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01. Dolore senza voce

Il mio grido d'aiuto è
intrappolato in ogni
mio respiro.

Ci sono attimi intensi, violenti, fatti di lacrime amare e occhi spenti, in cui mi domando perché. Perché sono ancora qui? Perché non mi sono lasciata cadere nell'oscurità? Cosa mi impedisce di schiantarmi contro il suolo?
Da quando ho memoria, io non ho mai deciso di svegliarmi e combattere, rimboccarmi le maniche e dire "Okay, brutta stronza. Tu adesso alzi il culo e fai qualcosa per te stessa".
Non l'ho mai fatto, eppure sono ancora qui. Perché?

Apro gli occhi e non provo nulla. Nella mia testa non c'è altro, a parte un vortice di pensieri che mi risucchia al suo interno e preme con forza contro le pareti della mia mente. Ci sono brevi istanti in cui desidero sprofondare nel letto e rimanere incastrata lì, tra le lacrime versate sul cuscino, tra i pensieri che disegnano scenari macabri nella mia mente, gli stessi che contemplo da lontano e che vorrei poter sfiorare con i polpastrelli, sentire il dolore premere contro la mia pelle.

Fisso la realtà attraverso una fessura e mi abbraccio nei momenti in cui vorrei scivolare tra le crepe di quel che rimane di me, precipitare nell'abisso in cui i miei demoni mi aspettano impazienti. Vorrebbero abbrancarmi e avvolgermi tra le ombre; vorrebbero portarmi via l'ultimo respiro.

E oggi è uno di quei giorni in cui apro gli occhi e vorrei richiuderli subito dopo; uno di quei giorni in cui sento la carne dolorante e il petto vuoto.

Uno di quei momenti in cui mi metto le catene e corro ad abbracciare i miei demoni per pochi secondi, perché lì, nei posti inesplorati della mia anima, c'è sempre qualcosa ad attendermi, a soffocarmi lentamente. 

Mi dicono: "Siamo qui per te, ma tu ci sei per noi?"
Non lo so. Io ci sono per loro oppure io sono come loro?

I demoni sono le parole che non ho mai detto, le persone che non sono mai riuscita a dimenticare, le situazioni che non sono mai riuscita a superare, i posti che avrei voluto visitare e che non ho mai visitato, gli abbracci che avrei voluto ricevere, ma non ho mai ricevuto, le lettere che ho scritto e che non ho mai inviato, le persone che ho lasciato andare e che non ho mai più ripreso. I miei demoni assumono la forma dell'amore che non sono mai riuscita a dare, che non provo, che vorrei provare, che non ho mai ricevuto.

E ogni sera costruisco il mio sentiero verso quel vuoto impercettibile che mi separa dal mondo. Lascio sogni sparsi per strada, sperando che qualcun altro riesca a viverli al posto mio.

«Sai, un giorno i sogni non saranno soltanto sogni, ma saranno piccoli frammenti di quella realtà che tanto hai bramato.»
Mi ripeto ogni giorno a mente lucida.

«Ma il mio sogno è sparire per sempre e la realtà che bramo è quella che non esiste più.»
Ricordo a malincuore a me stessa al crepuscolo.

All'imbrunire, tramonta un frammento della vita che ho e che vorrei donare al cielo.

Ed è uno di quei giorni in cui vorrei farlo, ma non ho la forza, non ho il coraggio.

Probabilmente stamperei le mie ultime parole su un enorme manifesto prima di andarmene:

"Mi chiamo Chandra Stewart, sono nessuno, esattamente come molti di voi, e probabilmente il mio nome lo dimenticherete tra cinque secondi. Ho cessato di vivere nell'esatto momento in cui avrei dovuto vivere di più. La mia vita era una grandissima merda, quindi un mio ultimo caloroso saluto: Vaffanculo".

Oh, so cosa starete pensando: l'ennesima adolescente problematica. Nulla d'interessante, nulla di speciale. Un'altra persona con una storia irrilevante, da scartare, da appallottolare come un giornale di vecchia data e da gettare nel cestino della spazzatura.

È più o meno quello che fanno già tutti. Nulla di nuovo nemmeno per me. Quindi fate pure, scartatemi e lanciatemi nel dimenticatoio. Magari farete canestro. 

Chi la vorrebbe sentire una storia come la mia?

Quando dico che la mia vita è una grandissima merda, lo intendo davvero.

Ogni giorno è uguale. Ogni pensiero negativo raddoppia. Sono una fabbrica di pensieri e un cimitero di sogni infranti.

Mi piacerebbe svegliarmi con il suono degli uccellini fuori dalla mia finestra anziché con Bubblegum Bitch a tutto volume. Almeno per una dannata volta.

È uno dei risvegli più brutti. Ma succede questo quando hai una sorella  più grande di te che ti odia e continua a ripeterti "Saresti dovuta morire tu", come se fosse ormai il nuovo modo per dare il buongiorno ad una persona.

Accade più o meno questo:

«Buongiorno, Ruth», grido affacciandomi nel corridoio.

«Evapora, faccia di merda», risponde, alzando il volume della musica.

Ecco, esattamente.

Probabilmente metterebbe questa canzone anche al mio funerale soltanto per tormentare la mia povera anima.
Mi trascino pigramente fino alla sua stanza e inizio a bussare piano. Ha il talento innato di fare finta di non sentire, anche quando siamo avvolte dal silenzio. Anche quando le grido contro e mi ignora. Non servono le parole, i suoi occhi mi uccidono ogni giorno.

«Apri, altrimenti spegni quella merda!», urlo, battendo furiosamente il palmo della mano contro la porta fino a sentirlo bruciare.

«Sparisci!», ribatte lanciando qualcosa contro lo stipite. Deduco sia una scarpa, perché a differenza mia lei non lancerebbe mai oggetti personali che potrebbero rompersi.

Durante il mio ultimo attacco d'ira, ho lanciato il Kindle contro il muro.
È servito a qualcosa? In quel momento sì, perché ho immaginato la sua faccia spiaccicata contro la parete e sono stata bene.
Me ne pento? Sì, ma so che lo rifarei.

Ritorno nella mia stanza e guardo l'ora sulla radiosveglia.

Odiare la scuola non è un clichè, è una realtà. E quando la tua famiglia ti sta costantemente con il fiato sul collo a volte quel posto diventa una salvezza e una tortura allo stesso tempo.

Questo è il penultimo mese di scuola dell'ultimo anno di liceo e probabilmente anche il mio ultimo mese di vita.

E no, non sono una malata terminale.

Finisco di prepararmi, infilo gli auricolari nelle orecchie e ascolto a tutto volume Crazy train. Ruth non lo sa, ma anche io ho quella canzone che fa aumentare i livelli di serotonina nel mio corpo e mi impedisce di lanciarmi davanti all'autobus alle prime ore del mattino.

Vedo la testa bionda di mia madre fare capolino nella mia stanza e tolgo una cuffietta.

«Buongiorno, tesoro. Hai dormito bene?», chiede con un sorriso dolce. 

Annuisco e indico con un cenno del capo la stanza di Ruth. Lei scuote la testa e sospira.

Pochi secondi dopo la sento gridare: «Ti ho detto di sparire!»

Afferro la cinghia dello zaino e la metto sulla spalla, poi infilo i piedi negli anfibi senza nemmeno allacciarli, ed esco fuori.

Mia sorella apre di colpo la porta, ma appena vede nostra madre, si calma e cerca di ricomporsi.
«Mamma, buongiorno», mormora, scoccandomi un'occhiata omicida.

Sollevo una mano per salutarla, ma l'odio impresso nel suo sguardo me la fa abbassare subito.

«Scendete a fare colazione. E per favore, evitate di ammazzarvi di prima mattina», pronuncia nostra madre, lanciando ad entrambe uno sguardo ammonitore.

Scendo velocemente le scale e lascio lo zaino sul divano, dopodiché vado in cucina e mi siedo a tavola.
Ruth prende posto davanti a me. Afferra il coltello con rabbia, come se avesse voglia di lanciarlo contro di me e cavarmi un occhio per divertimento.

«Chandra, hai deciso di andare a quella festa che hanno organizzato a scuola?», mia madre cerca di fare conversazione, come ogni mattina.

«Non ama le feste. Non lo sai?», risponde furiosamente Ruth.

«Perché non lasci che sia tua sorella a rispondere?», ribatte lei con calma.

Ruth intanto evita perfino di guardarmi.

E sì, so cosa starete pensando: la sfigata di turno che odia le feste e bla, bla, bla. In realtà non è così. A me le feste piacciono.

Anzi, fino a qualche mese fa le amavo.

«Forse sì», sussurro.

Ruth posa immediatamente lo sguardo su di me e stringe con forza il bicchiere tra le mani.

«Ah, davvero? Ti sei ripresa in fretta», una risata sadica abbandona la sua bocca e mando giù con fatica un sorso di spremuta.

«Ruth!», la rimprovera mamma, ma sembra che a lei non importi nulla. Sorride con gli occhi velati dalle lacrime e continua a mangiare.

«Sai cosa c'è, Chandra? Tu non prenderai mai il suo posto», sputa con veleno all'improvviso.

«Smettila», sibila mia madre.

«Il padre non l'hai perso soltanto tu, Ruth», la mia voce è così bassa che temo non mi abbia sentita.

«Lui era più di un padre per me! Era il mio migliore amico», grida e scoppia a piangere, scaraventando in seguito la sedia e uscendo di corsa dalla cucina.

Continuo a consumare la mia colazione, con mia madre che mi accarezza dolcemente il dorso della mano e io che sorrido come se non fosse successo nulla.

«Convincerò tua sorella ad andare da uno psicologo, tesoro. Non prenderla sul serio. È soltanto arrabbiata. Non è stata colpa tua», mi dà un bacio sulla testa, si alza e va a lavare i piatti, cercando di nascondere le lacrime.

Non è stata colpa tua.

Certo. Forse è per questo che mia sorella continua a ripetermi ogni singolo giorno quanto io sia patetica e inutile su questo pianeta?

«Lo so, mamma...»

Mando giù l'ultimo pezzo di pancake e poi vado a prendere lo zaino.

«Vado a scuola», le faccio sapere.

Mentre mi avvio verso la porta, sento qualcuno afferrarmi per il braccio.

«Pensavi che oggi non te l'avrei detto, eh? Ma saresti dovuta morire tu. Tu e soltanto tu», mi dà una spinta e urto la spalla contro il muro.

Nostra madre ci interrompe: «Tutto bene, ragazze?», il suo sguardo oscilla dubbioso tra noi due.

Ruth mette su un sorriso freddo. «Sì. Tutto bene. Non è così, Chandra?»

«Chandra?», mia madre attende la mia conferma.

Dopo una breve pausa, annuisco ed esco fuori.

Certe volte mi chiedo se mia sorella mi odi soltanto per la mancanza di papà o anche per colpa di mia madre.

Sua madre è morta quando lei aveva appena un anno. Mio padre si è risposato, e poi hanno avuto me.

I nostri genitori ci hanno donato la stessa quantità d'amore, ci hanno sempre trattate allo stesso modo. Eppure, in qualche modo, il rapporto tra papà e Ruth è sempre stato più intenso rispetto a quello che avevo io con lui.

Penso sia per una semplice questione di carattere. Papà mi diceva sempre "Hai preso tutto da tua madre". E Ruth sorrideva ogni volta, perché ne andava fiera. Per lei la frase suonava diversamente. "Hai visto? Tu non sei come noi, io e papà siamo uguali".

Mi fermo e do un'occhiata verso la sua finestra. 

Rimando indietro le lacrime, corro verso la fermata dell'autobus e penso soltanto al fatto che forse ha ragione lei...

Dopo tutti questi mesi non è riuscita a superarlo e io nemmeno.

Ma mentre il mio dolore non disturba nessuno, il suo fa un gran casino. È a tratti fastidioso e asfissiante.

Eppure, a volte, i dolori silenziosi sono quelli più rumorosi, quelli che più hanno bisogno di farsi sentire ed essere ascoltati.

Il dolore senza voce è quello che corrode di più l'anima e ci spinge lentamente verso il baratro. È quello che grida di più.
E il suo sta alimentando il mio. Forse è per questo che alcuni non fanno rumore quando se ne vanno.

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