10. Costellazione di pensieri
A svegliarmi non è la solita canzone di Ozzy Osbourne, ma è un colpo assordante contro la porta.
Sento l'ansia esplodermi nel petto.
Un altro colpo contro la porta mi fa sobbalzare. Qualcuno sta forzando la maniglia dall'esterno.
Poiché non è più una novità per me, so che l'unica persona in questa casa che riesce a perdere la pazienza con estrema facilità è Ruth.
Mi chiedo cosa le abbia fatto adesso, perché sta cercando in tutti i modi di buttare giù la porta. E mi chiedo se mia madre non senta il casino che sta facendo a quest'ora.
Agguanto un cuscino e me lo metto in faccia, soffocando un urlo di frustrazione.
«Apri, brutto cadavere ambulante!», la sua voce è graffiante, la rabbia straripa dalla sua bocca. Il suo odio nei miei confronti è come un serpente a sonagli che esce dal suo nascondiglio, avvolge il suo corpo, comprime la sua gola, costringendola ad abbaiarmi contro parole velenose.
Ruth è così. Non riesce a domare il suo animo inquieto quando si tratta di me. La sua rabbia sfonda ogni porta, supera ogni barriera, scavalca il mio muro che pensavo fosse invalicabile, e mi attacca nei peggiori dei modi.
«Cosa vuoi, Ruth?», chiedo con la voce impastata dal sonno. Mi metto a sedere e fisso la moquette viola ai miei piedi.
«Sei entrata nella mia stanza e mi hai preso il caricabatterie, non è così?», grida, dando un altro pugno contro porta, facendola tremare.
«No», mi limito a rispondere. Sposto lo zaino che ho lasciato ai piedi del letto e inizio a raccogliere i vestiti, lanciandoli sulla sedia, sull'altra catasta di indumenti che dovrei lavare.
Pesco da terra anche gli auricolari e un libro, li metto sulla scrivania, poi allineo le scarpe vicino al muro e apro l'armadio, scegliendo cosa indossare.
«Se non apri, giuro che me la pagherai cara», minaccia dall'altra parte della porta. Stringo una maglietta nera tra le mani, e con un sospiro affranto la getto sul letto e a passo deciso vado ad aprire.
Non appena incontro il suo sguardo, come un toro furioso, irrompe mettendomi una mano sulla fronte e spingendomi con forza di lato. Entra senza farsi troppi problemi e inizia a rovistare tra le mie cose, mettendo a soqquadro metà della mia stanza.
Getta i libri, il portapenne e i quaderni sulla moquette. Apre i cassetti e guarda al loro interno, poi controlla anche tra i vestiti, spargendoli per terra come coriandoli. Avevo appena finito di raccoglierli.
«Dov'è? Dove l'hai messo?», contrae forte la mascella mentre mi punta un dito contro. Non ho il coraggio di rispondere, quindi lentamente faccio spallucce e mi appiattisco contro l'anta dell'armadio. La sua rabbia sembra tutta incanalata verso l'esterno, detta le sue azioni. Si scatena come un uragano
verso di me, mi afferra per le spalle e con una spinta decisa mi sbatte contro l'armadio, facendomi battere anche la testa.
«Te lo chiedo un'ultima volta», mette l'avambraccio sotto il mio mento ed esercita una leggera pressione. «Dove l'hai messo?»
Con voce strozzata, riesco a sussurrarle in faccia: «Curati, Ruth. Sei completamente pazza.»
Non l'ho intesa come una provocazione. Non l'ho detto per farla imbestialire ancora di più. Spero davvero che lei chieda aiuto prima che la sua rabbia offuschi completamente la sua mente e perda del tutto la lucidità. È ciò che accade quando perdi la cosa più cara? Perdi la ragione?
Manca anche a me mio padre. Mi manca ogni giorno.
Mi manca quando mi siedo a tavola e non lo vedo più davanti a me mentre è impegnato a leggere il giornale. Mi manca quando mi siedo sul divano a guardare un film e non lo vedo più venire da me con la ciotola di pop-corn al caramello tra le mani ed esclamare "E andiamooo!". Mi manca quando esco di casa e non lo trovo più in macchina ad aspettarmi, pronto a darmi un passaggio. Mi manca quando scendo in cucina di notte e non lo trovo più lì, mentre beve di nascosto un bicchiere di latte con me a fargli compagnia.
Ma tutto ciò non posso dirlo a Ruth. Mi darebbe comunque della stronza.
Si tira indietro e io mi massaggio il punto dolente della gola e poi la testa. L'odio le si è appiccicato sulla faccia come una maschera. L'ira infiamma le sue iridi e la cattiveria deforma le sue labbra fino a formare un sorriso perfido.
Ancora scossa e con le spalle addossate all'armadio, mi abbraccio mentre lei si porta i capelli sulla spalla sinistra e, in seguito, quasi senza preavviso, solleva con uno scatto repentino la mano sulla quale indossa gli anelli e si tira uno schiaffo in faccia. E lo fa più di una volta. Le ciocche di capelli nascondono in parte la sua guancia arrossata, ma riesco ad intravedere un rivolo di sangue all'angolo della sua bocca.
«Ma che cavolo...», mormoro, stupita. Il panico inizia a scuotere lentamente i miei arti e mi aggrappo alla prima cosa che ho a portata di mano, ovvero il giubbotto appeso sulla gruccia. Adesso Ruth mi fa davvero paura.
«Mamma!», prorompe in un grido lacerante, scoppiando a piangere. «Mamma, vieni qui!»
La guardo senza battere ciglio. Non capisco cosa voglia fare. È fuori di testa.
Ho la bocca secca. Il battito accelerato. Vorrei che tutto ciò fosse un incubo, ma quando vedo mamma sulla soglia della porta, che ci osserva confusa, la voglia di chiudermi nell'armadio e sparire per sempre diventa più grande.
«Mamma, Chandra è matta», si mette ad inscenare un pianto drammatico e mentre si avvicina a nostra madre, sposta i capelli e le fa vedere la guancia. «Le ho fatto semplicemente una domanda, e guarda cosa mi ha fatto. Sta male!»
Le labbra tremono. La vista è offuscata dalle lacrime. La mente avvolta dalle ragnatele. Non è reale. Non sta succedendo.
«Chandra!», mi rimprovera mia madre, alzando il tono della voce e riducendo gli occhi a due fessure. «Ma si può sapere cosa ti passa per la testa?», sento lo sdegno e la preoccupazione nella sua voce.
Scuoto la testa, il panico mi impedisce di parlare.
«Io... Mamma io-», riesco soltanto a dire.
Ruth si gira verso di me, sfoggia un sorriso sadico, poi guarda di nuovo nostra madre.
«Dille di scusarsi», afferma, perentoria. Con il dorso della mano si asciuga il sangue all'angolo della bocca. L'acredine indurisce i suoi lineamenti, donando al suo viso una sfumatura tetra.
«Chiedi subito scusa a tua sorella», dichiara mia madre con un tono che non ammette obiezioni. Si avvicina a me a passo deciso e mi afferra il mento tra le dita, guardandomi negli occhi. «So che voi due non andate d'accordo ultimamente, ma non avrei mai pensato che saresti arrivata a tanto, Chandra. Questa volta mi hai davvero delusa.»
«È stata lei!», riesco a gridare, le lacrime scorrono lungo le mie guance.
«Oh, certo! Adesso vuoi dare la colpa a me! Guarda cosa mi hai fatto!», indica la sua faccia. Sento un bruciore all'interno del mio petto.
«Preparati e poi scendi a fare colazione», ordina mia madre. «E tu, tesoro, seguimi. Dobbiamo mettere del ghiaccio sulla guancia», ispeziona il suo viso, dandole una dolce carezza, e poi escono dalla mia stanza.
«Non è successo davvero», mormoro tra i singhiozzi e indietreggio verso il letto, buttandomi a peso morto sul materasso e mi abbraccio forte «Sono sola», sussurro. «Sono completamente sola», mi mordo il labbro, cercando di non scoppiare in un pianto ancora più disperato e poi affondo la faccia nel cuscino, asciugandomi la lacrime.
Dopo un paio di minuti mi alzo e vado a prepararmi per andare a scuola.
Nonostante abbia pianto per pochi minuti, ho ancora gli occhi arrossati e leggermente gonfi. Vorrei non essere così sensibile.
Prendo lo zaino e le cuffiette e scendo al piano di sotto.
«La colazione è sul tavolo», mi fa sapere mia madre con voce gelida mentre traffica dietro il bancone.
«Sono a posto», lancio un'occhiata a Ruth, impegnata nel frattempo a mangiare i suoi waffle alla Nutella. Non sorride con la bocca, ma con gli occhi. E il suo sguardo è trionfante, il mio invece è distrutto.
Infilo gli auricolari nelle orecchie ed esco di casa, sbattendo la porta.
Mi dirigo verso la fermata dell'autobus, gli occhi ancora lucidi e i pugni stretti lungo i fianchi.
Una scarica di rabbia attraversa il mio corpo e tiro un calcio ad una lattina di coca cola vuota sul marciapiede e lascio fuoriuscire un grido, ma all'improvviso sento un lamento alle mie spalle e quando mi giro vedo una persona a terra.
«Merda!», esclama, stringendosi il ginocchio. La lattina di coca cola gli ha fatto perdere l'equilibrio ed è cascato giù dallo skateboard.
«Oddio, mi dispiace!», lo soccorro, inginocchiandomi accanto a lui. Sasha alza una mano per spingermi via, ma quando incontra i miei occhi, rimane immobile a terra a fissarmi.
«Hai pianto?», chiede senza troppi giri di parole.
«No, mi è finito un irrigatore nell'occhio», rispondo con tono sarcastico. Cerco di rimandare indietro le lacrime e inizio dei fazzoletti e un cerotto dentro lo zaino.
«Non volevo farti cadere», bisbiglio. Ho paura che la mia voce mi tradisca. Gli porgo il fazzoletto e si pulisce il sangue dal ginocchio, ma i suoi occhi scavano dentro di me senza esitazione.
«Perché hai pianto?», appallottola il fazzoletto e lo lancia nel cestino della spazzatura sul marciapiede con una mira perfetta. Prendo il cerotto con le nuvolette azzurre e glielo metto sulla ferita. Un guizzo di stordimento gli deforma la bocca per pochi secondi e un solco appena impercettibile gli increspa la fronte.
Lui lo fissa incredulo, lo sguardo puntato verso il basso e le ciglia che sfiorano dolcemente l'area bluastra sotto gli occhi: «Sei seria?», solleva di nuovo il capo e scorgo una scintilla irrisoria nei suoi occhi azzurri, sormontati da folte sopracciglia scure.
Un calore quasi anomalo si propaga alla velocità della luce sulle mie guance. «Non ne ho altri.»
«Hai per caso tre anni?», si rialza, pulendosi i jeans neri, e poi va a riprendersi lo skate. Avrebbe potuto fare una brutta fine per colpa mia.
«No, ma le cose banali a volte mi fanno sorridere. Ti fa molto male?», chiedo e lui scoppia a ridere, in parte divertito e in parte ottenebrato.
«Ho subito cose peggiori», il suo sorriso si affievolisce piano piano e l'espressione divertita lascia spazio ad una addolorata. Mi chiedo cosa si nasconde dietro alle sue parole, al divertimento che sfuma via dai suoi occhi.
«Non passi mai da queste parti», gli faccio presente.
«In realtà ci passo sempre prima che tu venga alla fermata, dunque è per questo motivo che non mi hai mai visto. Oggi sono in ritardo», si sistema meglio la bandana sulla testa. «E da quando hai iniziato a fare caso alla mia presenza, assenza e alle mie abitudini?», chiede, inarcando un sopracciglio.
«Ehm», pronuncio come se non sapessi più come collegare due parole. «Grazie di aver pagato ieri. Sicuro di non volere i soldi indietro?», cambio argomento e noto un lieve sorriso sul suo volto, ma si incupisce di nuovo e risponde secco: «No.»
«Che hai fatto al braccio? Sei caduto?», osservo la ferita sul suo avambraccio, sembra profonda, come se si fosse tagliato con una scheggia di vetro o altro di appuntito.
«Non sono affari tuoi», abbaia, allontanandosi da me. In lontananza vedo l'autobus avvicinarsi.
«Sei sempre stato così scontroso, vero? Anche quando facevi parte della squadra di football, avevi sempre quest'aria da stronzo a circondarti come un'aura», dichiaro, storcendo il naso. «Ma so che qualcosa è cambiato, l'hanno notato tutti. Non sei più quello di prima e anche se cerchi di passare inosservato, io la vedo la costellazione di pensieri che ti porti dietro. I tuoi occhi parlano al posto tuo, certe volte.»
Mi lancia un'occhiata infastidita, come se si stesse chiedendo che diamine di problemi io abbia.
I suoi occhi sono incollati su di me. So che vorrebbe dire qualcosa, tipo mandarmi al diavolo o gridarmi in faccia che dovrei smetterla di analizzarlo come una pazza.
«Parli sempre così tanto? Ho sempre pensato fossi muta», replica e io decido di rimanere in silenzio. Nonostante non gli piaccia il mio cerotto con le nuvolette, non lo ha ancora buttato via. Dentro di me sorrido come una bambina.
Con mia grande sorpresa rimane accanto a me ad aspettare.
Eric apre le porte porte dell'autobus, ma rimangono bloccate a metà. Sasha allunga il braccio e con una mossa fluida le apre del tutto, facendomi salire per prima.
«Buongiorno, Eric», lo saluto, battendogli il pugno come sempre.
«Ma guarda chi abbiamo qui, stamattina!», esclama rivolgendosi a Sasha. Quest'ultimo forza un sorriso e poi va a sedersi in uno dei posti vacanti, evitando come la morte di avvicinarsi a Tony Lee.
L'unico posto libero, quello che di solito Eric tiene riservato per me, è accanto a lui, ma decido di rimanere in piedi. Sasha si infila gli auricolari nelle orecchie e appoggia lo skateboard sulle sue gambe. Riesco a leggere per la prima volta le parole tatuate sul suo polso, accanto al teschio. There's a hell inside of me.
«La sfigata è rimasta senza posto», grida con tono cantilenante Tony dall'ultimo posto.
Deglutisco rumorosamente e abbasso la testa, ma vedo le dita di Sasha chiudersi intorno al mio polso delicato e poi mi attira a sé, spostandosi e facendomi sedere accanto a lui.
Rimango rigida come un sasso.
Metto le mani tra le cosce per nascondere il tremolio e chiudo gli occhi, aspettando la nostra fermata.
«La mia costellazione di pensieri e la tua forse sono più simili di quanto pensi.»
«Cosa?», chiedo, cercando i suoi occhi. Sta davvero parlando con me? O me lo sono sognata?
«Stavo leggendo una frase a voce alta. Ora non disturbarmi», e mi liquida così, alzando di nuovo il volume della musica e ignorandomi per il resto del tragitto.
Appena scendo dall'autobus, lui mi passa accanto, ma il suo sguardo si illumina non appena vede il suo amico.
Il marciapiede è come sempre gremito di persone e nella calca intravedo Riley mentre si sta sbracciando per raggiungermi. Mi prende a braccetto e mi trascina in disparte, guardandomi malissimo.
«Mi spieghi cos'è questa storia?», sibila, cercando di non farsi sentire dagli altri.
«Di cosa stai parlando?», chiedo, guardandomi intorno.
«Corinne sta dicendo a tutti che te la fai con gli uomini più grandi», mi informa. E per la seconda volta in un giorno il mondo mi crolla addosso.
«Ero con Tom ieri... Lei mi ha visto».
«E chi diavolo è Tom?», chiede Riley, accigliandosi.
«Un senzatetto. Sto cercando di dargli una mano a trovare lavoro. Oh, a proposito...», cerco di farle lo sguardo da cucciolo bastonato. «Hai casa libera domani alle tre?»
Lei inarca un sopracciglio, scettica. «Sì, perché?»
«Posso portare Tom da te? Dovrebbe farsi una doccia e darsi una sistemata. Ha un colloquio di lavoro, è davvero importante», le prendo le mani tra le mie, supplicandola.
«Sei seria? Voglio dire, non mi stai prendendo per il culo?», mi guarda negli occhi per capire se sto mentendo o meno.
«Sono seria, Riley. Non posso portarlo da me, Ruth darebbe di matto e scoppierebbe l'inferno a casa nostra», ammetto.
«Ah, quella stronza...», alza gli occhi al cielo. «Va bene, vedrò di darti una mano. Ma spero tu sia sincera con me e che non porti a casa un assassino ricercato da mezzo mondo», mi punta l'indice contro il petto.
«Lo sono.»
«Hai pianto stamattina?», chiede d'un tratto, prendendomi il viso tra le mani.
«No, sono soltanto stanca», mento, distogliendo lo sguardo. È la scusa che uso sempre.
«Sasha è sceso con te, l'ho visto. Che gli sarà successo? Non prende l'autobus da un bel po'», mormora con aria pensierosa, cercandolo con lo sguardo.
«Non lo so, magari era in ritardo.»
«Sì, può darsi.»
Ma non sa che, se non fosse stato per la mia breve crisi di rabbia, lui probabilmente sarebbe venuto a scuola con un leggero ritardo, ma sempre sul suo skateboard. E non sa nemmeno che quel cerotto buffo che si intravede tra lo strappo del jeans gliel'ho messo io. E lui non lo ha ancora tolto.
Sono stata veloce e ho aggiornato di nuovo, ma per qualche motivo mi sento molto ispirata e affezionata a questa storia, forse perché in parte ho preso spunto da alcune cose successe realmente ❤️ mi dispiace però che sia così sottovalutata rispetto alle mie altre storie 🥺 grazie comunque di leggermi, spero vi sia piaciuto 🦋🌛
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro