Capitolo 9 Damon
Gli occhi si riducono a due fessure mentre la vedo chinarsi e raccogliere la scatola dal pavimento. I singhiozzi rimbombano nelle mie orecchie mentre scuoto il capo, poi faccio un passo verso di lei, scrutando le sue mani tremanti che stringono quella maledetta scatola.
«Non... non volevo...», biascica.
«Cosa?», tuono. «Potevi rischiare di restare incinta e ti sei presa una fottuta pillola per non esserlo. Ti rendi conto?», ringhio senza respiro.
Il petto brucia mentre il cuore martella e credo che possa quasi esplodermi.
Il suo volto si solleva per incontrare il mio.
«Sono stata una stupida, ho saltato tre pillole e, con tutto quello che stai affrontando, un altro bambino avrebbe reso le cose solo più complicate!», urla tirandosi in piedi, poi mi oltrepassa per dirigersi in camera, dove la seguo.
«Complicato?», ripeto. «Hai pensato che forse avevo tutto il cazzo di diritto di saperlo? Di decidere anche io che cosa volevo?», ringhio additandola, allo stesso tempo che tira fuori dai cassetti la biancheria per vestirsi. Si ferma, con le mani aggrappate al mobile, e si volta verso di me.
«Damon, guardaci...», indica prima me, poi sé stessa. «Abbiamo vent'anni... stai per diventare padre e stai affrontando un processo per ottenere la custodia di quella bambina», sibila tra i denti, le lacrime solcano violente le sue guance fino a perdersi a terra, dove il suono impercettibile sembra riuscire a crearmi una voragine nel petto.
«Non ha importanza quanti cazzo di anni abbiamo o ciò che stiamo passando. Porca puttana, Allyson, si tratta di me e di te». Non riesco a placare la rabbia e la delusione che sento mischiarsi e avvolgere il mio corpo.
«Cosa vuoi da me, Damon?», sbraita sollevando le braccia al cielo, come se fosse stanca, sfinita.
«Forse avrei solo voluto scegliere, ma hai pensato a tutto tu. Non è vero, Al?», le mani raggiungo il suo volto, cancellando altre lacrime, mentre io non riesco a fare un solo passo, sono inchiodato a questo fottuto pavimento. Non abbiamo avuto il tempo di parlare di figli, ma se c'è una cosa che so con certezza è che vorrei avere tutto da lei. Non mi importa ciò che ci circonda adesso o se ho solo vent'anni, non mi importa un emerito cazzo quando si tratta di lei, l'unica ragione per cui ogni mattina mi sveglio, felice di avere ancora una vita da vivere.
«Non puoi accusarmi, Damon, non lo puoi fare... ero spaventata... e...», abbozzo un ghigno.
«E troppo impegnata a tenermelo nascosto. Ora capisco perché eri così strana in questi giorni. Non c'entrava un cazzo il processo...», mi dirigo verso l'armadio, lo apro e prendo la sacca; ci infilo alla rinfusa un asciugamano, un paio di pantaloni della tuta, la felpa e lo richiudo.
«Dove... dove vai?», chiede sprofondando a sedere sul letto, le scocco un'occhiata. Metto la sacca sulla spalla.
«A schiarirmi le idee», rispondo, avviandomi a gran passo verso la porta.
«Non abbiamo ancora finito di parlare», dice strascicando le parole. Mi fermo sulla soglia restando di spalle.
«Vuoi davvero parlare ora, Evans?», mi volto appena, guardandola da sopra la mia spalla; i suoi occhi si spalancano di terrore mentre il mio sguardo truce la trapassa, come una lancia infuocata che le marchia addosso il ricordo del passato, con la stessa intensità con la quale cercavo di proteggere me stesso da qualcosa che non conoscevo ancora... lei. «Hai avuto tutto il tempo per parlare, ora non ho niente da dirti», esco nel corridoio e poco prima di raggiungere il portone, esclamo ad alta voce: «Non aspettarmi alzata!». Quando sono sul pianerottolo mi piego in avanti, posando le mani sopra le ginocchia. Cerco di regolarizzare il respiro, di liberare la mente, ma è tutto inutile. Scendo di corsa le scale mentre la porta si spalanca alle mie spalle.
«Damon, non andare! ti prego!», supplica la sua voce spezzata. Mi soffermo sull'ultimo gradino trattenendo il fiato, mentre le dita si artigliano al corrimano in legno della scala; posso vedere le nocche sbiancare per quanto lo stia stringendo. Chiudo gli occhi e mi basta questo per rivivere in un attimo tutto. "Non me l'ha detto" ripeto nella mente e mi fiondo verso il portone, sbattendolo con prepotenza alle mie spalle.
Il sole è ancora alto, ma dentro di me è già tramontato, lasciando spazio solo a una nube densa di ricordi che vorticano nella testa. Un turbinio di emozioni implode e il torpore mi avvolge, insinuandosi fin dentro le ossa. Raggiungo la palestra, entro e, senza chiedere niente a nessuno, mi dirigo verso gli spogliatoi. Mi tolgo i vestiti e metto i pantaloni della tuta restando a torso nudo, con l'asciugamano poggiato attorno al collo. Vado dritto verso il primo sacco libero che trovo.
«Sei tornato», cinguetta Selena stagliandosi di fronte a me. Inarco un sopracciglio, carico il peso del corpo e senza proferire parole comincio a colpire. Il sacco dondola violentemente, sfiorandola. «Vacci piano», mi ammonisce, mettendosi dietro per sorreggerlo.
«Ti consiglio di toglierti dai coglioni», ringhio preparando il prossimo colpo. Il pugno pesta la pelle nera e inizio a sentire la pelle bruciare.
«Brutta giornata?», commenta cercando di far leva con il suo corpo, che sposto ripetutamente a ogni colpo che assesto. L'adrenalina carica le mie vene, scorrendo come sangue, annebbia la vista e offusca la ragione.
I pugni si alternano senza sosta, rivoli di sudore scorrono come acqua lungo il mio corpo. Solo io e due occhi grigio-azzurri che si materializzano nella testa. Li vedo colmi di lacrime, la sua voce grida nelle orecchie e io non riesco più a placare la rabbia che si scatena inesorabile. Sono ancora qui, dannato, smarrito a me stesso ancora una volta.
Annego nel suo mare, con la sola voglia di riemergere per respirare.
I ricordi sfrecciano come un treno in corsa, flash di noi mi piombano nella testa rimbalzando e mozzandomi il fiato nel petto.
Sento la gola bruciare, il sangue sporca le mie mani dove la pelle si strappa, ma il dolore fisico è troppo lontano da ciò che marchia, squarcia e pugnola la mia anima. «Dovresti riprendere fiato», esclama Selena, aggrappata con ambedue le mani al sacco. Mi fermo, trasalendo da un angolo di inferno dal quale mi lascio ancora risucchiare, eclissando in un baratro che si apre e si chiude tutte le volte.
«Dovresti farti i cazzi tuoi!», l'avverto sollevando il braccio sinistro per colpire; ogni pugno sferrato è una cicatrice che si riapre, sanguina e mi segna nel profondo. "Perché?" chiedo a me stesso senza trovare una risposta.
«Ti avevo proposto i nostri combattimenti», dice facendomi fermare di colpo. Le lotte sono cucite al mio corpo come una seconda pelle, mi hanno salvato quando non esisteva una via di fuga. Pulsano dentro di me come qualcosa di cui non puoi fare a meno. «Allora?», incalza.
«Fottiti», sputo, abbozzando un ghigno malevolo che la minaccia di starmi lontana.
«Dovresti moderare il linguaggio», cerca di minacciarmi a sua volta, strappandomi una risata amara. Afferro il sacco che ancora ondeggia e fermo la sua corsa.
«Altrimenti?», la sfido riducendo gli occhi a due fessure che la squadrano da capo a piedi.
«Hai bisogno solo di rilassarti», la sua mano si posa sul mio bicipite, i muscoli si tendono. Mi mordo il labbro inferiore continuando a guardare il suo corpo che chiede solo di essere scopato. Le faccio cenno con il capo di seguirmi. Con l'asciugamano tampono il sudore, mentre con ampie falcate percorro la palestra. I suoi passi mi tallonano e non appena entriamo nello spogliatoio mi volto in uno scatto, premendo il suo corpo sulla porta che si chiude alle sue spalle. Ascolto il suo respiro fermarsi nel momento stesso in cui i miei occhi si scontrano con i suoi. Prendo il suo volto tra l'indice e il pollice, spostandolo di poco, scrutandola con attenzione, poi mi sporgo verso il suo orecchio e posso vedere il cuore pulsare con veemenza nella vena del collo.
«Non ti scoperei nemmeno se fossi l'ultima ragazza rimasta su questa terra. Sei solo un giocattolo, rotto e usato che vuole attenzioni. Quindi...», le giro il volto verso di me, «se non vuoi farti male sul serio, non rompermi più i coglioni!», sibilo a un millimetro dalla sua bocca.
La lascio andare come uno straccio vecchio da buttare.
«Sei uno psicopatico del cazzo!», sbraita. Rido prendendo la felpa dalla sacca per indossarla.
«Forse», rispondo senza guardarla, mentre la porta si apre e sento i suoi passi allontanarsi.
Il vecchio Damon si sarebbe preso tutto ciò che sarebbe stata disposta a dargli, ma non ora; posso anche perdermi in me stesso, ma se c'è una cosa che so, è che non potrei mai vivere senza Allyson.
Pronunciare il suo nome solo nella testa, mi crea una fitta al petto che preme quasi schiacciandomi. Sfilo il cellulare dalla tasca, scorro sulla rubrica e chiamo Cody, forse sono ancora in città. Risponde al primo squillo.
«Ehi, fratello, che succede?», già, che cazzo sta succedendo alla mia vita?
«Sei ancora a Boston?», chiedo allo stesso tempo che mi appresto a uscire da questo posto. Selena mi fulmina con lo sguardo non appena le passo a fianco.
«Sì, è successo qualcosa?», domanda subito allarmato.
«Devo parlarti o credo che impazzirò», confesso a me stesso. Scagliare la mia rabbia contro quel sacco non mi ha reso libero, al contrario mi sento sempre più in trappola, mentre il sole mi acceca non appena metto piede sul marciapiede. «Ricordi il pub di fronte alla palestra quando hai accompagnato Allyson?», spiego.
«Sì», risponde.
«Ti aspetto lì», riaggancio, attraverso la strada ed entro nel locale, prendendo posto nel primo tavolo disponibile. Una cameriera si avvicina per prendere l'ordinazione e questa volta ho davvero bisogno di qualcosa di forte. «Vodka liscia», dico con la gola arsa.
Guardo il display del cellulare dove leggo il suo nome e vorrei chiamarla, ma non riesco, non ora. Non posso ancora credere che non mi abbia detto nulla, che abbia deciso anche per me. E se io l'avessi voluto, se avessi voluto correre il rischio di sapere se avesse o meno aspettato un figlio da me? Cazzo, un figlio da Allyson. Più lo ripeto e più qualcosa si frantuma in mille pezzi; posso sentire le schegge vagare nel mio petto e trafiggerlo, lasciandomi senza respiro. Osservo il drink che mi hanno appena servito e lo afferro con mani tremanti; l'odore travolge i miei sensi e me lo scolo senza pensarci. Brucia nella gola divampando come fuoco.
«Che diamine succede?», Cody si blocca di fronte al tavolino, mentre i suoi occhi osservano il bicchiere che sbatto sul tavolo.
«Siediti», poggia la giacca sulla sedia mantenendo lo sguardo incollato al mio.
«Damon», biascica confuso.
«Cazzo, amico, sono dannato lo sai?», commento prendendomi gioco di me stesso. Sollevo il braccio verso la barista e le faccio cenno di portarcene altri due.
«Che cazzo dici?», rido scivolando con la schiena sulla sedia. «Tutto mi si ritorce contro, ogni cosa mi sfugge e ripiomba nella mia vita come una fottuta tempesta che aspetta solo di spazzarmi via», mi sporgo sul tavolo, la testa si china tra le mani che la sorreggono mentre cerco una spiegazione che non esiste, che nessuno mi darà. «Stavo per avere una figlia da Joselyn e ora non so nemmeno se la potrò mai tenere fra le mie braccia, poi scopro che...», un groppo in gola soffoca tutte le parole che vorrei sputare per quanto brucino come acido sulla mia lingua.
«Cosa hai scoperto?», incalza Cody con tono allarmato.
«Allyson ha saltato alcune pillole e.... e, senza dirmi nulla, per il timore di restare incinta, ha preso la pillola del giorno dopo», solo in quel momento sollevo la testa inchiodando il mio sguardo nel suo. Cody sospira, come se avesse trattenuto il fiato fino a questo momento, e la cameriera ci serve i drink; lascio roteare il ghiaccio nel bicchiere, lo guardo sbattere da un lato all'altro e mi sento esattamente così. La mia vita rimbalza da un casino all'altro senza trovare mai pace. Lo chiamano karma, forse ho seminato così tanto dolore che si sta solo ritorcendo contro di me.
«Cosa le hai detto?», domanda Cody buttando giù un gran sorso di vodka.
«Era da troppo tempo che non le gridavo contro... ho perso la testa. Lei non capisce che siamo noi due e nessun altro. Tra noi non devono esistere segreti... non doveva farlo», sentenzio a muso duro, mentre le labbra bruciano a contatto con l'alcol.
«Amico, la conosci meglio di chiunque altro, mette sempre prima te davanti a tutto. L'ha sempre fatto. Da quando eravamo a Medford, alla tua overdose e ora è al tuo fianco mentre lotti per avere un figlio che hai concepito con un'altra. Devi cercare di capirla», le sue parole mi colpiscono come un pugno alla bocca dello stomaco.
«Non capisci», sibilo tra i denti anche se so che ha ragione, non può capire quello che sto provando in questo preciso istante.
«Allora spiegami, ti ascolto. Sono qui per questo, no? Mi hai rotto le palle e sono corso da te», dice incrociando le braccia al petto, mettendosi comodo sulla sedia.
«Quando ho saputo che sarei diventato padre, stavo impazzendo all'idea che il bambino non sarebbe stato di Allyson; non ho mai provato niente del genere per nessuno. Lei è il centro del mio universo, va oltre l'impossibile, contro ogni limite. Io, Cody, avrei voluto un figlio da lei», ammetto come un folle, ma se mi fermassi a pensare a noi, non potrei vedere futuro migliore che guardarla con in braccio nostro figlio.
«Non ti sembra di correre un po' troppo? Insomma, avrete tutto il tempo della vita», rido per come il tempo non abbia mai giocato una partita a mio favore.
«Non esiste un momento giusto o sbagliato, nessuno può dirti ciò che ti accadrà e quando. Siamo marionette di un destino che decide per noi e io, per una cazzo di volta, vorrei solo avere le redini della mia vita tra le mani», non mi importa se non riesce a capirmi.
«Non fargliene una colpa, Damon, ne sta passando tante e magari non si sentiva pronta. Devi pensare anche a ciò che vuole lei», già, e se lei non volesse un figlio da me? Non ci ho mai pensato. Non ho mai messo in conto che ci saremmo trovati a parlarne così presto, ma trovare quella scatola e pensare all'eventualità, ha cancellato ogni singolo dubbio dalla mia testa. Io voglio avere la famiglia che entrambi non abbiamo mai avuto e la voglio con lei.
Quando torno a casa è ormai buio, sono rimasto seduto in quel pub anche dopo che Cody se n'era andato. Ho guardato la città muoversi sotto il mio sguardo e osservato le persone che trascinavano le loro vite, ma nella mia testa continuava a ripetersi come un disco incantato la stessa domanda: "Lei vorrà mai un figlio da me?".
Il dubbio si è insinuato come un cobra pronto a scagliarsi sulla sua preda... io. Entro, il salotto è illuminato solo dalla luce della tv ancora accesa e il riflesso mi mostra il suo volto, mentre dorme rannicchiata sul divano.
Arranco fino alla poltrona e vi sprofondo, reclinando la testa all'indietro.
Il soffitto gira, ruota insieme a tutti i pensieri.
Riporto la mia attenzione su di lei, alle sue ginocchia piegate verso il petto, ai capelli legati in una coda morbida che si perde oltre le sue spalle ricurve.
Ascolto il suo respiro ed è come se mi raggiungesse e riempisse i miei polmoni.
Poggio i gomiti sulle gambe e continuo con lo sguardo a perdermi in lei; era tutto ciò che non potevo avere e tutto ciò che mi ha reso dipendente a tal punto da non riuscire più nemmeno a riconoscere me stesso.
Ecco perché cercavo in tutti i modi di starle lontano, ma, cazzo, era impossibile. I suoi occhi mi inghiottivano e la sua voce mi rendeva prigioniero.
«Dam...», si stropiccia gli occhi tirandosi su a sedere, «sei tornato», aggiunge incontrando il mio sguardo che, se pur annebbiato dall'alcol, vacilla contro il suo.
«Sì», sibilo tra i denti, lasciando schioccare la lingua contro il palato.
«Hai bevuto?», annuisco senza staccarle gli occhi di dosso. «Stai bene?», scrollo le spalle, perché, no, non sto bene, non sto bene per un cazzo.
«Vorrai mai un figlio da me?», sputo senza pensarci, protraendomi verso di lei.
«Ma cosa stai... stai dicendo?», serro la mascella, affondando con violenza i denti nel labbro inferiore e posso sentire il sapore metallico del sangue sprigionarsi in bocca.
«Quello che ho appena detto», biascico con un gesto della mano che fende l'aria che ci circonda.
«Damon... io voglio tutto da te... e un giorno vorrò anche avere un figlio», il cuore perde un battito. Si alza e viene verso di me, fa per sedersi sul bracciolo della poltrona ma la prendo per il polso e la faccio sedere sulle mie ginocchia; il profumo della sua pelle inebria il mio essere fino in fondo alla mia anima.
«Perché non me l'hai detto?», chiedo aggrottando la fronte, mentre con la mano la cingo in vita. Sono ancora arrabbiato con lei, ma ho bisogno di capire e ho bisogno di lei; non riuscirei a starle lontano nemmeno se volessi.
«Non lo so... ero spaventata, tu hai tante cose a cui pensare e io non volevo essere un ulteriore problema», rido amaramente alle sue parole che, come lame, mi incidono la pelle.
«Cazzo, Al, tu non sei mai stata un problema e mai lo sarai. Cristo, credo che non ti fiderai mai di me», confesso a me stesso frustrato, pensando a come la mia anima dannata si sia presa gioco di quel noi che sembra sempre sfuggirci dalle dita
«Certo che mi fido, è solo che... non lo so...», si stringe nelle spalle. «Stanno succedendo così tante...», troppe cose, vorrei aggiungere, ma la sola che avrebbe davvero cambiato la mia vita si è spezzata in uno schiocco di dita.
«Io l'avrei voluto, Allyson, avrei voluto sperare in una possibilità, in qualcosa che sarebbe stato solo nostro», ammetto con la voce che fuoriesce a fatica, mentre pian piano la lucidità scaccia via ogni goccia di alcol che scorreva nelle mie vene. Il suo sguardo cade sul grembo, dove le mani intrecciate tra loro continuano incessanti a torturarsi; le fermo stringendole nelle mie.
«Non so se farà effetto», sussurra e prendo il suo mento con due dita obbligandola a guardarmi dritta negli occhi.
«Cosa non sai se farà effetto?», chiedo aggrottando la fronte.
«La pillola che ho preso... non è sicuro che faccia effetto dato che ho saltato diverse pillole anticoncezionali», spiega e io inizio a fare ordine tra i pensieri, tra le domande che vorticano scontrandosi l'una con l'altra.
«Mi stai dicendo che potresti comunque rimanere incinta? Stai dicendo questo, piccola?», quasi la supplico, con la speranza di aver capito bene. Annuisce contro i miei occhi che si sgranano come se venissero abbagliati. «Cazzo...», dico senza fiato e la stringo fra le mie braccia.
«Damon, sei... cioè, tu saresti davvero felice se dovessi...?», domanda confusa. Le prendo il volto tra le mani.
«Non abbiamo mai parlato di figli e, sì, abbiamo solo vent'anni e un mucchio di casini. Ma quando ho trovato quella scatola, quando ho pensato, solo per un attimo, a quella piccola possibilità di avere un figlio da te, il cuore ha cessato di battere, facendomi capire che è tutto ciò che desidero», sfugge dalla mia presa, mettendosi a camminare avanti e indietro per la stanza.
«Abbiamo l'università, ci mancano ancora tre anni e io non mi sento pronta, non ho avuto una madre che mi desse il buon esempio. Non sono in grado di prendermi cura di me stessa, figuriamoci di...», parla a raffica, annaspando nel suo stesso respiro, e le sue paure diventano anche le mie. Annullo la distanza che ci separa e mi staglio davanti a lei.
«Non pensiamoci adesso», dico posando le mie mani sulle sue spalle. «Aspettiamo e vediamo. Okay?», chiedo piegandomi sulle ginocchia per scorgere quelle piccole onde nei suoi occhi che si muovono lente ed indifese. «Io e te piccola, solo noi oltre l'impossibile».
Allyson
Mi sveglio accoccolata a lui, le paure in parte si sono dissipate nell'aria come piccoli sbuffi di fumo. Non immaginavo minimamente che lui desiderasse avere un figlio da me proprio ora, in questo momento, dove ancora cerchiamo di restare in piedi con tutto quello che ci è piombato addosso. Guardo la luce filtrare dalla finestra, i primi raggi si specchiano sul pavimento, ma io resto rannicchiata, come se volessi quasi fermare il tempo. Non gli ho chiesto dove era stato per tutto il giorno, le nocche spaccate hanno risposto alla mia domanda. Sento la sua mano calda posarsi sul mio ventre e il respiro si spezza, per come il suo tocco riesce a innescare una scarica elettrica per tutta la spina dorsale che è guidata dai suoi gesti.
«Stai bene, baby?», la voce roca sussurra al mio orecchio.
«Sì», rispondo. Dopo che siamo stati in piedi quasi tutta la notte a parlare, mi sento più tranquilla. Ho messo tra le sue mani tutte le mie insicurezze e, come solo lui ha sempre saputo fare, è riuscito a farle scivolare via; ha soffiato su di loro come se fossero tanti piccoli granelli di polvere, spazzandoli via. Con Damon, ogni cosa è complicata e semplice al tempo stesso. Siamo tutto e niente, gli esatti opposti che si fondono in qualcosa che non puoi spiegare, perché certe emozioni le devi sentire bruciare sulla pelle per capire cosa significano. La sua bocca si posa leggera sulla mia spalla facendomi rabbrividire.
«Ti voglio...», mormora, continuando a baciare la mia pelle scoperta. «Adesso!», biascica in un ordine, facendomi sentire la punta della sua lingua. «Ne ho bisogno», supplica facendomi voltare verso di lui in uno scatto. I muscoli tesi guizzano mentre si poggia sopra di me. La mano mi sposta una ciocca dal volto. «Cazzo, piccola, potrei restare così per ore, a perdermi nei tuoi occhi, in questa bocca...», il pollice si strofina sulle labbra muovendole sotto i suoi gesti lenti, gli occhi saettano dalla mia bocca ai miei occhi e posso leggere il desiderio impresso in quello sguardo che mi brama. «Ti amo», pronuncia sfiorandomi il labbro con la lingua, che senza chiedere il permesso assapora ogni angolo della mia bocca. La sento riconcorrere la mia, prendersi il mio respiro, ingoiare i miei gemiti che incalzano allo stesso tempo che il suo ginocchio si fa spazio tra le mie gambe. Le cingo in vita, mentre le braccia si intrecciano al suo collo muscoloso. Continuiamo a smarrirci in un bacio che regala brividi, che si propagano come fiamme in tutto il corpo, marchiando le nostre anime con promesse silenziose. «Cazzo, piccola», grugnisce appena, staccandosi da me per sfilarmi la maglietta e gettarla in un angolo della stanza.
«Abbiamo... abbiamo lezione», cerco di dire, ma sono ormai prigioniera delle sue mani che scorrono su di me e mi toccano come se fossi la cosa più preziosa al mondo; ruvide, si muovono lente mandandomi in estasi e il corpo vibra, mentre i suoi gesti sanno esattamente cosa desidero... lui.
«Troppo tardi, baby», dice mordendosi il labbro inferiore, allo stesso tempo che con un gesto netto, sento il tessuto della mia biancheria strapparsi attorno alla pelle, facendomi sussultare. «Sei così fottutamente perfetta...», commenta, lasciando che il suo dito indice percorra linee immaginarie lungo il mio ventre che freme. «Ti piace? Oh, piccola, lo so quanto ti piace quando faccio così», si ferma in un punto preciso mozzandomi il fiato in gola, mentre un gemito sfugge dalla mia bocca.
«Dam...», mugolo in balia della libido che inizia a lambire il mio corpo in una tortura lenta e veloce.
«O preferisci così?», continua Damon senza sosta, portandomi in un viaggio verso l'oblio che mi travolge con prepotenza. «Sì, baby, vieni per me», incalza con voce roca a un millimetro dal mio volto; sento il suo respiro solleticarmi mentre esplodo, conficcando le unghie nel suo bicipite. La sua bocca avida si impossessa della mia, ingoiando il suo nome che continuo a ripetere mentre cerco di riprendere contatto con la realtà.
«Damon...», annaspo nel mio stesso respiro mentre lo pronuncio, scandendone ogni sillaba per l'ultima volta. Non ho il tempo di aprire gli occhi che mi fa sua, facendomi inarcare la schiena in uno scatto, mentre le mani stringono in due pugni il lenzuolo.
«Merda», bofonchia con la testa che ricade all'indietro e solo i nostri respiri che incalzano colmano ogni spazio che ci circonda. Ci perdiamo l'uno nell'universo dell'altro, come due tempeste che si scontrano. Ogni cellula si fonde con l'altra diventando un unico centro vitale. Il suo corpo parla mentre mi rivendica, promettendo tutto il suo amore e lasciandomi senza respiro, mentre sulle sue labbra il mio nome gli strappa l'ultimo gemito, facendolo crollare senza più forze contro di me.
Arrivo al campus in ritardo di due ore e Kam mi guarda aggrottando la fronte, con un sorriso malizioso che compare sul suo volto.
«Non ti è suonata la sveglia, principessa?», dice mentre lo raggiungo nel corridoio e ci dirigiamo a lezione.
«Sì», rispondo cercando il quaderno degli appunti di filosofia.
«Bugiarda, hai fatto sesso selvaggio di prima mattina», commenta dandomi una leggera spinta. Roteo gli occhi al cielo.
«Pensi solo a quello», lo rimprovero.
«Io?», dice toccandosi il petto, per poi scoppiare in una fragorosa risata.
«Smettila di ridere!», esclamo senza riuscire a trattenermi e ridere a mia volta. «Devo parlarti di una cosa», mi fermo di colpo e Kam fa lo stesso, incrociando il mio sguardo. Non ho avuto modo di raccontargli cosa è successo sabato, quindi, cerco di fargli un resoconto il più conciso possibile.
«Mi stai dicendo che lui vorrebbe un figlio da te, ora?», sgrana gli occhi così tanto che temo possano uscirgli fuori dalle orbite. Pesto un pugno contro il suo petto.
«Puoi evitare di farlo sapere a tutto il campus?», dico. «Comunque, sì, è così, ma abbiamo deciso di aspettare che sia il destino a scegliere per noi. Se la pillola che ho preso farà effetto, attenderemo tempi migliori, ma se ciò non accadesse...», la voce trema mentre ripenso a tutte le sue parole, che hanno accarezzato e cullato il mio cuore. «Lo vorremo entrambi, in realtà», dirlo ad alta voce è strano, ma pensare di poter aspettare un figlio da lui riesce a farmi sentire le farfalle nello stomaco.
«Sei pazza, principessa, non posso dirti altro. Insomma, tra l'università e i casini di Sanders, credo che avere un bambino sia l'ultima cosa che ti serva», commenta spiazzandomi. Non pretendevo che la pensasse come noi, ma avrebbe fatto piacere avere il suo sostegno.
«Ormai dovresti saperlo che la nostra unione crea solo scompiglio, è la storia della nostra vita», il cuore martella nel petto. Forte. «Ma sai cosa ti dico? Non mi importa se saremo o meno pronti, io e Dam ce la faremo», l'oltrepasso per dirigermi in aula, ma il peso delle parole del mio migliore amico grava su tutte le mie insicurezze, che riaffiorano come fantasmi.
Non siamo pronti? Chi può dire di esserlo finché non si trova davanti a ciò che deve affrontare?
«Non volevo essere... cazzo, Allyson, sono solo preoccupato», ammette prendendo posto al mio fianco. Mi volto verso di lui, allo stesso tempo che tiro fuori dalla borsa il mio laptop.
«Lo sono anch'io, cosa credi? Ma con Damon è tutto così... così diverso e ciò che mi spaventa riesce a spingermi a essere più forte. Lui mi ha cambiata».
Ed è vero, Damon Sanders è stato il mio veleno, che senza saperlo mi scorreva silente nelle vene; è stato anche il mio antidoto, che ha curato le ferite che la sua anima dannata ha inflitto alla mia. Ci siamo salvati a vicenda, entrambi abbiamo mostrato all'altro una luce diversa che si stagliava sul nostro cammino. E se sono certa di una cosa, è che ciò che proviamo non può essere espresso a parole. Il nostro cuore non ha conosciuto regole o limiti che l'amore non abbia saputo infrangere. Ora voglio solo vivere in serenità i prossimi giorni, in attesa di sapere; solo in quel momento, insieme, sapremo quali saranno i nostri prossimi passi.
Damon
Venerdì
La settimana è volata come al solito da quando questo incubo senza fine è iniziato. Allyson era dispiaciuta per Kam, che non comprende le nostre scelte, ma non dobbiamo dare spiegazioni a nessuno. Solo io e lei possiamo decidere della nostra vita e, anche se posso capire le sue preoccupazioni, non farei mai qualcosa che possa nuocere ad Al.
Il passato forse continuerà a rincorrermi, ricordandomi cosa le ho fatto passare, ma per me sarà una sfida rimpiazzare tutte quelle lacrime con un sorriso che faccia da protagonista alle nostre giornate. Arriviamo in aula, la mano di Al è intrecciata alla mia.
È l'ultimo giorno, oggi saprò se mi verrà data la possibilità di essere un padre per mia figlia. Derek mi rassicura come sempre con il suo sguardo, mentre prendiamo posto. Intravedo mio padre, ci scambiamo qualche occhiata e mi siedo in attesa che la giuria e il giudice Kinley facciano il loro ingresso.
«Inizieremo noi, con la testimonianza di Parker», spiega Derek, controllando le carte che ha appena estratto dalla sua ventiquattrore.
Il nodo alla cravatta mi sembra quasi un cappio al collo mentre cerco invano di respirare. Ci alziamo in piedi e non posso fare a meno di osservare tutti i volti dei giurati, le persone che hanno provato a leggere la mia anima senza riuscirci e alle quali è stato messo tra le mani il mio destino. Il giudice ci invita a sederci e Derek si avvicina per far mettere agli atti la testimonianza di mio padre. Il solo pensiero mi provoca una fitta alla tempia che quasi mi stordisce. La sua realtà di padre è annichilita dal rancore per avermi lasciato e abbandonato a me stesso.
I Sanchez parlano animatamente, vedo Alec serrare la mascella allo stesso tempo che strofina i palmi delle mani sui jeans.
«Christian Parker al banco dei testimoni», esorta il cancelliere. L'uomo che mi ha messo al mondo, con il suo completo raffinato, si siede dopo aver giurato sulla Bibbia.
«Lei è il padre di Damon Sanders?», chiede in modo semplice Derek. Non credo sia facile per lui guardare l'uomo che ora vive con la sola donna che abbia mai amato.
«Sì. È mio figlio», lo stomaco si contorce e trattengo a stento una risata amara.
«Può spiegare alla giuria perché non porta il suo cognome?», la fronte si aggrotta e il suo sguardo si perde nel grembo. «Ho tradito la fiducia dei miei figli, ma Damon ha scontato il prezzo più grande...», la voce gli si incrina mentre cerca di incrociare i miei occhi, che senza esitare gli nego, perdendomi nelle mattonelle che rivestono il pavimento. «L'ho abbandonato quando Arleen, sua sorella, lottava in un letto di ospedale tra la vita e la morte in seguito a un incidente stradale. Damon si è preso cura di lei, è stato lui a lottare perché potesse riacquistare la memoria, Facendola ricoverare in una clinica specializzata di Indianapolis», annaspo mentre quelle ferite si lacerano ancora una volta e tutto si materializza davanti ai miei occhi.
«Quanti anni aveva Damon all'epoca?», domanda Derek, il suo sguardo si sposta sulla giuria che pende dalle labbra di mio padre.
«Solo sedici anni e mezzo, era solo un ragazzino», ammette per la prima volta a sé stesso.
«Un ragazzino che ha saputo occuparsi di una sorella malata, affetta da perdita di memoria a breve termine», Derek viene verso di me, afferra dei documenti e li porge al giudice. Sono i fogli che certificano il ricovero di mia sorella. Mi volto per guardarla, al fianco di Cody, ha gli occhi colmi di lacrime; mi sorride e io faccio lo stesso, annuendo con la testa.
«Obiezione, non è inerente al processo questa documentazione», esclama l'avvocato Cooper scattando in piedi.
«Respinta», ribatte il giudice.
«Giurati, è questo il padre al quale volete negare di occuparsi di sua figlia? Non ho altre domande», Derek torna a sedersi, mentre Cooper punta dritto verso mio padre.
«Lei non ha quindi nessun legame con il signor Sanders?», chiede, tamburellando le dita contro il legno del banco dei testimoni.
«Non più», Cooper abbozza un sorriso soddisfatto.
«Quindi questo non potrebbe essere un tentativo per rientrare nelle grazie di suo figlio, aiutandolo in questo momento?», Derek sbatte i palmi delle mani sul banco.
«Obiezione, si sta influenzando la giuria», accusa.
«Accolta. Avvocato Cooper, è la seconda volta che la riprendo in questo processo per le sue illazioni, non ci sarà una terza», l'avverte il giudice.
«Signor Parker, perché è qui?», non riesco a capire la domanda che gli pone.
Derek si sporge verso il mio orecchio vedendomi confuso: «Lo sta spingendo ad ammettere che ti sta aiutando. Bastardo...», spiega scuotendo il capo con disapprovazione.
«Perché non voglio che quella bambina debba crescere senza un padre, nessuno merita una cosa simile. Io ho perso mio figlio, anche se in questo momento è proprio qui davanti a me», la mascella si contrae, schioccando al suono di quelle parole, inarco un sopracciglio mentre inchiodo il mio sguardo su di lui.
«Non ho altre domande. Chiamo al banco Alec Sanchez», esorta Cooper, con i nervi del collo che si tendono dal nervoso per non essere riuscito nel suo intento. Mio padre passa di fianco a noi e Derek annuisce per ringraziarlo; io gli ho già detto tutto quello che doveva sapere. Non gli ho chiesto io di testimoniare e non gli dirò grazie per essere venuto qui dopo quasi quattro anni nei quali ho cessato di esistere per lui. Alec arranca verso il banco con le spalle ricurve; non ci siamo più parlati dalla settimana prima dell'inizio del processo. Guardo oltre la mia spalla incontrando lo sguardo di Cody e poi torno a fissare il mio più grande rivale. Tra me e lui si è innescata una sfida senza limiti, una corsa senza regole, nella quale ci siamo lasciati sopraffare dal rancore reciproco per ciò che le nostre scelte sbagliate hanno messo sul nostro cammino. «Che rapporti ha con il signor Sanders?», chiede Cooper, sfoggiando un sorriso beffardo mentre punta il suo sguardo su di me.
«Damon è il padre di mia nipote», sibila Alec tra i denti e lo stridio della sedia ci fa voltare tutti verso lo sceriffo Sanchez, in piedi con i pugni stretti lungo il corpo.
«Come, scusi?», domanda confuso dalla risposta Cooper, mentre il giudice invita il signor Sanchez a sedersi.
«Ha sentito bene, Damon è il padre di mia nipote. Mia sorella ha causato l'incidente nel quale è rimasta vittima e stiamo solo cercando un colpevole che non esiste», sputa scattando in piedi. Resto senza fiato, come se fossi rimasto in apnea da quando la sua bocca ha preso a muoversi.
Lo squillo di un telefono spezza il silenzio che è calato per tutta la stanza, come una nebbia fitta nella quale il sole non riesce a filtrare.
«Stiamo arrivando!», esclama Sanchez con le lacrime agli occhi. Scuoto il capo. «Joselyn... Joselyn... Joselyn», ripete guardando suo figlio che gli corre incontro.
Mi alzo e Derek prova a fermarmi: «C'è il mandato, Damon», mi ricorda.
«Devo andare!», tuono mentre Allyson si avvicina.
«Vai, noi ti raggiungiamo lì», dice mentre raggiungo Alec.
Il giudice, in tutto quel trambusto, resta in silenzio, spettatrice del caos che si lega alle nostre vite. Derek e Cooper restano in aula per l'esito dell'udienza.
«Vengo con te!», non glielo sto di certo chiedendo.
«No, tu no...», cerca di dire lo sceriffo, ma Alec si staglia contro di lui.
«Smettila!», sbraita. «Tua figlia è morta, ora prega che si salvi almeno tua nipote; pensa a questo e a nient'altro», sputa oltrepassandolo con una spallata.
Con ampie falcate raggiugiamo il parcheggio, Alec mi porge il casco quando siamo di fronte alla sua moto.
«Grazie», dico, ci guardiamo per una frazione di secondi in cui lui non proferisce parola, dopodiché saliamo in sella.
Dà gas facendo impennare la moto mentre ci immettiamo nel traffico, facendo lo slalom tra le macchine sino a raggiungere il sottopassaggio sul Mystic River. Mi aggrappo a lui, con il cuore che salta in gola mentre ogni pensiero più cupo prende vita nella mia mente. Penso a Joselyn, al suo corpo che se ne sta andando e alla nostra bambina che deve riuscire a farcela. "Non può prendersi anche lei", urlo nella mia anima, verso un Dio che non ho mai pregato.
Arriviamo all'ospedale per primi, ci fondiamo verso le porte automatiche e raggiungiamo il piano della rianimazione.
«Sanchez, Joselyn Sanchez», chiede Alec a un'infermiera con la voce strozzata.
«Le stanno facendo un cesareo d'urgenza».
I piedi si ramificano al suolo. Il cuore cessa di battere per qualche secondo, mentre la paura scorre e pulsa prepotente nelle vene. Ci trasciniamo in silenzio verso il piano della ginecologia, dove ci sediamo in attesa che qualcuno venga a darci notizie.
«Lei non morirà», esclama Alec con la voce intrisa dal dolore. Il tempo scorre lento sulle nostre teste, allo stesso tempo che arrivano anche lo sceriffo e sua moglie. Alec li raggiunge per spiegargli la situazione e io resto in disparte, rispettando il loro dolore.
Joselyn se ne sta andando, anche se una parte di lei non era già più qui con noi, ma sapere che il suo corpo sta cessando di vivere rende tutto più reale, più vero. Vorrei che fosse solo un brutto sogno, vorrei che non si fosse mai avvicinata a me. Dovevo essere una persona diversa, migliore, ma la realtà è che non lo ero.
Un medico esce dalle porte della sala operatoria, scatto in piedi d'istinto e cerco di ascoltare gli stralci della conversazione. La signora Sanchez crolla a terra, Alec cerca di sostenerla mentre le sue lacrime graffiano contro il mio corpo dando vita ad un'altra cicatrice da portare.
«La bambina è nell'incubatrice, è nata qualche giorno prima del previsto; ora dobbiamo solo aspettare che sia forte abbastanza per continuare a crescere e svilupparsi», spiega il medico, porgendo di seguito le sue condoglianze che rimbalzano nella mia testa annebbiandomi la vista. Crollo a sedere sulla sedia alle mie spalle, le mani tremano e le stringo in due pugni sentendo le unghie conficcarsi nella pelle.
«Possiamo... possiamo vederla?», chiede lo sceriffo e io chiudo gli occhi, consapevole di dover restare lì senza poter vedere quel minuscolo corpicino... mia figlia. Il medico accompagna i Sanchez e Alec li segue dopo esserci scambiati un'occhiata alla quale annuisco.
Mi alzo e vado verso un'infermiera: «Potrei vedere Joselyn Sanchez?», supplico contro quegli occhi color nocciola che mi scrutano.
«Lei è un parente?», chiede.
«Sono il padre della bambina che portava in grembo. La prego, devo vederla», si guarda attorno, poi mi accompagna verso un lungo corridoio e oltrepassa le porte automatiche.
«Aspetti qui», dice prima di aprire una porta e scomparire dietro di essa. Le mani sudano, l'aria viene risucchiata in uno schiocco di dita lasciandomi soffocare in balia delle emozioni che si cuciono su di me. «Venga, ha solo due minuti», annuisco entrando nella stanza, ma mi fermo sui miei passi non appena gli occhi cadono sul letto situato al centro. Vacillo, mentre la raggiungo, e le lacrime solcano il mio viso quasi lacerandolo per la prepotenza con la quale scorrono. La mano si posa sul lenzuolo che l'avvolge risalendo lungo il suo corpo inerme.
«Perdonami!», grido, accarezzando il suo volto con mani tremanti. «Perdonami, Jo... perdonami...», ripeto sentendo la sua pelle fredda ghiacciarmi fino in fondo all'anima. «M-i prenderò... mi prenderò cura di lei», le prometto, continuando a guardare il suo volto che riposerà per sempre, portandosi via con lei i tormenti che insieme abbiamo vissuto. Mi protendo su di lei, chiudo gli occhi e le poso un ultimo bacio sulla fronte. «Addio, Jo», mormoro, poi mi volto e arranco fino alla porta, dove mi giro un'ultima volta a guardarla con la vista annebbiata dalle troppe lacrime. Esco dalla stanza, lasciandomi scivolare lungo il muro, fino a sedermi a terra con le ginocchia tirate verso il petto e lo sguardo smarrito contro la parete bianca di fronte a me. Non è una tela sulla quale posso dipingere un finale diverso da questo. Non posso cancellare né il dolore né la sua assenza, come non posso porre rimedio ai miei errori.
«Damon», lentamente seguo il suono della voce che arriva ovatta alle mie orecchie. «Damon», ripete, fino a scorgere Allyson correre nella mia direzione e crollare di fronte a me.
«Se ne è andata per sempre...», sibilo. Le sue braccia mi avvolgono e lascio che ogni emozione lasci il mio corpo.
«Ce l'hai fatta», sussurra al mio orecchio. Mi stacco da lei aggrottando la fronte. «Hai vinto, Damon, hai l'affido esclusivo della bambina», spiega accarezzando la mia guancia. Scuoto il capo incredulo.
«Lei è mia... lei è mia?», domando frastornato. Al annuisce, mi aiuta ad alzarmi e raggiungiamo Derek e gli altri nella sala d'aspetto. Mia madre viene verso di me.
«Vai da tua figlia», dice tenendomi per le spalle. «Va'», ripete. Mi asciugo le lacrime deglutendo a fatica.
«I Sanchez sono già stati avvisati», dice Derek, porgendomi la mano per stringerla.
«Io non so come...», scuote il capo in segno di diniego.
«Non ora, adesso vai, quella bambina ha bisogno di te».
Annuisco e afferro Al per mano: «Mi accompagni?», le chiedo.
«Certo», risponde e a piccoli passi, quasi in punta di piedi, vado a conoscere il mio futuro. Vedo i Sanchez alla fine del corridoio. Ci guardiamo solo per un secondo e quando sto per bussare alla porta, mi volto verso di loro.
«Lei è vostra nipote, non vi impedirò mai di vederla, ha perso già sua madre e merita tutto l'amore che possiamo darle», Alec mi sorride con il volto straziato. Al stringe la sua presa attorno alla mia mano e io faccio un respiro profondo mentre la porta si apre.
«Lei è?», chiede il medico.
«Sono il padre», dico, pronunciando quelle parole per la prima volta. Si sposta per lasciarmi il passo, solo un vetro mi separa da lei. «Metta questo», indosso il camice, i guanti e avanzo verso la piccola stanza.
«Come sta?», chiedo mentre annullo le distanze che ci separano.
«Sta lottando», dice il medico. «Queste saranno settimane cruciali, i polmoni sono appena sviluppati e ogni ora che passerà, ogni giorno, sarà una speranza in più che si possa affacciare alla vita. Metta le mani qui», mi indica due fori nell'incubatrice. Infilo le mani mentre cerco di scorgere il suo piccolo volto, il cuore si stringe in una morsa, mentre piccoli tubicini escono dal suo corpicino minuto.
«Ehi... sono qui, piccola, papà è qui. Sei una Sanders, devi lottare, combatti perché noi ce la faremo», dico accarezzando le sue piccole mani strette in due pugni. «Sì, così, piccola mia, tieni duro», la supplico, mentre i miei occhi non smettono di essere già stregati da lei... la mia bambina. Mi giro verso il vetro, dove vedo Allyson con i palmi delle mani poggiati sopra e le guance rigate dalle lacrime. Resto ancora un po' con lei, cercando di realizzare che lei è mia, è sangue del mio sangue. Quando torno nel corridoio, il medico ha in mano dei moduli.
«Come vuole chiamarla?», chiede inforcando una penna dal suo taschino per scrivere.
Incateno gli occhi ad Allyson che sorride, ha saputo leggermi dentro senza bisogno di parole. Mi volto verso il medico.
«Cindy... Cindy Sanders», dico senza pensarci due volte, in memoria della mia migliore amica che, come un angelo, possa vegliare su di lei.
«Cindy è perfetto, Dam», biascica Al.
L'attiro a me, stringendola in un abbraccio mentre i miei occhi si posano ancora una volta su mia figlia: «Sì, è perfetto».
SPAZIO XOXO
I'm back.
Scusate ma è stato davvero un periodaccio, ma per farmi perdonare spero che questo mega capitolo vi sia piaciuto
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