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25. (Damiano)

Ho sentito dire, il più delle volte, che le canzoni sono di chi le ascolta.

Non importa quanto sia lunga la lista dei compositori, metrici, autori, parolieri, perché le canzoni sono doni anonimi quando le si ascolta con il cuore pesante come il mio, o con quello leggero del Grillo e di Andrè che si passano una canna di fronte a suamaestàilColosseo. Hanno tutto un altro sapore se fanno surf sopra le mie gengive, rispetto a quelle del prossimo che passa davanti a 'sta panchina.

Le canzoni sono poesie travestite a festa che si squagliano in endovena come la peggiore delle cocaine di laboratorio. Sono le cicatrici che copriamo con uno strato pesante di fard, il cerotto alla nicotina che nascondiamo sotto la giacca per celare la dipendenza che ci rende schiavi d'una delle più pure espressioni umane di fragilità. Le canzoni sono dei deboli, dei ciacci che sanno comunicare solo per metafore, dei ladri e dei vigliacchi figli dei re.

"Damiá! Me stanno a cresce li funghi addosso, te voi dá na mossa?" -urla Andrea, giocando con il laccio dei pantaloni- "Quanto te ce vole co sto tabacco? Ce devi condí 'a pizza?"

Mi disincanto e mentre Leo mi guarda strano, prendo un pizzico di foglie rinsecchite e rimbocco per bene la cartina. La rollo veloce, ne bagno il contorno e passo il pacchetto di Camel Giallo al suo proprietario.

"Che c'hai l'appiccio?"

Il Grillo fa razzia delle tasche e mi lancia l'accendino della Magica, che gli restituisco subito.

"Me devi da dí quarcosa, Lellí?"

Lui alza le spalle e si passa una mano tra i capelli ebano, incurante dello sguardo stranito che continua a indirizzarmi. Chiude la zip del suo Napapijri verde militare, poi allarga le gambe e accomoda le braccia lungo lo schienale della panchina, poggiando la sigaretta tra le labbra mosce.

Andrea lo imita, alzando il volume della canzone che si amplifica dalle casse del suo nuovo iPhone: il Grillo socchiude gli occhi e comincia a balbettare il testo, scaldando pure il Colosseo.

"Un giorno, il mondo l'han fatto tondo, affinché tutto torni, anche se tu non torni." -prende fiato, inspirando fumo- "Il sole non lo fissi mai. Icaro, don't call me bae."

Icaro?
Sta a parlá de me sto ggenovese?

Ascolto Leo mangiarsi le parole come il pesto, quello che fa sua madre, con chili di pinoli e parmigiano: non é intonato, ma a me non frega niente.

Mica deve da fá 'r cantante, Damià.

"Avvertimi se soffri di vertigini, o spediscimi i reclami. Sui miei ciclamini ci cammini." -cicala, contemplando le luci giallo canarino degli archi del Colosseo- "Cambia stivali e bada al barman se ti parla di miei errori passati."

Ve ricordate quanno v'avevo detto che le canzoni de chi l'ascorta?

Perché sono io a soffrire di vertigini, stavolta: c'é sempre stata Vic a consolarmi, quando mi sporgevo dal suo balcone che svetta su Monteverde. C'era Vic e c'era Bea, che si divertiva tanto a prendermi in giro.

Voi fá er novo Mick Jagger e c'hai paura de du metri d'altezza? mi canzonava.

Quando ero sul suo, di balcone, dopo che avevamo fatto l'amore, il più delle volte se la rideva sotto i baffi e fingeva di volermi spingere contro la ringhiera. Poi mi abbracciava da dietro, mentre io poggiavo i gomiti sulla lastra di ferro verniciato, e mi baciava la schiena dove si disuniscono le scapole, bisbigliando che le sue labbra avrebbero fatto nascere due ali su quelle stesse ossa cave.

"Se sai volare, non hai paura di cadere." diceva.

Ve ricordate anche quanno v'ho detto che le canzoni dei debboli?

Perché ogni volta che la portavo al locale di Pietro, quando quel barman senza peli sulla lingua -e forse anche sul culo- la corteggiava sotto i miei occhi, rammentandole tutte le mie bravate fatte in quel bar, era Bea a zittirlo per prima, chiedendogli sempre un bicchiere nuovo del migliore rum scozzese. Ero io il debole.

"É tornata." mormoro, ingoiandomi le sillabe insieme al vapore.

Leo scalcia via il filtro annerito e zittisce l'Iphone di Andrea con il battere convulsivo dell'indice sullo schermo.

"Nun t'ho capito, Ica."

"Perché hai spento Lellì?" si sovrappone Andy, che come al solito non ha capito un cazzo.

Il Grillo gli serra la bocca alzando un dito e mi invita a ripetere, stringendo le sopracciglia più curate delle mie.

"É tornata."

Dillo più forte, Damiá.
Forse se lo urli sta grande cazzata diventa na bella verità.

Leonardo si pulisce le dita sopra le ginocchia pelose che sbucano dai jeans strappati e fa uno sforzo per drizzarsi sulle gambe. Gira attorno ad un cerchio un po' sbilenco, come quello fatto di piscio che ho pitturato sui sampietrini dieci minuti fa, e si guarda l'orologio Wellington che gli ha regalato la sua ex.

Come cazzo fai a portallo, fraté?
Nun te pesa le mani?
Io, che gnia faccio nemmeno a tené in tasca 'r pacchetto da cui m'ha rubbato l'urtima ciospa.

"Che vor dí che é tornata?"

"Che prima non c'era e mmo ce sta." gli risponde Andrea, ridendo della sua stessa battuta.

Leo gli sputa sulle scarpe e dopo essersi asciugato il sudore in fronte, mi presta la sua attenzione.

le tre de notte, Damiá.
C'hai avuto pure 'n concerto.

Vanne a dormí, che c'hai tante de quelle cose da fá..

"É venuta ar locale stasera, appresso alla pischella dell'Indianino."

"E ve sete parlati?" s'interessa Andy.

"É venuta 'n camerino da me." -gioco con l'anello del pollice- "M'ha detto che vole torná insieme."

Il Grillo si pizzica il mento e si gira a guardare il Colosseo, con la posa da duce che imita sempre prima di tirare una punizione.

"E te?"

"E io nun gl'ho detto niente Lellí. Ci'o sai ch'effetto me fá."

Si gratta la testa, poi sputa a terra, schiacciando la saliva sotto la suola consumata.

"Non t'ho chiesto che gl'hai risposto. Voglio sapé se anche tu voi torná insieme a lei."

Sento che le labbra mi pizzicano, al pensiero di noi due insieme. Bruciano ancora dall'ultimo bacio, quello più sudicio e schifoso che ci siamo mai dati.

Hai capito, Damiá?
Te stá a chiede se voi tornacce insieme.
Che domanda der cazzo é?

Andrea si morde un'unghia fino a far sgorgare il sangue e mi rivengono in mente i graffi sulla schiena che mi lasciava per una settimana. Ne andavo fiero come di un paio di orecchini zingari.

"Non lo so, Lé. Non me so preparato, é venuta dar nulla."

"Non stamo a parlá de n'interrogazione, Damiá." -Andy si rolla un'altra sigaretta, prendendo un rutto di petto- "Non so 'n esperto e ci'o sapete, ma se la ami ancora, nun vedo perché te fai tutti sti probblemi."

Gli lancio uno sguardo coriaceo e lui ruota gli occhi arrossati dal fumo e dal vino al metanolo che gli hanno venduto a pochi spicci, con tanto di congratulazioni per il pessimo stato in cui ridurrà il suo fegato.

"La rivoi, Damiá?" -il Grillo mi si avvicina, scuro in volto- "Perché se davero ce stai ancora sotto, te posso consigliá fino a domani e la voce mia te passerebbe per quelle recchie dritte come se n'avessi mai parlato."

Mi slego i capelli e percorro la linea netta del tatuaggio con il polpastrello, terrorizzato dal suo sguardo giudice.

Non m'hai mai fatto paura come adesso, .

"Non c'ho piú voglia de passatte 'a robba pe fattela dimenticá, Ica. Se scegli de tornacce insieme, fallo perché lo voi veramente."

Lo maledico con il pensiero, tornando a quella sera disgraziata in cui avevo affogato le lacrime nell'erba di quattro o cinque canne: Leo mi aveva fatto riposare su di una panchina a Villa Ada -sulla nostra panchina- con la pancia piena dell'amatriciana di Giorgione, e mi aveva anche trascinato a casa spalla contro spalla, mettendomi per bene i piedi l'uno davanti all'altro.

"Stá a sentí a me, Ica." -Andrea mi manovra per le braccia come una marionetta, incollando i nostri sguardi con il vinavil- "Lellí se l'ha legata ar dito qu'a schimicata pazza, ma io so neutrale. 'E femmine.."

Fa una pausa -non so se per riformare il pensiero, o scegliere le giuste parole- che gli concedo più di quanto faccia di solito.

"E femmine só matte, Damiá. Fino a quarche annetto fa era tutte rose e fiori, mmo se lega ar primo uccello che je capita e nun se stacca più. Tu n'hai trovata una per bene, Damiá, e se ce tieni ancora un decimo de quello che ce tenevi prima, me piacerebbe esse il vostro angelo custode."

Lo ascolto e capisco che ho già preso una decisione da quando Bea è uscita dal camerino e Victoria mi ha tirato addosso il suo zoccolo leopardato: dovrebbe essermi già venuto il livido.

"Tu angelo custode?" -sorride il Grillo, frinendo come una cicala- "Ma se nun sai nemmeno badá a te stesso!"

[...]

Incespisco sull'erba nemmeno fossi una delle Lambrette scarburate del nonno, quella rossa ruggine con lo stemma del Cavallino incollato sopra - che le dá tanto a motoretta fallata - e che scoppietta un po' quando la rabbocchi fino all'orlo.

Mi sento le dita sudaticce della prima ragazza sotto il palco a cui ho concesso la mano, quelle ruvide dell'ultima incrociata di fretta mentre uscivo, perfino le falangi luride del barista che mi offriva da bere -gratis, come ha spesso rimarcato- nei camerini soffocanti.

Victoria non ha brindato con noi: Thomas ha avvicinato la bottiglia di birra doppio malto alla sua, ma lei mi ha guardato e l'ha riposta sul tavolo con il muso crucciato. Forse, a quell'ora, dovevo avere già avuto gli occhi rossi, o forse aveva notato qualcosa di strano in me. Per rispondere ai dubbi, mi ero scolato anche la sua bevuta, quella di Ethan e un amaro gentilmente offerto dal sorvegliante, che, a differenza delle altre tappe, non s'era dimostrato così indifferente e scazzato. Poi m'ero chiuso in bagno, che puzzava come una latrina indiana, e me ne ero rollata un'altra delle mie.

La Yamaha di Thomas e i tamburi di Einstein non avevano coperto lo stridere dei miei pensieri, che s'era fatto insopportabile mentre cantavo il nuovo inedito.

Ammettilo coglione, che l'hai cercata tr'a folla!
L'hai pure vista dentro l'occhi belli de Vic.
Ma nun te fai 'npo schifo?

Quindi, forse, Vic se n'era accorta e mi aveva tenuto il broncio. Però non s'era tirata indietro quando le avevo chiesto di struccarmi, come facevo ogni sera dopo il concerto: era diventato il nostro mantra, la nostra preghiera silenziosa, il mio ti prego, cerca di essere più simile a lei e fammela dimenticare e il suo ci provo, principì, ma non sarò mai quello che t'aspetti che sia.

Mi aveva passato il dischetto bagnaticcio sugli occhi, facendoli lacrimare un po', ma questa volta non aveva asciugato le guance. Le lacrime mi avevano impregnato la barba e Vic si era alzata silenziosa dalle mie ginocchia, chiudendosi in bagno con la scusa del ciclo. A Thomas era toccato bussare così tanto per farla uscire che la mano gli era diventata tutta rossa, come le labbra di Victoria mentre mi baciava sotto le gallerie qualche anno fa.

"Scusa, sai l'ora?" chiedo ad un gruppo di ragazzi che parlottano ad alta voce sopra una canzone di Izi.

Uno di loro se la ride con il compagno alla destra, chiedendosi come cazzo sia vestito e quante bevute io abbia mischiato nello stomaco, mentre l'unico che rimane in piedi si fa luce con lo schermo del telefono.

"Le due e venti, compá."

Se n'é andata, Damiá.
Se po' sapé che cazzo hai fatto tutto sto tempo?
'N panino co'a mortazza?

Corro in direzione nord, non prestando attenzione ai rami che sbucano dal terreno e rischiano di farmi capitolare a quattro di spade a terra. L'erba sa di fresco, con quel retro odore di fango che Bea amava tanto. Il nostro lampione si é fulminato e da lontano come sono, non riesco a vedere nessuno.

Stai a sperá che non t'ha dato buca, ammettilo.
Dio, quanto sei diventato patetico!

Sento il muco che mi cola dalle narici, il sudore che imbeve le cuciture sottoascellari e le ginocchia che fanno giacomo giacomo. Le nuvolette che fuoriescono dai miei organi mi appannano la vista come la nebbia sui tergicristalli e quando sono abbastanza vicino, trattengo il respiro per vederci meglio.

Nun dí 'e stronzate, Damiá!
É perché gnia fai a respirá dall'ansia!

Poi, finalmente, la vedo e la trachea si stappa, lo sguardo diventa lucido, quasi sobrio, i piedi mi si drizzano, le spalle perdono la loro incurvatura e la testa smette di girare, solo per ritornare a farlo più forte.

Beatrice ha la schiena rivolta verso di me, inarcata a nascondere il resto del corpicino esile, e le braccia che le circondano le gambe tirate al petto. Poggia il mento a punta sulle ginocchia piatte e la intravedo, nella mia testa, mentre le palpebre pesanti le cedono e cerca di vincere il sonno.

Mi spingo avanti a rilento, quasi volessi tastare la sua bellezza nell'aria che ci circonda. Poi scivolo sui ciuffi bagnati di pioggia e calcio un sasso che batte contro la panchina, ridestandola.

C'hai l'occhi tarmente lucidi che me ce specchio, Beatrí.
Che cazzo t'ha fatto sto mostro?
Da quant'é che aspetti che sta Bestia se trasformi in un principe?

Si asciuga il viso con la manica del maglione e fa cadere i piedi a terra, sfinita.

Io cerco l'accendino nella tasca interna del giubbetto, trovando solo un fiammifero smussato: lo gratto contro la corteccia di un albero e mi accendo l'ultima sigaretta della giornata.

Perché lei é qu'a sigaretta che nun se spegne mai, vero?
La migliore der pacchetto.

Lei ha gli occhi belli cerchiati di rosso, come un errore grossolano su una verifica importante, un'H davanti ad una preposizione semplice. Si stringe nel maglione petrolio di suo padre, quello che gli rubava sempre dalla cesta del bucato. Le Converse che tiene ai piedi sono sporche di fango, bagnate e vissute, un po'come la nostra relazione che s'é macchiata di bugie e cattiveria gratuita.

Il buio ci ingoia vorace, come due arbusti spogli in una serra di rose.

Semo la feccia d'a societá, Beatrí.
L'aureola ch'é cascata de capoccia a Baudelaire ed é finita n'a melma.

Beatrice struscia la mano sul posto vuoto a fianco a sé e tira su con il naso, ma io scuoto la testa e le faccio capire che non ho intenzione di sedermi.

Voi sapé che c'ho dentro, Beatrí?
Voi sapé se só ancora 'ncazzato, 'namorato, stufo de noi?
Voi davero sapé se t'ho perdonata?

"Só qui, ma n'significa ch'é tutto a posto." -le ricordo duro, evitando di guardare il suo volto immobile- "Voglio solo prová a esse felice."

Beatrice si scalda le cosce indolenzite passandoci sopra le mani, mentre gli zigomi pieni del viso le si rilassano. Scioglie i capelli ammassati in una coda di cavallo e accenna un sorriso smorzato su quelle labbra secche, da curare solo con la mia saliva.

"Sei venuto."

Só io, in carne ed ossa: più carne che ossa.

"Tu mi hai aspettato."

Un sorriso etereo squarcia la sua bocca nello stesso modo in cui lo smalto da unghie cade sopra la superficie dell'acqua, espandendosi a macchia d'olio.

Te magni le unghie, esci senza truccatte, te vesti coi panni de tu padre..
Ma che ce semo fatti, Beatrí?

"Ti dispiace se.." -si guarda i piedi sporchi, poi impunta le pupille sulle mie- "Se camminiamo un po'?"

Mi tende la mano e io la ricolloco lungo il suo fianco, come a dire so che ti sto dando delle speranze, ma cosí é troppo.

Si avvia con la testa bassa, mentre io spengo la sigaretta su una pozzanghera e la seguo a rilento. Dopo cento metri si volta di scatto, con il cuore che le batte sul collo, impaurita all'idea che possa averla abbandonata. Mi aspetta tremando, stretta in un maglione troppo largo e cosí poco accogliente: quando indossava i miei, di maglioni, aveva sempre un sorriso marchiato a vita sulle gengive e il profumo di sogni tatuato nel naso.

Camminiamo fianco a fianco, con le sue spalle curve che arrivano a malapena alle mie e tentano di sfiorarle. Roma é deserta, silenziosa, quasi volesse lasciarci la nostra intimitá: una cittá fantasma troppo grande per racchiudere tutte le nostre domande.

"É stato faticoso il concerto?"

La guardo con la coda dell'occhio, scoprendo che tiene lo sguardo fisso sull'asfalto polverosa.

'O so che me voi guardá nell'occhi, Beatrí, e che me voi urlá tante cose.
Ma io gnia faccio
.
"Non piú de altri." mento.

"E il tour?" -continua, puntando in direzione di Villa Borghese- "Il tour com'é?"

"Faticoso anche quello."

Beatrice allontana le labbra tra loro, probabilmente per esortarmi ad essere più loquace, poi capisce che non può permettersi errori del genere e le richiude subito.

Finiamo di fronte ai cancelli della Villa e lei sceglie di sedersi per tutti e due, accostando la schiena alle colonne bianco avorio. Mi accascio al suo fianco, allungando le gambe pesanti a terra e la testa sul pilastro alle mie spalle.
"Ho studiato un po', sai? Ho fatto parecchie ricerche di architettura europea del nord. Paesi Bassi, Danimarca, Islanda, Svezia.. Capito no?"

Si sporge a verificare che la stia ascoltando e quando mi vede annuire con l'aria stanca, schiaccia le mani a terra, in mezzo alle gambe aperte.

"In cittá in questi giorni ci sono state un sacco di mostre.." -si stoppa- "Non sono uscita molto spesso, ma la mamma ha insistito tanto perché andassi ad un'esposizione chiamata México - La Mostra Sospesa."

Tiro fuori una sigaretta dalla giacca, non riuscendo più a sopportare questa inerzia tediosa con cui sono costretto ad ascoltarla. É come se essere qui, con l'unico scopo di stare insieme, mi ricordi troppo i vecchi tempi: e fa male.

"C'era l'amore tuo? Come se chiama?
Oro.."

"Orozco, sí." -ride, arricciando il naso- "Ma mi ha colpito molto di piú Siqueiros."

Concateno i nostri sguardi e lei incrocia le gambe e le orienta verso di me, rivolgendomi la sua completa attenzione.

"Ah sì?"

"Mh-mh." -mormora bambina- "É stata una rivelazione."

Faccio scivolare la nuca contro il sostegno e la guardo dritto, forse per la prima volta: ha quel sorriso stanco ma vivace.

"E dici che Orozco, lá, nun se offende?"

Ride e io con lei: inevitabile come la forza di gravitá che ci impedisce di volare.

"Non penso di essere sulla sua lista di priorità." -ammette, tornando vergognosa, quasi cupa, a giocare con le mani tra le gambe- "Ho provato a imitare i suoi ritratti. Non sono venuti un granché."

Si sistema una ciocca sbarazzina dietro l'orecchio e scopro che ha le guance rosse dal freddo e dall'imbarazzo, le ciglia lunghe che coprono un velo di amarezza come tende che oscurano il sole.

"Beh, quello che c'ho sulla coscia t'é venuto abbastanza bene. Nun te abbatte subbito."

Soffio il fumo dall'altra parte e non appena ritorno al suo viso, lei mi fissa con assurda malinconia negli occhi.

Nun me guardá cosí, te prego.
Damme na cortellata e famola finita.
Cosí n'te reggo, Beatrí.

"Con te é diverso."

"Diverso come?"

"Diverso."

Mi cade la sigaretta di mano e finisce per bruciarmi la caviglia scoperta: Beatrice la raccoglie al volo e mi sfiora i peli della gamba, che si rizzano involontari come se mancasse loro un tocco gentile.

"Sai, certe volte.. certe volte, da piccola, mi chiedevo perché la mamma e il papà dicessero sempre di voler tornare indietro a quando erano giovani. Non capivo perché non mi volessero."

Si passa fra le dita un ciuffo d'erba incastrato sotto la suola delle Converse e mi solletica la caviglia.

"Poi papá mi ha rassicurato dicendomi che parlavano di altri errori passati e che io non rientravo tra questi." -poggia la guancia sul palmo disteso- "E ho capito che piú si cresce, piú gli errori si accumulano."

Sembra cercare di prendere un po' di tempo per trattenere quello che vorrebbe ma non può dire, poi peró aggiunge: "Vorrei tornare indietro per tapparmi la bocca e chiuderci in quel bagno a fare l'amore, mentre papá finisce la sua insalata."

"Bea.."

Questo vale piú de mille canne, Damiá.

"Non potró mai scusarmi abbastanza, non potró rimangiarmi le parole, ma spero che tu mi perdoni. Non adesso, non domani, ma spero che un giorno, tu lo faccia."

Un signore sulla quarantina, dalla chiara origine indiana, tutto agghindato a festa, esce dalla Villa portandosi dietro di sé un tanfo di cipolla e curry che fa spremere il naso a Beatrice. Si volta a guardarlo scivolare via come un'ombra e io infilo le unghie nei jeans per evitare di saltarle addosso.

Che te pija, Damiá?
C'hai le palle piene e te manca npo de sesso?
Oppure é che la ami ancora e non hai mai smesso de fallo?

Beatrice mi scopre mentre le fisso le cosce tornite e inclina la testa con la punta della lingua che le strabocca dalle labbra.

"Puoi darmi della pazza, Dem, ma sono sicura di quello che ti ho detto in camerino."

Scuoto la testa, incapace di parlare, debole, spossato, indeciso. Beatrice ne approfitta e mi carezza una guancia, addolcendo i baffi barbari che non avevano ancora conosciuto la bellezza di essere amati.

Affianco il palmo al suo, nel vano tentativo di porre un freno alla sua insistente ricerca di perdono, ma lei ci posa le labbra dolci sopra e io non riesco a muovere un muscolo.

"Non hai tolto il mio anello."

"M'é passato de testa." mento, sollevando le spalle.

"E io?" -domanda avvicinandosi- "Io ti sono passata di testa?"

Dischiudo le labbra giusto per prendere il poco fiato che mi tiene in vita prima che la sua bocca assaggi la mia, di nuovo, in un circolo vizioso in cui morte e vita coincidono.

Sento i muscoli sciogliersi e cedere lentamente contro la colonna.

Che debole che sei, Damiá!
Manco un minimo d'amor proprio c'hai..
I piedi in testa da tutti.

"Ti prego.." mi soffia con la voce di un tono più basso del solito.

"Ho paura de noi, Beatrí."

"Non ti sei mai fermato di fronte alla paura."

Mi si inginocchia a lato, sedendo sui talloni con la bocca tirata ad una linea e gli occhi colmi di speranza.

"Tu sei diversa."

"Diversa come?"

"Diversa."

Ed é proprio per questo, forse, che stringo le sue guance tra le mani fredde e consumate dai calli da scrittore, spingendo le sue labbra soffici sulle mie.

Te fai maltrattá cosí, quindi?
Che omo si diventato?

"Dimmi che non era un bacio d'addio." mugugna sulla mia carne febbricitante.

"Lo era."

Beatrice deglutisce con lo sguardo afflitto, quando passa di lí l'indiano di poco fa che nasconde un tappeto sotto il braccio, per sfruttare l'ora tarda per pregare. Gli faccio un fischio e quello si gira, indicandosi con il tipico cruccio di chi non vuole essere disturbato. Muovo la mano e gli faccio segno di avvicinarsi.

"Dimmi amico." brontola assonnato.

Tiro fuori il telefono dalla tasca e glielo porgo, mentre Beatrice si alza insieme a me.

"Ce potresti scattá na foto? Robba de due secondi."

Acconsente e indietreggia di qualche metro, cosí stringo Beatrice, che scruta le cose muta e impaurita. Al primo clic sorrido sornione, poi allungo gli occhi sulla creatura che trema come una foglia e ricongiungo le nostre labbra, che si sono mancate troppo.

"Continuo, amico?"

Ignoro la voce profonda, insieme all'accento straniero che trascina troppo le vocali, e faccio scendere la mano destra sulla fossetta che guarda dall'alto il suo fondoschiena.

"Non ti capisco davvero, Dem."

"Quello era 'r nostro ultimo bacio." -le dico- "E questa la prima foto de na nova vita insieme."

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