La Signora
Mentre Giovanni si china sul tavolo per raccogliere piatti e bicchieri vuoti, l'occhio cade inesorabilmente sulla figura di lei.
La Signora è elegantissima anche oggi, con indosso un abito giallo di fattura pregiata, ma apparentemente troppo leggero per il clima di quei giorni. Guarda l'orizzonte con la testa posata su due nocche e dondola mollemente la gamba accavallata.
Giovanni la osserva, tra una passata di straccio e l'altra, e gli sembra più lontana del solito. Il telefono le squilla, ma lei lo ignora, come se non esistesse altro attorno a lei ed ai suoi pensieri. Toglie l'ampio cappello e finalmente lo posa, lasciando ricadere liberi i capelli castani. Le si adagiano sulle spalle con una spirale quasi studiata e Giovanni s'imbambola a contemplare i riflessi del sole filtrarvi attraverso. Per un attimo, sembra che il cuore gli manchi un battito.
Tossisce, cercando di ritornare con la mente al servizio ai tavoli e s'affretta per sparecchiare. Quando si volta, però, la vede ancora. Gli occhi sono nascosti da un paio di occhiali da sole, ma sono chiaramente puntati su di lui. Gli sorride e Giovanni deglutisce rumorosamente. È bellissima, tuttavia, l'imbarazzo non gli permette di avvicinarsi. Un suo collega s'affretta al suo posto e gli offre l'occasione per dileguarsi.
Mentre cammina, sente il sudore corrergli lungo la schiena, perfettamente consapevole che la causa è la tensione. Ripone le stoviglie sporche in cucina e torna al banco per controllare le prenotazioni. È più forte di lui. Anche se non vuole ficcanasare, finisce per cercare il suo nome e scoprire che pranzerà stranamente sola. In quel frangente, il cameriere che le si era avvicinato lo scorge e gli fa un cenno per richiamare la sua attenzione. Quando la distanza tra loro si riduce, quel tanto da permettergli di sentire cosa dice in mezzo al vociare della clientela, nota che mormora con una certa discrezione.
«Ha chiesto di te.»
Impallidisce. Guarda il suo collega, come se lo stesse mandando al patibolo, mentre riceve una sonora pacca sulla spalla. Le gambe si muovono. Torna ai tavoli posti all'esterno e, quando la scorge nuovamente, stringe il dispositivo per le comande come se potesse proteggerlo da una minaccia indefinita.
Una volta affiancato il tavolo, lei si volta e fa scorrere lo sguardo sulla sua persona. Scioglie le gambe e abbassa il braccio. «Ciao, Giovanni. Ne è passato di tempo...»
«Sì, è così...» commenta con atteggiamento distante, ma in realtà l'emozione nel suo petto è sincera e lo tradisce. «Non pensavo di rivederla. Come sta?»
«Quanta formalità.» risponde, togliendosi gli occhiali da sole e cercando il suo sguardo.
Giovanni respira affannosamente, non appena scorge l'occhio nero che rovina la bellezza di quel viso e racconta una verità che gli fa ribrezzo. Le sue mani stringono con forza il dispositivo, non potendolo fare con il collo dell'uomo disgustoso che le aveva fatto una tale violenza. Un elemento che quella donna si ostinava a chiamare ancora marito, nonostante tutto. Un datore di lavoro che a un certo punto si era rifiutato di servire, quando si era reso conto di chi fosse davvero. Un essere umano che aveva combattuto come poteva, nonostante non fosse nessuno di fronte al suo patrimonio e alla sua influenza.
«Perché sei andato via?»
«Perché non sei venuta via con me?»
Due domande, che rappresentavano perfettamente i rispettivi mondi. Una lacrima corre lungo la sua guancia e lui non riesce a frenarsi. Si china su di lei e l'asciuga, accarezzandole proprio il punto in cui la guancia è gonfia. Nei suoi occhi c'è il dolore per non essere stato in grado di andare contro al suo rifiuto. Se solo avesse fatto a pezzi quella bestia o se solo avesse portato via lei con la forza...
Mentre la guarda, ricorda a sé stesso che nessuno può essere salvato, se non lo desidera. Quante volte l'aveva pregata di ammettere il male che le stava facendo e quante volte lei lo aveva scusato, aveva sminuito il dolore o negato i lividi.
Lui si era aperto con lei, le aveva dichiarato i suoi sentimenti e l'aveva scongiurata di seguirlo. Non importava che lo ricambiasse, lui voleva semplicemente che lei ricominciasse a vivere, che fosse di nuovo felice e spensierata come l'amica con cui giocava da bambino.
Il suo "non posso" gli bruciava ancora nell'anima, ma non l'incolpava di nulla. Solo non riusciva a sopportare di vederla patire a quel modo, che lei volesse imporsi di sopportare tutto ciò che le stava accadendo, perché non lo meritava. Nessuna doveva pensare che ciò che le stava facendo, fosse normale.
L'impotenza di non poterla proteggere, di non poterla difendere e il dover restare fermo a guardare, nonostante il suo amore sconfinato per lei, lo stava distruggendo. Non poteva accettarlo, nemmeno se era lei a chiederlo.
Se solo il suo amore fosse bastato per farle capire che una via d'uscita era possibile...
L'espressione di Giovanni tradisce la sofferenza di quei pensieri. S'inginocchia accanto a lei maledicendo ogni singolo istante di lontananza.
«Lea, ti prego fatti aiutare. Ora basta!» le bisbiglia implorante.
Lei gli stringe la mano e inizia a baciargli il polso, accoccolandosi contro il suo tocco.
«Sono qui perché è finita, Giovanni.»
Si alza di scatto e le solleva il mento per studiarne il viso.
«Che vuoi dire?»
«La polizia è arrivata, mentre mi picchiava...»
Quelle parole lo lasciano interdetto. Sperava che la sua denuncia servisse a mettere la parola fine a quella storia, ma il pensiero che non fosse lì con lei a impedire che venisse colpita lo dilaniava. Lea gli solleva il viso.
«So che sei stato tu.»
Giovanni annuisce. Gli occhi lucidi tradiscono il suo senso di colpa per non essere riuscito a fare di più. Lo consola solo sapere che la flagranza di reato lo ha portato certamente all'arresto.
«Volevo avessi un'occasione per uscirne. Con o senza di me non ha importanza. Volevo solo finisse di ferirti...»
Lea lo guarda dolcemente, singhiozzando e ridendo, sentendo finalmente un peso lasciarle il petto e, quando ebbe un attimo di fiato, gli disse solo: «Grazie.»
FINE
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