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22. (Damiano)

Scavalco l'ultimo gradino di marmo, aggiustando la falda del cappello che mi copre tre quarti della vista, e ripenso a quel buffone del meteorologo, che con la sua s sibilante e la cravatta larga sul collo aveva detto che sarebbe arrivato il gelo dalla Siberia.

A deficiente, sto a piá foco! Li mortacci tua e de chi nun t'o dice..

Slaccio il cappotto e do un'occhiata all'orologio che Vic mi ha consigliato di mettere per coprire il tatuaggio, quello con il cinturino di pelle che mi ha regalato il nonno, finendo per farmi ipnotizzare dalla mezza sigaretta che fuma tra l'indice e il medio. Penso che, forse, è meglio finirla prima di entrare.

Mi siedo con fare stanco, mentre l'aria frizzante mi solletica le caviglie scoperte e il sonno intorpidisce qualsiasi ansia da prestazione possa rapirm: ci sono io, il mozzicone che mi parla e il vento caldo di Marzo.

Butto via quello che rimane di un filtro annerito e slaccio anche il bottone che teneva chiusa la giacca.

Come me so conciato pe' te, Precisì..
È un mese che nun te vedo e vorrei solo mischiá 'a saliva a'a tua, picchiá i porpastrelli su'e cosce tue, fa scivolá le ciocche papavero tra'e dita..
"Ehi."
Alzo lo sguardo e mi sorride, bella come non lo è stata mai. Ha sistemato i capelli come piacciono a me, con due mazzi di ricci che pendono a fianco delle guance e la chioma fuoco legata all'insù, e ha truccato un poco il viso. La matita nera sugli occhi fa risaltare il verde prato delle iridi, che brilla pieno di rugiada, e il rossetto scarlatto mi fa gonfiare i pantaloni del completo.

"T'ho lasciata meno bella de così." le dico, abbassando la voce.

"E io con un vestito meno elegante." -mi toglie il cappello di dosso, appendendolo all'attaccapanni dietro di lei- "Sembri uno stalliere vestito da duca."

Faccio un passo avanti, rilassando la testa che gira sullo stipite laterale: meno di tre ore fa ero su un aereo diretto Roma Fiumicino, con la barba sfatta e i capelli sporchi di chi ha tolto un sogno dal cassetto e ci ha infilato un po' di ricordi e banconote che profumano d'arte.

"E tu sembri 'na rosa, Precisì. M'è mancato sto profumo dorce.."

Le carezzo la guancia e lei si accomoda sulla mano urlandomi in silenzio di spogliarla.

Mi macchio del suo rossetto, regalandole un bacio gentile che sa di noi: del mese passato, delle notti spese a pensarsi, delle lenzuola vuote che bruciano sopra la carne e delle seghe in bagno, delle urla delle ragazzine danesi sotto il palco, o delle videochiamate troppo corte. Della grana guadagnata, del profumo di gloria che sembra essersi polverizzato sopra Roma, del merda merda merda di Vic prima di ogni concerto, e un po' anche degli occhi della mamma e del sorriso del papá, dello sparlare dei prof e del ghigno soddisfatto del Grillo.

"E io? Te so mancato un po' o hai trovato 'n artro galletto che arza la cresta pe fasse bello all'occhi tua?"

Le pulisco il rossetto sbavato -labbra mie, colpevoli ladre!- muovendo il pollice che trema un po', quasi non creda di toccarla dopo tante aspettative.

"Mi stai dando della gallina?"

Sorrido sulle sue guance e spingo la porta fino a richiuderla, costringendo Beatrice ad arretrare contro il muro.

"Quanto só lontani i tuoi da qui?"

"Mamma é in cucina." -allunga il collo verso l'altra stanza- "Papá sta finendo di vestirsi."

Così la bacio, questa volta senza misure, togliendole qualsiasi dubbio le possa essere rimasto con un morso deciso al labbro superiore.

"Me farò perdoná st'assenza."

Beatrice resiste un po', poi affoga la mano tra i miei capelli e passa l'altra sulle guance lisce.

"Dem.. Dem."

Mi spinge piano con un palmo sul petto, intenta ad allontanarmi, e gira la testa per scostare le labbra dalle mie.

"Dem." -tende il braccio e mi mantiene distante- "Fermati."

Fermamme?
Non te sò mancato?

Gli occhi svelano l'incertezza che nascondo dietro al naso da Cirano e Beatrice mi prende la mano nella sua, baciandomi il tatuaggio nuovo di zecca.

"Smettila di pensare, Rockstar. Voglio
solo che mio padre non abbia motivi per discutere." -si passa la mia mano sulla guancia- "È molto rigido su certe cose."

Le stampo la bocca in fronte, rigenerato.

"Meno male che nun sa che fai sur letto."

[...]

"Allora, Damiano." -Michael poggia le posate accanto al piatto e spinge i gomiti in avanti, spezzando un silenzio durato qualche minuto- "Mia moglie mi ha accennato di questo.. di questo tour. Come è andato?"

Non ci eravamo mai parlati prima d'ora, se non per il saluto di cortesia, il mio ringraziamento pungente e qualche frase campata all'aria a cui nessuno dei due dava molta importanza, mischiate com'erano alle altre.

Io e sua moglie parlavamo tranquillamente: Michael non lo sapeva, ma ci eravamo fatti di quelle chiacchierate quando lui era via.. E poi, elegante e pacato come sapevo fingere di essere, riuscivo a frenare un po' l'impulso scontroso del padrone di casa.

"Diciamo che per essere un'esperienza nuova, è andata fin troppo bene." -dico in un italiano impeccabile- "I danesi sembrano freddi, ma se li fai divertire, sanno come farlo."

Mangio una sforchettata di insalata, che ha troppo aceto per il mio gusto, ma me la faccio andare bene lo stesso.

"Sembra davvero una bella cosa. E quanti concerti avete fatto?" mi domanda la signora Rose, sinceramente interessata.

"Mh.. una decina forse. Anche tredici, a pensarci bene. Uno in ogni città diversa."

Beatrice allunga la mano sotto il tavolo sopra il mio ginocchio, ridendo discreta mentre la incentivo a salire un po' più su.

"E come mai la Danimarca? Voglio dire.. avevate un successo ristretto persino a Monteverde."

Simpatico come n'carcio n'culo..

Verso un po' di vino e lo sorseggio lento, prendendo del tempo per calmarmi che vale come oro.

"Il proprietario del locale dove suonavamo ogni settimana ha imprese un po' ovunque. È capitato che parlasse di noi a suo fratello, che dirige una compagnia di ristorazione in Danimarca, per partorire la proposta. Abbiamo suonato nei vari locali della compagnia, sparsi un po' qua e lá."

La signora Rose mi sorride e io ricambio la cortesia, mentre Michael addenta un pezzo della sua bistecca argentina.

"E perché scegliere proprio voi? Non poteva ingaggiare una band danese?"

"Sì." -mi giro l'anello che mi ha regalato Bea tra le dita, sperando che mi calmi- "Ma forse crede che nessuna band danese sia brava quanto noi. L'intrattenimento porta pubblico e pubblico porta soldi. Specie se l'anima della festa viene da lontano."

Damiá, e se te sentisse 'a prof de italiano?
Je verrebbe 'n corpo ar core.

Michael continua a masticare il suo filetto argentino da decine di euro, stando attento a non grattare il coltello sul piatto costoso e a non lasciar trapelare alcuna emozione.

La signora Rose ha lo stesso naso a punta di Beatrice, i capelli lucenti e lisci -seppur di un colore diverso- e persino la pelle diafana carica di nei e piccole lentiggini. Ma Michael.. Michael ha i suoi stessi occhi, la sua bocca sottile sopra e carnosa sotto, gli zigomi sporgenti tipicamente inglesi. E io non riesco a guardarlo mangiare privo di cipiglio, senza pensare a lei: mi dimentico del veleno che sputa il serpente, quando incanta con la sua canzone.

"Sará difficile tornare a scuola ora dopo essersi abituati a certi ritmi."

Beatrice mi stringe la coscia, a qualche centimetro da dove finiscono i boxer, e io maciullo la carne sotto i molari, fissando il punto in cui i riccioli di Michael giocano ad acchiapparella.

"Non avevo intenzione di prenderla sul serio comunque."

Beatrice rilascia gradualmente la presa, riportando le mani che tremano sulla tovaglia bianca, di fronte alle unghie smaltate della madre che fissa il bicchiere pieno di vino che puzza di marca.

"La scuola è fondamentale, ragazzo. Anche per chi pensa di diventare un cantante."

Ragazzo?

Mi sorride, forse è anche sincero. Io ingoio le ultime foglie di insalata e mi verso del vino, convinto che ne avrò bisogno più del previsto.

"Beh, scusate l'egocentrismo, ma credo che cantante lo sia già. Non penso di diventarlo."

Beatrice scuote un po' la testa, bassa sul piatto e conficcata tra le spalle, mentre sua madre le chiede di passarle una fetta di pane bianco: i due uomini che si parlano l'uno di fronte all'altro, le loro donne sedute al fianco che si compatiscono mute.

"Si, si, comunque.." -sventola la mano, non dando peso alle fesserie che crede io dica- "Lo studio serve sempre. Qualsiasi lavoro tu voglia fare."

"È utile, non indispensabile."

L'aria si fa pesante, trascinando con sè un silenzio carico di tensione che urla di essere spezzata. La signora Rose, quasi per evitare l'imbarazzo, bisbiglia continuamente alla figlia di passarle qualcosa, ammucchiando stoviglie e cibo dal suo lato senza che poi ne faccia uso.

Beatrice, dal canto suo, disegna strani cerchi sopra il mio ginocchio, con lo sguardo fisso nella tovaglia, apatica di fronte al disastro che presagisce.

"Sai, Damiano, dovresti prendere sul serio la cosa, prima di ipotizzare di diventare una star." -marca la pronuncia inglese, insieme a quel ipotizzare, e mi assale la voglia di attaccarlo al muro- "Non voglio che questa scelta ricada su mia figlia nel futuro."

Solleva la testa -e anche un po' il mento- mentre mi parla, cosa che non aveva mai fatto prima d'ora, quasi a caricare ulteriormente le sue parole di miele che odorano fiamme.

Mi schiarisco la voce, prendo la mano di Beatrice che giocherella con il tappo di sughero sopra il tavolo: la stringo, accogliendo il sorriso tirato della madre e quello ancora più plastico del padre.

"Beatrice si troverà bene con me, lontano da qui."

"Come prego?"

Michael impunta le mani sul tavolo, pronto ad alzarsi, e sua moglie gli massaggia dolcemente la schiena con la speranza di calmarne l'impulso. Beatrice ha gli occhi grandi e impauriti, al contrario dei bulbi stretti del padre.

"Je comprerò 'n cavalletto co'e tempere, studierá all'Accademia e se metterá que'e buffe sciarpe de lana tutte colorate. Non me potrò permette 'n viaggio a'e Maldive, cor povero cervellino 'gnorante che me r'trovo, ma staremo bene."

Michael abbassa la testa e schiaccia le nocche bianche sul tavolo, a pochi secondi dallo scatto di rabbia. Così faccio strusciare la sedia a terra, lasciando la mano di Beatrice.

"Se nun è 'n problema, vo ar bagno."

"Va'." è capace di ringhiarmi.

Mi chiudo la porta alle spalle, sbattendola quel che basta, e tiro le braccia impuntate al lavello di granito, in modo che possa guardarmi allo specchio.

Sembri così stupido..

Queste guance lisce, che non riconosco più, mi fanno sembrare un bambino. Questo completo nero, con la camicia bianca tutta abbottonata, mi proietta alla cresima e allo schiaffetto del vescovo, che tutti dicono sia stato più forte degli altri. Questa.. questa bocca rossa, che fa a cazzotti con la pupilla dilatata.

Apro l'acqua e mi sciacquo le mani, portando freschezza anche al viso con la speranza di sbollire la rabbia. Resto a fissarmi per un altro po', poi slaccio il cinturino e mi bacio il tatuaggio, sentendomi come un prigioniero a cui hanno spezzato le catene.

La porta si spalanca e dallo specchio vedo il riflesso del fantasma di Beatrice tirarmi uno schiaffo sulla spalla e incrociare le braccia al petto.

"Cosa cazzo ti è venuto in mente?! È?! Dimmelo!" -bisbiglia urlando- "Dimmi perché cazzo hai dovuto fare l'indisponente di fronte a mio padre!"

"Io?!" -mi batto il dito contro rivolgendole il viso- "Io indisponente?!"

"Gli hai dato dell'incompetente, Damiano! Come cazzo vuoi che reagisca?!"

Le vene del collo risalgono in superficie come cadaveri in mare e le guance le si fanno rosse tutto d'un tratto.

Io, sfinito dal viaggio e dalla discussione, taglio il manico all'ascia di guerra e mi
siedo sul bidet, chino sulle ginocchia.

"Ci'o sapevi che nun ero bono ad affrontá situazioni der genere. T'avevo detto de rifiutá l'invito."

"È solo una cena, Damiano!" -allarga le braccia- "Non fare il melodrammatico."

"Quella t'é sembrata solo 'na cena?" -indico la porta, tirando il bicipite del braccio alzato- "Nun saró mai stato a 'n incontro co'i genitori de 'na ragazza, ma nun so scemo. Quella stanza puzzava de terzo grado."

"Questo non giustifica il tuo comportamento."

Imita un'anfora etrusca e io sbuffo aria mista a saliva, slacciando fino al petto una camicia che sento soffocarmi tutto d'un tratto.

"È difficile pe me gestí ste.. ste cose de coppia, Bea. Poi se tu padre ce 'a mette tutta pe fa 'o stronzo, stamo popo a cavallo."

Mi tiro indietro i capelli, che la forza di gravità continua ad attirare verso le piastrelle color acqua marina, e sollevo gli occhi su di lei, che ha la bocca così sottile da ricordarmi un filo d'erba.

"Almeno lui ci sta provando."

É un sibilo, un sottile trancio di filo spinato che si attorciglia attorno al collo e lo buca come la corona di Cristo, facendo uscire sbuffi di vapore di sangue. Ha i muscoli del volto contratti, ma gli occhi sono tristi, rassegnati: mi viene in mente il momento che l'ho lasciata andare dal suo ragazzo -dal suo ex ragazzo- accucciato sugli scalini di casa.

"E io? Io nun ce sto a prová?" -scatto sulle gambe, camminandole incontro- "Ma l'hai sentito tu padre, Beatrí? Me chiama ragazzo perché je rode avecce er nome mio sulla lingua, me dice che so troppo scemo pe sta co te, che dovrei smette de sogná de fa er cantante.. Nun so un regazzino, 'o capisco se uno nun me vole 'n casa."

Gli alito sulle labbra, che si dischiudono come boccioli di rosa, e Beatrice rimane incantata sulle mie, indecisa se tuffarvisi o meno. Poi qualcosa cambia nei suoi occhi, che si fanno gelidi come quelli della madre.

"L'hai affrontato, Dem. Gli hai dato del cattivo padre, in casa sua, sotto le orecchie di sua moglie e della sua unica figlia."

"M'hai visto, Beatrí?" -batto il polpastrello sul suo mento rigido- "So entrato cor completo, coi capelli pettinati, tutto preciso, tutto caruccio.. Tutto quello che nun so!"

Urlo un po', cogliendola di sorpresa e facendola sobbalzare sul posto: gestire la rabbia? Sempre stato un problema.

"Questo.. guarda questo!" -afferro l'orologio in tasca, sventolandoglielo dinanzi al naso a punta- "Me so messo n'orologio de pelle, Beatrí! Ci'o sai perché? È?! Pe coprí er tatuaggio! Pe non fallo vede a tu padre! Chissá che poteva pensá, eh? Che sò scappato ieri de galera?!"

Buca il cinturino con lo sguardo, continuando a scrutarmi dura dietro quegli occhi dolci e freschi come la panna sopra il caffé.

Ma che t'o dico a fá, quanto si bella?
Che t'o dico a fá quante stronzate farei pe' te?
Nun me crederesti.

Ricaccio l'orologio in tasca, spostando il peso sulla gamba destra e puntando le mani sudate sui fianchi, sopra la camicia di lino che scalpita per liberarsi della giacca che prude.

"Me sento 'n aquilotto 'n gabbia e questo nun m'aiuta ad entrá in boni rapporti."

Passeggio per la stanza, sperando che il bruciore dei muscoli distolga l'attenzione dal groviglio di rabbia e frustrazione che ho nella testa.

"Ti ha invitato qui, dopo che gli avevi disobbedito. Ti ha offerto la cena, un posto nella sua tavola sacra, persino l'occasione di tenere la mano di sua figlia, nonostante tu non gli piaccia per niente." -dice a bassa voce, mentre io fisso il cortile poco illuminato dalla finestra- "Mia madre ti ha accolto in casa con il rischio di mettere su una discussione colossale con suo marito. Ha rischiato il suo matrimonio per te, Damiano. Ti ha offerto la cena, il divano di casa e anche la speranza di stare con sua figlia."

Il tono è sicuro, ghiacciato come una stalagmite, dritto come un'autostrada che porta in Salento. Il volume è basso, viscido, sottile come la polvere che si nasconde sotto il tappeto, o quella che ricopre con una patina i mobili di un vecchio ufficio. Un sospiro che mi buca la schiena e si riversa nel sangue, infettandolo.

"Io ho sacrificato un fidanzato con cui stavo da tre anni.. tre anni, Dem! L'ho mollato per strada come un cane, sono salita nella tua macchina e non ho guardato indietro. Mi sono lasciata portare lontano da quella cazzo di macchina, senza chiedere quando, perché, dove stessimo andando."

Le sue parole, pronunciate in uno stato catatonico, sono così studiate da sembrare sintomo di calcolo più che d'istinto irrazionale. Ma lo so: lo so che crede in quello che dice.

"Io sono cambiata, Dem. Siamo tutti cambiati, ci siamo tutti sacrificati." -mi ricorda, tornando in un attimo di lucidità alla dolcezza che ho conosciuto- "E tu, ora, mi dici che non ce la fai? Che ti senti ingabbiato e non puoi fare un minimo sforzo per far quadrare le cose?"

Mi volto e Beatrice ha gli occhi stretti, la mano sul lavello che usa per reggere un peso che le grava sulle ginocchia e sul cuore maltrattato. Un peso che occlude ogni speranza e taglia i freni per un dolce approdo alla comprensione: c'è solo ira e dolore, dolorosa ira, iracondo dolore.

"Come cazzo dovrei prenderla? Dopo tutto quello che ti ho concesso, che ci ho concesso.. Cosa ti dovrei dire? Va bene, amore, non ti preoccupare, penserò a tutto io. Farò ragionare mio padre e zittirò mia madre, mi caricherò tutta la responsabilità di questa relazione. Relazione.. " -ride sconfortata- "Come faccio a chiamarla relazione? Facciamo ridere, Dem. Facciamo davvero ridere."
Batto un pugno sul muro e le dita mi urlano di smetterla, di usare le parole, invece di reagire così.

Ma nun sei stato mai attento a scola, Damiá.
E nun ce sei manco 'nnato troppo spesso.
'E parole nun le sai usá: sei 'na bestia, che nun se merita niente.

Mi fisso le punte arrotondate degli stivali, con il cuore che batte lento come il mare notturno contro gli scogli. Beatrice apre il rubinetto e fionda un getto d'acqua sul suo viso truccato alla leggera, che le fa colare la matita e il mascara.

Sembra che t'ho fatto piagne.

"Mi sono impegnata. La mia famiglia ci ha provato. Tu non hai fatto niente, non sei cambiato, non ti sei sforzato di farlo." -pulisce le mani nel panno bianco, morbido come le sue labbra- "Questo non è amore."

Questo non è amore.

Dice che questo non è amore.

Hai sentito, Damiá? Che coglione che sei! Dice che nun è amore!

Dice che non mi ama.

Dice davvero che non mi ama?

Aveva giurato di amarmi, era sicura.

T'ha fatto nabbo Damiá! 1-O palla ar centro.

Sollevo la testa che pesa e gira come una moneta di 50 centesimi sul cemento: vale tanto la mia vita ora.

Beatrice sta ancora strofinando le dita contro l'asciugamano, con una freddezza chirurgica che mi fa pensare possa diventare davvero un ottimo medico.

"Non t'ho mai chiesto de cambiá pe' me, Beatrì. 'O sai bene, nun poi negá."

L'orologio mi cade di tasca nel tentativo di avvicinarmi e farla ragionare, liberarla da questo fantasma insensibile che le ha stretto il cuore. Mi chino per raccoglierlo: si è rotto.

Proprio come noi.

"Sei stata tu a sceglie de diventá quarcun artro. Nun t'ho imposto niente, nun t'ho mai legato a 'na ssedia e puntato 'na pistola a'a tempia. M'hai detto ch'eri stanca de fa que'a vita noiosa e io t'ho offerto la possibilità de cambiá." -ficco l'orologio in tasca, pensando alla scusa da rifilare al nonno- "Possibilitá, Beatrì. Non obbligo."

Scava nella trousse vicino al rubinetto, tirando via una matita spuntata e del rimmel per sistemare il trucco. Si specchia, utilizzando il contorno illusorio di sè sulla superficie riflettente per ridare bellezza a quel viso spento.

Che t'è successo, Beatrì?
Non sorridi più, non movi l'occhi, non me guardi.

"Non sei più felice? Me sembrava d'avette reso felice."

"Credevo di esserlo." -si passa il rossetto sulle labbra, strusciandole tra loro- "Forse ho sbagliato a farmi abbindolare per qualche notte insieme."

Un angelo, conciato da dea, che sputa fuoco come il più sporco diavolo. Una frase, vestita da menzogna, che nasconde una verità affilata come il profilo di una mannaia. Un cuore, strapazzato come un uovo in camicia, che batte piano fino a non dare prova di esistere.

Beatrice ripone i trucchi nell'astuccio e si volta a guardarmi: ho gli occhi lucidi e la sua sagoma è così traballante da sembrarmi un fantasma.

Quanto vorrei che fossi 'n fantasma, Precisì!
M'hai sparato, m'hai sparato dritto ar core.
Sapevi ch'ero disarmato.

Perché da quando mi sono innamorato -perché sì, l'ho fatto- ho lasciato a casa il giubbotto antiproiettile.

"Per qualche notte insieme?" -domando ferito- "Ma che stai a dì?"

"Perchè, non abbiamo mai scopato io e te, Damiá?" serpeggia, accomodandosi contro la porta del bagno a braccia incrociate.

Quelli non sono i suoi occhi: sono troppo grandi, e poi hanno la sfumatura verde scuro del padre. Non vedo neanche la scintilla che brilla ogni volta che la guardo. E quella.. quella non è la sua bocca: è ferma, con gli angoli verso il basso, contratta in una paresi. Quando la fisso, è sempre lì a mangiucchiarla, indecisa se baciarmi o meno.

Quella non è Beatrice Rose, non è la ragazza che vorrebbe adottare un cucciolo di Husky e andare a vivere in una villa rustica in Toscana.

Damiá, nun è che te sei preso 'na tranvata e hai conosciuto la versione tarocca?

"Ma che cazzo c'entra er sesso adesso?! Stamo a parlá de sentimenti, Beatrì! Dovrei pensá che ce semo sempre portati per culo? Che me dicevi che m'amavi e te facevi 'e grasse risate appena me giravo dall'artra parte?"

Poggia la nuca sul legno e sbuffa, come se sia annoiata dalle mie paturnie sentimentali.

Ma chi sei, oh?
Io nun te conosco.

"Non fare la vittima della situazione, perché non solo non sei credibile, ma non è neanche il caso."

"Ma che stai a dì! Vittima io? Nun so mai stato 'na vittima e mai me so sforzato de essela." -accomodo i capelli dietro le orecchie, sentendo la pelle accaldata evaporare e sudare- "Me stai a fa crede che nun semo boni pe sta insieme."

Alza le spalle, mordendosi un'unghia laccata di oro: il mio colore preferito.
"Forse hai ragione."

Lei crede che, forse, io abbia ragione. Io credo che, forse, morire avrebbe fatto meno male. Sentire la carne lacerarsi sotto i canini di un pitbull -quel pitbull che avevo promesso a Beatrice di addestrare prima di andare in Toscana- avrebbe sicuramente macchiato meno la pelle e strapazzato il cuore.

Avrei preferito che mi sparassero: un colpo di rivoltella sulla tempia, qualche schizzo di cervella sul muro e niente rimpianti. Avrei preferito tutta la vita che mi cacciassero delle spine salate sotto le unghie, o che mi scuoiassero i polpacci. Perchè aver avuto il cuore arido per tanto tempo ha funzionato alla grande, almeno fino a quando l'ho dovuto scaldare. Ci ho messo tanto a scaldarlo, sto core 'nfame. Ci ho messo tanto tempo e tante energie, ho preso tante precauzioni, ho seguito tanti consigli.. e per cosa? Per farmelo maltrattare così?

Non ho mai amato nessuno, se non me e la mia famiglia. Essermi messo in gioco, col rischio di non tornare a quello che ho lottato per essere, e avere niente in cambio.

Ma che cazzo de gioco hai giocato, Damiá?
Torna ar pallone, torna a guarda 'e partite de 'a Maggica e a fa l'aeroplanino de Montella quanno segni a Walterino!
Te conviene, Damiá.
Nun 'o senti che casino fa er core che se spezza? La batteria dell'Indianino lo invidierebbe, sto core de merda.

Sono sempre e solo stato io: tornerò ad esserlo. Mi sono abituato a considerare anche lei, all'infuori di me, ma non ha portato a niente se non al dolore. Come a scuola, come nella vita, non ti viene mai riconosciuto niente. Sarai sempre un gradino più in basso da quello che devi essere. E così non vale. Così non mi sta più bene.

Come mi sono abituato a lei, mi abituerò a starne senza.

Ma che pretendi de fá, Romeo?

Lo so, ci vorrá tempo. Ma ho solo diciannove anni: il tempo è l'unica cosa che ho.

Indosso l'orologio del nonno, che segna sempre le nove meno un quarto. È perfetto: la mia vita si è fermata dieci minuti fa, questo è il solo orologio che fa per me.

"Io c'ho provato a cambiá pe' te, ma se vede che cambia non fa ar caso mio."

Mi sfilo la giacca e la accartoccio tra le mani, che restano troppo ferme per appartenere a un cuore così ingrato.

Sollevo la mira per la prima volta da quando Beatrice ha parlato: lo sguardo si è impietosito, sembra persino somigliare a quello della ragazza dolce e altruista che avevo conosciuto.

Nun te fa inganná, broccolone!

"Tieni, forse 'a tu padre je potrebbe andá bene."

Le passo la giacca, che afferra con riserbo, e subito mi sento libero d'un peso.

"Potresti spostarti?" -le dico- "Vorrei passare."

Guarda il mio soprabito tra le sue dita sottili, stringendolo come un ricordo infantile, e quando rilancia gli occhi nei miei, come ami da pesca che si impigliano tra gli scogli, sta piangendo.

Scappa, Damiá!
Corri da tu madre, che te vole così bene, e da Vic, che te ama tanto..

"Bea, spostate." ordino perentorio.

"Vuoi davvero andartene?"

È ritornata, ma è troppo tardi.

"Sì."

Si scansa e io àncoro le dita alla maniglia, quasi tema che lei cambi idea e continui a fare da scudo con il corpo: non reggerei tanto. La scia del suo profumo, mischiato a quello della mia giacca, mi accompagna alla porta.

La signora Rose mi sorprende staccare il cappotto dall'attaccapanni quando ho ancora il cappello tra le mani e io la guardo muto con mezzo sorriso tra le labbra.

Me dispiace, credevo d'esse quello giusto vorrei dirle.

"Grazie della cena e scusate il disturbo." faccio invece.

Marzo sembrava più caloroso prima di entrare in quella casa. Eppure adesso sento il freddo penetrare i pori della pelle. Sará il gelo dentro che si espande?

Mi accendo una sigaretta, che rischiara l'aria umida, e scendo i gradini con la consapevolezza che sarà l'ultima volta: lo faccio piano, per assaporarne il retrogusto amaro di caffè colombiano.

Una lacrima puttana fugge dai miei occhi, battendo sul naso, e io lascio che almeno lei si senta libera stasera. Comincio a passeggiare, con il cappello basso sugli occhi e l'ultima canzone di Normercy in bocca. 

Tiro fuori il telefono dalla tasca e compongo il numero che ho salvato sulle emergenze.

"Grillo? So Ica. Senti, nun è che t'è rimasta 'n po' de roba?"

"Serata moscia?"

"Nun sai quanto."

Ride e io per un attimo guardo la luna: per un po' c'hai protetto, brutta fia de mignotta.

"Ce dovrei avé quarcosa. Che famo? Me faccio trová da Giorgione?"

"Spaghettata schimicata?"

"Quante ne sai, Damiá."

Grillo non lo sa: ma io, della vita, non c'ho proprio capito 'n cazzo.

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