Capitolo XIII
Era stesa a letto, col lenzuolo tirato fino a coprirle la testa, immersa nel suo angolo di riflessione. Le tapparelle erano calate e l'unica fonte di luce in quella stanza era rappresentata dal computer di Margot lasciato perennemente acceso. Era quasi tentata di andare ad abbassare il monitor, ma la sua mente era ferma, bloccata, persa nei propri pensieri, quasi a non accorgersi dello scorrere inesorabile del tempo.
Sentì la porta aprirsi per poi richiedersi, per poi sentire dei passi avvicinarsi al proprio letto.
Riconobbe immediatamente quei passi.
L'entrata di Warren fu accompagnata dal fruscio dei suoi vestiti. Amèlie era sempre stata un'ottima uditrice, riusciva perfettamente ad associare ogni suono ad un'azione. In quel momento si stava spogliando: iniziò dalla maglia, che sfilò rapidamente per poi poggiarla sulla sedia della scrivania lì accanto.
Quando sentì anche il rumore della cintura che veniva tolta, fu tentata di scostare leggermente il lenzuolo, ma la parte più razionale e soprattutto arrabbiata di lei ebbe la meglio. Non si voltò nella sua direzione nemmeno quando sapeva fosse completamente nudo, con solo i boxer a ricoprirlo.
I suoi passi si fecero man mano più vicino al letto, fin quando il lenzuolo venne alzato dal proprio corpo.
Ma Amèlie tenne il capo chino pur di non incontrare il suo sguardo.
Udì il peso di Warren sul letto, accanto a lei, per poi stendersi completamente, dietro di lei.
Troppo vicino.
«Mi dispiace tanto» sussurrò. «Non ho mai pensato quelle cose. Tu sei questa famiglia, ne fai parte. Nessuno di noi potrebbe immaginare la nostra vita senza di te».
I loro corpi erano attaccati. Amèlie continuava a essere rivolta verso il muro, e nemmeno quando avvertì il braccio dell'altro stringerle il corpo si voltò.
Non rispose. Le sue parole l'avevano ferita più di quanto fosse risposta ad ammettere e quelle scuse non erano sufficienti a farla calmare, soprattutto se non si trovava una soluzione al problema e al suo assurdo scatto d'ira.
«Parlami».
«Vattene».
La presa si strinse così tanto, d'improvviso, che quasi le mancò il respiro.
«Non me ne vado» rispose, per poi posarle un bacio tra i capelli. Fu dolce. «Resto qui, con te, tutta la notte».
Amèlie amava quelle attenzioni, quei baci e quella stretta che l'avvolgeva e in cui si sentiva protetta. Ma il rapporto tra loro era evidentemente compromesso da settimane. Ebbe la sensazione che, se l'avesse perdonato in quel momento per il suo scatto di rabbia, lui sarebbe stato tranquillo soltanto per pochi giorni, per poi riprenderle a darle contro su argomenti ignoti.
«Per prendere a insultarmi domani?» ribatté sarcastica.
Avvertì un altro bacio tra i capelli.
«Lo sai che ti voglio bene?» chiese Ren e Amèlie dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non girarsi e dargliela vinta.
«No,» rispose con un mugugno da bambina. «Perché non me lo dimostri».
«Te lo dimostro sempre, anche quando sono incazzato con te».
«E perché eri arrabbiato con me?»
«Perché sei uscita con quel tizio».
Amèlie spalancò gli occhi e trattenne per un momento il fiato. Non si aspettava che Ren ammettesse così chiaramente il problema che si era venuto a creare perché di solito, per farlo parlare, doveva portarlo allo sfinimento con un interrogatorio di almeno un'ora. Invece, notò, quella sera era particolarmente loquace. Si era pentito di averla trattata male ed adesso la ricambiava col migliore dei trattamenti pur di ottenere il suo perdono.
«E ora non sei più arrabbiato?», tirò la corda.
«Lo sono ancora, ovviamente. Ma non dovevo dirti quelle cose».
Odiava il fatto che bastava un po' di dolcezza da parte di Ren per renderlo, ai suoi occhi, la persona più buona e meritevole di perdono del mondo. La cosa più assurda era che aveva passato una serata intera a sentirsi a disagio, un'estranea, per poi abbandonare completamente quei pensieri e sentirsi amata a seguito di due paroline.
Odiava come Warren influenzasse così tanto il suo stato d'animo.
Ma amava il modo in cui la faceva sentire ogni giorno.
Si voltò, non dandogli più le spalle, per concedersi la vista del suo intero volto. Ren aveva allentato leggermente la presa per permetterle di girarsi, ed adesso i suoi occhi nocciola erano immersi in quegli splendidi smeraldi. Posò una mano sul suo braccio, per spostarlo vista la posizione scomoda, ma ci si soffermò per un tempo sufficiente a sentire il calore del corpo dell'altro. D'istinto, percorse con la punta delle dita tutto l'arto, fino ad arrivare alla spalla, e al collo pallido e morbido. Immerse la propria mano tra i capelli corvini di Ren, mentre il pollice andava a carezzargli la zona dietro all'orecchio.
In risposta, Warren emise un gemito di piacere e Amèlie tremò in risposta. Udì qualcosa muoversi nel proprio stomaco e una sensazione di calore arrivare fin in mezzo alle gambe, proprio lì.
Era sorpresa, spaventata, ma non si staccò da lui: era una sensazione bella.
«E perché eri arrabbiato?» domandò. Ren aveva chiuso gli occhi a seguito di quelle carezze, segno che se le stava godendo a pieno e che nemmeno una domanda a primo acchito scomoda come quella avrebbe potuto riscuoterlo dal suo stato di pace.
«Lo sai».
Smise di accarezzarlo, deconcentrata dal discorso.
«No che non lo so».
Warren non apprezzò molto quell'interruzione. Le prese la mano tra le sue, riportandola sul luogo originario. Inizialmente Amèlie provò ad opporre resistenza, ma quando sentì di nuovo quel sospiro di piacere al tuo tocco, riprese da dove si era fermata, facendo cadere il discorso.
Domani ne parleremo.
Il moro ritrascinò il proprio braccio su di lei. Si strinse, avvicinando i loro corpi, così che potesse poggiare la testa nell'incavo del suo collo: Amèlie pregò che non sentisse il suo cuore battere all'impazzata immotivatamente all'interno della propria gabbia toracica.
«Ho sonno» mormorò, il suono era ovattato. Le labbra si mossero sul proprio collo, sfiorandolo in una dolce carezza. «Quando mi fai innervosire, mi stanco».
Amèlie rise a quella frase.
Il sorriso poi scemò, fin quando entrambi non si addormentarono, insieme, ed Amèlie non poté fare a meno di ammettere a sé stessa che lo aveva perdonato sin da quando si era presentato in camera per scurarsi.
Quella mattina nessuna sveglia suonò. Era sabato e Ren non lavorava nel fine settimana. Di base, avrebbero potuto dormire per almeno altre tre ore, fino all'ora di pranzo quando Nellie e James si sarebbero accorti della loro assenza, ma così non fu a causa del membro più movimentato della famiglia, Margot. Non sapeva nemmeno lei perché, ma si intrufolò nella sua camera come se fosse una ladra, per non farsi scoprire dai propri genitori.
Amèlie però aveva il sonno sufficientemente leggero per accorgersi del tentativo fallimentare della ragazza di non fare rumore.
«Ehi, Margot» mormorò, assonnata.
Fu spontaneo per lei salutarla e darle il buongiorno come ogni mattina. Di per sé, non ci sarebbe stato nulla di strano, peccato che lo sguardo un po' infastidito che le rivolse Margot le fece effettivamente realizzare la situazione in cui si trovavano.
Lei e Warren stavano dormendo nello stesso letto, mentre l'altro era rimasto immacolato, segno che nessuno ci si era nemmeno seduto. La testa del moro era vicinissima alla sua, un braccio a cingerla, le loro gambe incastrate.
Amèlie si sentì mortificata e imbarazzata.
«Ehm... Ci siamo addormentati mentre guardavamo un fil-», ma Margot la interruppe immediatamente.
«Mi sono vista centinaia di film con Warren, e ti assicuro che mai ci siamo addormentati in questo modo» pronunciò. «Ma non voglio sentire altro». Al termine di quella frase, la ragazza aprì le tende e le finestre, così che la luce penetrò all'interno della stanza. Uscì presto dalla porta.
Il mugolio di protesta di Ren le fece comprendere che anche lui era ormai sveglio.
Amèlie era a disagio e il corpo dell'altro, premuto contro il suo, concretizzò quella brutta sensazione che stava provando. In quel momento sperava soltanto che Margot si fosse tenuta quel piccolo problema per sé, senza spifferarlo ai propri genitori. Non voleva deluderli.
«Buongiorno, Amy».
Amy.
Quel giorno Warren sembrava proprio essersi svegliato di buonumore. Erano mesi, forse anni, che non usava più quel diminutivo: gliel'aveva affibbiato quando era piccola, ma crescendo era quasi completamente sparito. Quasi, per l'appunto.
«'Giorno».
Si voltò a guardarlo: Ren era bello come sempre, anche con gli occhi un po' socchiusi per il risveglio brusco, anche con la voce roca. Il lenzuolo durante la notte calda era stato rimosso, così da consentirle una perfetta visione della sua schiena, costernata da una miriade di nei, come se volessero formare una costellazione su un cielo bianco.
Si sarebbe persa ancora ad osservarlo, se solo non avesse ricordato la spiacevole conversazione di poco prima.
«Prima c'era Margot in stanza e ci ha visto dormire insieme» iniziò, ma poi si interruppe, non sapendo bene come continuare e come alleggerire quella frase imbarazzante.
Ren stranamente comprese al volo il centro del suo discorso.
«Cazzo».
Come ha fatto a capire così in fretta?
Amèlie assunse un'espressione perplessa.
«La paternale sul fatto del non dover stare distesi vicini l'ha già fatta a me qualche settimana fa. Ignorala e basta, come ho fatto io» rispose Ren, stiracchiando i muscoli, per poi riprendere a stringere il suo corpo.
«Secondo te ha ragion-»
«No,» ribatté subito, nemmeno il tempo di concludere la frase. «Non deve mettersi in mezzo in cose che non la riguardano».
Amèlie avrebbe voluto replicare, ma Warren sembrava particolarmente fermo su quell'argomento, quasi volesse concluderlo al più presto. Per questo, per non scatenare un'altra lite tra loro, preferì assecondarlo e mettere fine a quel discorso.
Guardò l'ora sull'orologio posto sulla scrivania: erano le dodici e otto minuti.
«Dobbiamo alzarci» disse lei.
«Altri cinque minuti».
Il volto di Ren tornò a rintanarsi nell'incavo tra il collo e la spalla del corpo di Amèlie. Lei riprese ad accarezzarlo e parlò di quanto le stesse piacendo il libro che le aveva regalato poco tempo prima. Lui l'ascoltò in silenzio e con attenzione.
Parlarono per almeno un'ora.
Si alzarono solo quando fu ora di pranzo.
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