24.
"Siediti qui, io vado a prendere qualcosa da bere."
Le sue dita smaltate lasciano la mia mano e io la seguo allontanarsi tra la folla, come un serpente che striscia sotto l'erba bagnata. Faccio un salto sopra lo sgabello, troppo alto perfino per i miei tacchi, prendendo le misure del locale: la zona di ristorazione è lontana qualche decina di metri dal palco, proprio come aveva detto Elena, e la distanza basta ad affogare i miei neuroni in un brodo caldo.
Batto i polpastrelli sul tavolino di legno, dalla rotondità imperfetta, che mi fa credere che sia stato intagliato a mano. L'aria odora di malto e anidride carbonica, con quel sentore di canna scipita che mi ricorda subito lui.
Sta attenta, Beatrì.
Vedi de nun fatte sgamá stasera.
Non lascio andare il piedistallo dove alcuni tecnici stanno montando gli ultimi fili, nè il bancone a cui Elena si sporge, tentando di rendersi visibile a fianco di due omoni dalla barba curata e la smania del fitness. Fa ritorno con due bicchieri colmi fino all'orlo, che strabordano un po' appena toccano la superficie del tavolo, stampando un ellisse liquido che pulisco con il dorso della mano.
"Hai chiesto fra quanto si esibiscono?"
Ellie alza gli occhi cerchiati di blu sulla cannuccia nera, bella da far svenire in una tutina a pois che le raccoglie i fianchi.
"Sul volantino c'era scritto alle dieci." -si guarda l'orologio, piccolo e discreto come la padrona- "Questione di minuti e dovrebbero uscire."
La schiena mi si raddrizza a mo' di chiodo, pronta ad essere infilzata e avvitata al pavimento con la speranza di passare inosservata.
Che c'è, 'mmo ce ripensi?
Ripensa 'n po' ar completo nero, alla boccetta de profumo ch'ha lasciato a casa tua.
T'a sei spruzzata ogni notte prima d'anná a dormì.
Mmo c'hai ancora voglia de fa er Bianconiglio e scappá via?
Prendo un sorso che sa di Schweppes annacquata e mentre la bocca mi si piega innaturale, le luci calano, fino ad esplodere ed accecarmi le iridi foglia. I ragazzi di fronte a me alzano le birre in aria, come se fossimo davvero ad un concerto, inneggiando alla fica, al basso di Vic e alla vita.
Un po' di luppolo mi finisce sulla scarpa, nel bieco tentativo di due ventenni ubriachi di fare un brindisi: abbasso gli occhi sulla punta e quando li rialzo, loro sono lì. Lui è lì.
"Goditelo, Bea." mi bisbiglia Ellie sopra il trambusto.
Bevo uno, due, tre, quattro sorsi di Vodka Tonic, svuoto il bicchiere.
Perché allora c'hai la bocca secca?
Ho gli occhi persi nei suoi capelli arruffati, nella strana giacca di seta dorata, lasciata aperta come se si fosse svegliato da poco e non avesse avuto tempo di chiuderla. Nella canottiera bucata che nasconde un fisico asciutto, nelle borse coperte dal trucco sfumato, nella patina di sudore che gli si forma in fronte. Nel piercing che non ha mai tolto, nel tatuaggio sul polso, nei peli delle braccia che mi facevano sempre il solletico.
Urlaglielo adesso, Beatrì.
Abbi er coraggio de diglie che c'ha la panza, su.
Te nascondi, eh?
Te vergogni?
Pora stella!
Lui urla il suo solito hey y'all, this is Måneskin. Are you ready? con il popolo in festa ed Ethan attacca il primo colpo di tamburo. Elena gli sorride, con la testa abbandonata sul palmo e la bocca su una cannuccia vuota: le prendo la mano e la intreccio alla mia, alla disperata ricerca di un'anima affine che si accorga che sia lì.
Te senti ignorata, Beatrì?
Tu che c'avevi tutta l'attenzione sua e l'hai buttata via così.
Te senti trascurata, per caso?
Pora stella!
Com'è che nun me fai pena?
Elena sorride e mi bacia il dorso, timbrandoci sopra il contorno delle sue labbra dipinte di rosso uva.
"Quanto so belli, Bea.." mi fa, stranamente malinconica.
Guardo Ethan, le sue treccine minuziose, la cicatrice in fronte che si nasconde con la distanza, poi guardo Damiano.
L'hai detto, Beatrì.
È la potenza d'a Vodka?
Le vene sul collo che sembrano volersi staccare e venire da me, le unghie pitturate di nero, la cinta che gli stringe i fianchi, gli stivali borchiati.
"E sono nostri, ci pensi?"
Mi giro verso di lei, accorgendomi che non l'ha fatto a posta e che nemmeno ci pensa, a quello che ha detto: è lì solo per il suo lupo stasera.
"Sono nostri."
[...]
"Grazie Roma!!" urla Damiano al microfono, prendendo Vic per mano e alzando le braccia insieme agli altri due.
Thomas ci fa una linguaccia, sollevando pollice, indice e mignolo insieme, mentre Ethan si esibisce in un mezzo inchino, assottigliando gli occhi indiani sulla ghiaia confusa di teste e mani che s'intrecciano. Elena si alza in piedi bilanciandosi sulle gambe sottili e svetta sopra il suo sgabello guidata dalle mie spalle che le fungono da appoggio. Gli sventola la mano, gli manda un bacio e un cuore disegnato con le dita: Ethan sorride timido, come se si vergognasse, poi cala gli occhi matematici su di me.
T'ha fatto tana, Beatrì.
Guarda che fa adesso.. 'O vedi?
Sta a fá 'a spia!
Pora stella!
T'ha beccato, cogliona!
Damiano lo ascolta abbassando la testa: annuisce calmo, poi s'irrigidisce di colpo. Copre il microfono con la mano, temendo di farsi scappare una parola di troppo, e fa un passo avanti con il naso da cane poliziotto sulla folla. Tutte le ragazzine tendono le mani verso di lui, alcune riescono anche a sfiorargli le cosce.
Che dovete da fá, mh?
Elena mi picchia un dito sulla spalla e io seguo la direzione indicata dal suo indice nano: mi ha vista.
"In realtá, vorremmo cantarvi un'ultima canzone. Che ne dite?"
Le ragazze strillano come gessi sulla lavagna e Damiano sussurra qualcosa all'orecchio di Vic, poi a quello di Thomas, che annuiscono seri. Ethan prende posizione dietro la batteria, portando tutte le treccine dietro le spalle.
"Questo brano.." -soffia sul microfono, come se gli pesasse dover parlare per forza- "Ho scritto sto pezzo 'n quindici minuti. Secondo più, secondo meno. Era domenica scorsa e 'mò c'ho voglia de favvelo sentì. Se chiama Una sigaretta."
Raccoglie i capelli con la mano, li sposta dal volto e guarda un attimo in su, quasi per chiedere perdono ad un Dio che non conosce ma che teme. Stringe il microfono tra le mani giunte in preghiera e cammina avanti finché i piedi stanno per metá sospesi nel vuoto, in bilico sul limite del palco. Tira su la testa, impunta gli occhi nei miei al primo colpo e la musica parte.
Nun te fa inganná, Beatrì.
Non 'o vedi che c'ha le sopracciglia strette?
Vor dì che te odia.
Elena mi stringe le spalle e io mi abbandono contro di lei, che mi circonda come edera.
E mi è rimasta solo in mano mezza sigaretta
Il buio mangia tutto il cielo della mia città
Io ti rivedo sopra un'onda che poi si rovescia
C'ho una frase in testa che urla ma non se ne va
"Te l'aveva mai fatta sentire?" chiede Elena, mentre gli altri tacciono religiosi.
"No."
"Credo stia parlando di voi."
E questo foglio brucia troppo sotto le lenzuola
Resta un po' del tuo profumo a farmi compagnia
Alle mie labbra manca giusto il tuo rossetto viola
Ho strappato via dai muri le fotografie
"Non hai mai avuto un rossetto viola." contesta lei, attaccandosi alla bottiglia di birra.
"Diceva sempre che odiava i rossetti viola.." -le dico, annebbiata da un rullino di ricordi che si riavvolge stanco- "Ma che li avrebbe assaggiati volentieri sulla mia bocca."
E ora portami su
Dove il mare profuma di blu dipinto di blu
Dove l'aria non tocca nient'altro che noi
Che ci scaldiamo e ci insultiamo finché poi
Fumo la mia sigaretta e te ne vai
Le lacrime spingono sugli occhi, che concedono loro di sfasciare il trucco. Lascio che scendano lungo l'intera guancia, fin sotto il mento, dove sfidano per poco la forza di gravità, e permetto loro di toccarmi perché mi ricordano troppo le sue dita leggere che non vogliono svegliarmi mentre dormo.
E se ne è andata anche quella mezza sigaretta
Il cielo mangia tutto il buio della mia città
Io ti rivedo sopra un'onda che poi si rovescia
C'ho 'l tuo nome 'n testa ch'urla ma non se ne va
Thomas suona il suo ultimo accordo e i neon di bassa categoria - di quelli che si trovano nei locali di strip - si fulminano, dando al buio il compito ingrato di trattenere i loro sorrisi sospesi. Quando il bagliore torna, c'è solo il fumo. Sul palco, poggiata a terra, una sigaretta: è la sua Lucky Strike.
"Va' da lui, Bea." -mi implora Elena- "O adesso, o mai più."
"Lo sai che non posso."
Gonfia le gote soffiandomi birra gassosa sul naso e butta i capelli all'indietro, con gli occhi duri come una mina 3H.
"So che lo rivuoi, quindi.." -mi stringe le dita attorno alla sua bottiglia- "Prendi questa, fatti un sorso e vai."
"Smettila, Ellie. Ho detto di no."
Le restituisco il regalo, quando la vedo acciuffare il telefono e immergersi nella scrittura, ignorandomi.
"Cosa stai facendo?"
"Sto scrivendo ad Ethan di mandare qua l'altro idiota. Se non sei tu ad andare da lui, farò in modo che sia lui a venire da te."
Agguanto la birra sopra il tavolo e alzo le mani in segno di resa, mentre lo stomaco si strizza come un calzino bagnato.
Percorro il corridoio ricoperto da scie di piscio e bicchieri di plastica che affianca i bagni e mi stringo nel vestito rosso. Adocchio da subito il ragazzo in maglia bianca messo a sorvegliare la porta che conduce al retro. Sbadiglia con la bocca chiusa, stirando gli occhi innaturalmente, come uno schiavo costretto a fare un lavoro sottopagato a cui, poi, non é che dia molta importanza. Aspetto che faccia qualche passo per frenare sul nascere una stupida rissa tra quindicenni ubriachi e mi infilo dentro: il corridoio é stretto, soffocante come una corda legata per bene sotto la gabbia toracica a spezzare il respiro.
Le luci alogene sono basse, con quella sfumatura blu di neon che dá al tutto un tocco squallido da motel sulla statale. In fondo, a dieci passi da me, una porta macchiata con scritto Toile, a cui qualcuno ha reciso una T, lasciando solo l'alone sbiadito della colla per infissi. Sulla sua destra, un uscio socchiuso, da cui esce la risata cristallina di Victoria.
Mi scolo la birra d'un fiato, macchiandomi il collo con due gocce di schiuma, e m'accascio a terra per posare la bottiglia vuota: mi rialzo e Thomas ed Ethan mi fissano increduli, chiudendo la porta dietro di loro.
"Ciao ragazzi."
Ma che cazzo te sorridi, Beatrí?
N'o vedi che stai mbriaca lercia?
Thomas guarda Ethan, che mi analizza come una variabile fisica dipendente.
Da che si dipendente, Beatrí?
Da'e figure de mmerda?
"Stavi cercando di entrare?" si chiede l'Indianino, issando il pollice sulla porta alle sue spalle.
"No, Pocahó, voleva andá ar cesso piú cesso der locale." -commenta Thomas ironico- "Giusto pe' non fasse mancá 'a sifilide."
"La sifilide non si prende-"
"Shh." -contesta il più piccolo, zittendolo- "Vié qua tu, me sei mancata."
Fa un passo avanti e allarga le lunghe braccia da cucciolo di orango, ordinandomi in silenzio di entrarci dentro e restarci per un po'.
Nun me ricordavo che c'avevi st'odore bono, Thommá.
O forse me sei solo mancato?
Tu e tutti quell'altri.
Mi batte la mano sulla schiena, strofinandola quel che basta per infondermi il giusto coraggio, poi lascia ad Ethan il suo turno: lui mi sorride e si avvicina pavido per baciarmi la fronte, ricordandomi il tempo in cui papá non aveva trovato un motivo per odiarmi.
"É lí dentro, si sta togliendo il trucco."
La frase mi balena nella mente quando Thomas chiede al sorvegliante di poter uscire, quando la porta diventa ermetica, anche quando la luce frigge e mi fa sobbalzare dallo spavento.
Movete Lumaca!
Che devi da fà?
"Avanti!"
Quand'é ch'hai bussato?
Entro con la testa bassa, insicura, colma d'un pudore e un disagio riprovevole. Guardo le calze scure, per non guardare lui, ma lo sento lo stesso: é lí e mi sta maledendo nel modo più amorevole possibile. Ascolto la sedia strisciare con un fischio sul pavimento, accompagnata dallo schiarirsi d'una voce e un tonfo grave, quello di una mano che batte sul tavolo.
"E tu che cazzo ce fai qui adesso?"
Dovrebbe esser stato lui a dirlo: invece le parole hanno la voce di Victoria.
É seduta sopra di lui, a cavalcioni, ancora agghindata e cosí intimamente vicina da darmi il voltastomaco. Tiene in mano un dischetto struccante e ha il seno schiacciato sui suoi pettorali. Damiano s'é tolto la giacca, legato i capelli e slacciato la cinta, come dopo uno squallido amplesso: ha un occhio nero e uno pulito, acqua e sapone, che mi fa tornare alla mente le nostre mattine domenicali, o il suo gatto bianco tutto grasso e pelo.
"Che stai a fa ancora qui? Me sembra chiaro che nun sei ben accetta."
"Vic.."
Dio, da quant'é che non sentivo la sua voce al naturale? Nemmeno la ricordavo cosí dolce. Filtrata dal microfono e dai video di bassa qualità, mi faceva sentire meno la sua mancanza. Ma adesso.. Adesso la sua mancanza é tutto quello che ho in tasca, insieme alle gomme da masticare e un cartoncino smussato con il suo profumo sopra.
Victoria si raddrizza come un sedano, ravviva i capelli e lancia il dischetto sopra il tavolo, di fronte al grande specchio a parete che sovrasta il mobilio.
"Damiá, pe' piacere, nun fa er coniglio." -gli dice, non degnandomi nemmeno della sua schiena- "Non ce potrebbe nemmeno sta qua."
"Vado via subito, se volete."
Ignoro Victoria, che mi lancia un'occhiataccia carica d'odio, carica anche d'un antico amore che ha solo bisogno di una spolverata, e infilzo gli occhi nei suoi, che mi sputano in guancia un astio incontenibile.
"Bene, vattene allora." serpeggia Vic.
"Victoria.."
"Damiá, finiscitela de fa er broccolo rammollito e-"
"Victoria!"
Scatta in piedi rovesciando la sedia e libera una rabbia repressa che non avevo mai conosciuto: Victoria salta sul posto e infossa la testa tra le spalle.
"Aspettame de lá." le dice poi, come se si fosse pentito per il tono duro.
Le indica una porticina scorrevole sulla sinistra e lei risponde all'ordine scomparendo senza proferir parola.
"Vedo che ti sei dato da fare." -sorrido
amaramente- "Hai già trovato con chi sostituirmi."
Damiano si stacca la canotta aderente e sudaticcia dalla pelle, fulminandomi con il suo odore forte.
"Non me sembra 'r caso." -si tira indietro i capelli, mostrando i peli delle ascelle- "Dí quello che me devi dì e va' via."
Mi avvicino, non so nemmeno con quale coraggio: Damiano si scosta, quasi non volesse farsi sfiorare dal mio profumo, che gli ricorderebbe troppo i vecchi tempi.
"Perché sei qui?" mi domanda, non riuscendo a mangiare l'ansia che lo divora.
Tu ansioso, io calma.
Ma che gioco matto stamo a giocá, Damiá?
"Non lo so." e non lo sapevo davvero.
"Allora vattene."
Chiude la sopracciglia alate, troppo curate per far parte dei miei ricordi.
"Non posso."
"Perché?"
"Mi manchi."
Comprime la mascella sulla mandibola e la mandibola sulla mascella, disegnando un muscolo duro sulla guancia. Fissa le mani sui fianchi, rilassando la pancia piatta ingrossata dalla birra, ed io tento un ulteriore scacco in avanti che lo costringe a scansarsi e a farmi aggrappare alla sedia. Mi guardo allo specchio: cosí sincera, patetica, non lo sono mai stata.
"Anche tu mi manchi."
Lo osservo sullo specchio, mentre si sfila la cinta e caccia le mani in tasca.
"Ma nun posso." -si lega i capelli e s'accende una sigaretta che nascondeva dietro l'orecchio- "Nun posso abbandoná tutto questo ora che ce l'ho tra 'e mani."
Il fumo mi frigge le narici, dopo mesi trascorsi ad annusare il tabacco umido delle Lucky Strike che si bagnano sulla quercia.
"Non voglio cambiá pe' nessuno. Voglio esse questo, girà pe' Roma finch'a testa gira co me sopra 'r palco." -ingoio il suo fumo, per avere un po' di lui dentro di me- "Se c'é na cosa c'ho capito in sti mesi, é che né tu, né tu padre potrete plasmamme. Non abbandono la musica pe' nessuno, Beatrì."
Lo specchio riflette il suo corpo sinuoso muoversi meccanico incontro al mio, finché percepisco il suo fiato pesante sul collo e le sue mani sopra le dita: il contatto improvviso mi riporta agli incubi in cui sognavo di averlo ancora per me.
"Posso?"
Mi disincanta con uno schiocco di lingua, sedendosi sulla sedia per sfilarsi gli scarponi. Si sveste anche della collana, quella di argento con la grande croce latina a mo' di ciondolo, che accartoccia informe sopra il tavolo: io la raccolgo e me la passo tra le mani, mentre lui allunga i piedi indolenziti sul pavimento riscaldato.
"Non ho mai voluto che tu abbandonassi la musica."
"E allora perché sei qui?"
Ancora?
Perché te amo, Damiá!
Nun ho mai smesso!
Quanto sarà difficile da capí?!
Ma non glielo dico e forse lui non lo capisce.
"Non lo so davvero. Avevo solo voglia di vederti: forse sono stata stupida e non dovevo."
Gioca con la zip dei pantaloni neri, facendo ricadere i capelli un po' unti di sudore e fumo di scena sulle clavicole.
"Me fa piacere che tu sia qui."
Si passa le unghie sui baffi, più lunghi di come li aveva mai tenuti, e incalza la sigaretta consumata sul posacenere, spremendola come un poro della pelle.
"Bello il tatuaggio."
"Grazie."
Si fa scappare un sorriso che tenta di celare tenendo gli occhi sul filtro che si comprime.
"Anche la canzone."
Io rilasso le spalle, calma come sotto dose, mentre lui, invece, le raddrizza un poco, nella mossa abituale di chi vuole nascondere il disagio e il dolore sotto una tranquillità stucchevole.
"L'ho scritta pe' te." -mi colpisce diretto, guardandosi dentro i miei occhi per capire se è ancora lí dentro- "Pe' noi, gli ex noi."
"Damiano.."
Gira la sedia in modo che siamo l'una di fronte all'altro e batte le mani sulle cosce sode, sfinatasi insieme a tutto il resto.
"Dovevi saperlo. É anche tua."
Scuoto la testa in disaccordo, mandando avanti i capelli per coprire il rossore del viso: quella canzone non era mia, non la volevo. Faceva troppo, troppo male.
"Finirai per essere chi vuoi essere, Dem."
E dal suo nomignolo uscito spontaneo, dai suoi occhi dolcemente malinconici, dal silenzio di una Victoria tanto vicina quanto distante, capisco che niente é cambiato: ci siamo solo trasformati in due frutti dalla buccia un po' più dura e impenetrabile ai pesticidi. Gli é rimasta la bontá d'animo e s'é fatto solo un tantino più bello: ribelle quanto basta, furbo e smaliziato come lo era suo padre da giovane e come lo é stato suo nonno fin dalla nascita
.
"Speravo che c'arrivassimo insieme."
Non hai nemmeno imparato a giracce intorno, eh?
Schietto come n'asso calato a briscola.
Tiro su con il naso, fingendo un raffreddore che in realtá é solo amarezza di vivere, attrazione verso la morte e il decadimento che Beaudelaire ha esorcizzato nel seno avvizzito delle monache.
"Possiamo ancora farlo." -mi esce di bocca come un lamento funerario- "Potremmo rimanere amici, Dem."
Lui scoppia a ridere, aggiustandosi il piercing al naso che si é spostato di qualche millimetro, e fa pattinare i calzini sopra il pavimento per scaldare i piedi.
"Non esse stupida, Beatrí. Non lo si mai stata, non incominciá proprio adesso." -si stira la schiena, che scricchiola come semi di mais- "Io e te nun semo mai stati amici."
Mi faccio più vicina, pericolosa come una lince che scende dall'albero, e Damiano, da cucciolo di cerbiatto, deglutisce e inarca lo schienale della sedia, quasi a rimarcare la volontà di non farsi toccare dalle mie mani macchiate di sangue, del suo sangue.
"E cosa eravamo, allora?"
Gli sfioro le ciglia con il pollice, aprendo il palmo sulla sua guancia ispida, mentre la sua testa si bea di una carezza che non riceveva da tanto.
Da quant'è che n'o toccavi, Beatrí?
Nun é nemmeno paragonabbile ar sogno più bello ch'hai fatto.
"M'ero 'nnamorato de te, Bea." -confessa da penitente, inebriato dal mio calore- "C'hai la minima idea de che vor dí pe me amore?"
Lo ignoro, costringendo la mano che tremola ad attraversargli i capelli a dita aperte: l'ha sempre mandato in bambola.
"Non mi ami più?"
Non mi risponde, chiude semplicemente gli occhi stanchi: quello destro, circondato da un alone nero sbiadito, é presagio di morte; quello sinistro, come l'angelo che ci sorveglia sulla spalla, mi prega d'essere baciato l'ultima volta. Io, invece, ci passo sopra un dito gentile per salutarlo e augurargli in bocca al lupo: come quando si lascia una cosa bella, dopo che ci si é abituati a contemplarla fino al consumo.
"Non credo a niente di ció che ti ho detto." -devo almeno dirgli, con il tono rinunciatario di chi ha giá perso- "Sono sempre e solo stata io a decidere per me. Tu non mi hai mai costretta a fare qualcosa controvoglia."
Gli infilo la collana, mentre lui abbassa di poco la testa per agevolarmi: come l'incoronazione di un re, fatta da una schiava innamorata che non ha alcuna speranza d'essere felice, se non nel contemplare il suo amore trionfare.
"Perché m'o dici adesso?"
"Dovevi saperlo."
Damiano poggia gli avambracci sui braccioli esili e incrocia gli stinchi, raccogliendo le gambe in una X asimmetrica.
"Credo che questo sia 'n addio."
Perché te pesa tanto er core, Beatrí?
C'hai st'occhietti dorgi e voti che nun sembrano pe niente infelici.
E tu, Damiá? Tu che c'hai st'occhi da faraone.
Quanto te pesa 'r core?
Visto cosí, nun pare nemmeno che te batte.
Ci guardo allo specchio: é cosí che finisce, con io che lo saluto dall'alto e lui che non muove un muscolo per fermarmi. Con l'ultima immagine di noi in cui è rivolto di spalle, tanto che non posso nemmeno ricordare com'é vivo e giovane il suo viso pieno di contraddizioni. Una bocca grande e carnosa che non si apre affatto; un naso imponente che non annusa la puzza della sconfitta; due occhi belli come il terriccio da cui non nasce niente di buono.
Po' finí cosí, Beatrí?
Voi vive ancora de rimpianti?
Azzardo uno scatto verso di lui, in questa danza di attacchi e arretramenti di fronte che mi ricordano un po' i racconti del nonno riguardo la seconda guerra mondiale. Appoggio per bene le labbra sulle sue, ma in maniera docile, come un cane randagio che ha riscoperto l'odore dell'aria fresca e delle mani che, invece di battere, riescono anche ad accarezzare.
Damiano non si muove: é cosí immobile che mi ricorda noi due nel giardino di Elena, incastrati come due tessere di un mosaico bizantino che non sanno di far parte di qualcosa di grande, di artistico.
E noi semo er progetto de quarcuno?
Quale pazzo vorrebbe disegná a noi, Damiá?
Lui sa ancora di alcol e tabacco, di morbidezza ghiacciata, nebbia e smog di periferia, come ho sempre immaginato che sapesse: é bello ritrovare le vecchie abitudini, specie sulla sua bocca.
"Non significa niente." ci tiene a precisare, piú al diavolo che agita il forcone dentro la sua testa che a me.
Provace Beatrí!
Nun c'hai più niente da perde..
T'o voi riprende? T'o voi riportá a casa?
Buttate e fregatene de quanto é arto sto scoglio.
Magari cadi de panza e te fai 'n male bestia, ma magari entri dentro come 'n pesce e l'acqua te rinfresca le idee.
Provace!
"Sai anche tu che non é vero, Dem." -prendo il respiro, immaginando di risalire dal fondo- "Ti amo. E tu ami me."
Mi siedo sopra di lui, come aveva fatto Victoria, ma senza ostentare il contatto: che la corda, quando é troppo tirata, si sfilaccia. Gli carezzo la guancia, giocando con la barba ribelle che ha sempre amato farsi toccare: é uno dei punti debboli miei, mi diceva sempre.
"Non essene cosí sicura."
Perché c'hai la faccia cosí scura, Dem?
'O so che te manco, e che dentro stai a morí.
Non pretende de esse chi nun sei.
Ce se fa male: t'o posso garantí.
"Lo sono, Rockstar." -gli soffio sulle labbra, pietrificandolo- "Riproviamoci, ti prego."
Lascio che la mia bocca non tocchi la sua di proposito, costringendolo a prendere una decisione. Passano i secondi, interminabili, lenti, macchinoso. Poi Damiano libera il collo dall'irrigidimento, come una tartaruga impavida che vuole scoprire il mondo, e mi guarda come ai vecchi tempi, con quegli occhi strani ma pieni d'un amore che mi fa vergognare di aver avuto il diritto di stringere il suo cuore, per un po'.
"Non semo buoni." -dice, ma al contempo fa scivolare le mani roventi sui miei fianchi ballerini- "Io non sò bono pell'amore."
"Sei buono per me."
Allarga le pupille, quasi avesse assaggiato uno di quei tramezzini al tonno che gli fa sua madre, e tramite esse emana un tanfo d'insicurezza che mi schiaffeggia il neo vicino alla bocca: un altro dei suoi punti deboli, mi diceva sempre.
"Non voglio soffrì ancora, Bea. É meglio.." -si morde il labbro, forzandomi a trattenermi- "Devo stá alla larga dall'amore."
Gli massaggio lo scalpo teso e lui rilassa la fronte crucciata come fa spesso anche il suo gatto, dopo un lungo pranzo che gli impegna lo stomaco.
"Magari soffriremo, ma solo per un po'. Saremo felici, Dem. Te lo prometto."
Mi sporgo in avanti, con la chiara intenzione di avere ancora un briciolo del suo sapore su di me: lui, peró, gira il mento a destra e chiude gli occhi, quasi abbia paura che lo schiaffeggi per l'affronto.
É cosí che te sei sentito, Damiá?
Fa cosí tanto silenzio un cuore che se spezza?
"Sei la cosa più semplice ed inaspettata che ho odiato, Dem. Ma ho imparato ad amarti e ora non riesco più a dimenticare come si fa."
Le sue ciglia lunghe si impregnano d'una lacrima stronza come me, ma bella e pura come la sua anima ferita: quella di sinistra scende giú liscia, coraggiosa e veloce; quella di destra, macchiata di nero, cala appesantita dall'odore della putrefazione. Siamo io e lui: lui la Vita, io la Morte. Ma entrambi siamo parte di te, Dem. E io non posso ancora lasciar andare la mia parte della corda: finché gira, ci si può saltare dentro.
"Ti aspetto domani, dopo il concerto, alla nostra panchina." -bisbiglio, guardando le lacrime scorrere via e annacquargli la vista- "Se non verrai, sapró che é tutto finito."
Gli bacio la fronte, raccolgo la lacrima più sporca delle due e me la passo sulle labbra: Damiano mi osserva con la bocca dischiusa, colpito, o forse semplicemente assorto nei suoi pensieri paranoici.
Sistemo la collana che gli pende dal collo, troppo dritta e simmetrica per vestire uno come lui; poi, con lo sforzo di una madre che lascia il proprio figlio nel primo giorno di scuola, mi tiro su.
Damiano ha lo sguardo assorto in ogni mio minimo movimento e io sento la vergogna che bussa timida alle porte della psiche: cosí, in fretta, gli rubo l'ultima sigaretta, mostrandogliela tre due dita.
"Questa é la nostra canzone."
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro