sopracciglio si solleva, come se mi stesse provocando. Intravedo un sorrisetto astuto sul suo viso quando mi passa accanto per lasciarmi da sola. «Puoi cambiarti qui.»

Cerco di non farlo aspettare troppo. Mi tolgo la maglietta sporca e indosso subito la sua. Guardo la scritta Marvel sul petto e sorrido. Si è fidato davvero così tanto di me? 

Il mio sguardo cade involontariamente sulla sua scrivania piena di fogli appallottolati. Allungo la mano per afferrarne uno, ma irrompe nella stanza e la sua voce mi blocca: «Non ti ho lasciata da sola fuori, al buio, ad aspettarmi, quindi il minimo che tu possa fare è non toccare la mia roba.» 

«Grazie», sussurro, mortificata. Ai piedi del letto vedo il suo skateboard; per qualche motivo un sorriso spontaneo anima il mio volto. 
È strano vederlo senza il suo tesoro appresso. 

Mentre raccolgo i capelli in una crocchia in cima alla testa, lo sento dire: «Non penso sia servito molto il cambio di maglietta. I tuoi capelli sono un disastro, inclusa la tua faccia.»

«Va bene così, hai fatto abbastanza per me. Grazie, cercherò di tornare a casa senza fare rumore. Dovrò per forza lavarmi.»

«Sono certo che te la caverai», si appoggia all'armadio, a braccia incrociate. 

«Sei stato gentile con me», sussurro non trovando nemmeno la forza di guardarlo negli occhi. 

«Penso sia ora che tu vada a casa», ignora la mia frase.

«Sì. Grazie di tutto», mi incammino verso la porta, e mi giro per dirgli un'ultima cosa. «Quel meme che mi hai mandato su Instagram mi ha fatto ridere.»

Mi guarda per una manciata di secondi, ma la mia frase non ha alcun effetto su di lui. 

Che stupida

Cosa pensavo che avrei ottenuto da parte sua?
 
Un sorriso sincero? 

Perfino nelle sue azioni gentili sento il freddo che si porta dentro. Sasha vive in un involucro di indifferenza e non sarà un grazie da parte mia a tirarlo fuori da lì. 

Non lo saluto, scendo rapidamente le scale e poi mi metto a correre verso casa mia, che fortunatamente non dista molto dalla sua. 

Questo non deve accadere più. 

Ehilà, ecco il nuovo capitolo ❤️🥺 è abbastanza lungo, ho unito due capitoli in uno perché non potevo dividerlo, spero non sia un problema. Gli altri invece sicuramente avranno la solita lunghezza. A volte mi lascio prendere la mano ahahahah 

Visto che non mi fido molto dell'algoritmo di Wattpad, se vi piace la storia e volete supportarmi, magari consigliatela agli altri ❤️

Il meme di Sasha 😂❤️

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