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Capitolo 13 Damon

Studio i due ragazzi schierati di fronte: sono entrambi ben piazzati, il primo mi sovrasta di una testa, spalle larghe di chi conosce il suono di un pugno ben assestato; nel mentre, cerco di sentire ogni minimo movimento alle mie spalle.

Non è di certo la prima volta che mi trovo in una situazione del genere, sono state le risse a farmi arrivare alle lotte. Combattere era una via di fuga, una liberazione, un modo per ferire ed essere ferito.

Provare dolore mi risvegliava dal mio stato di trance, l'adrenalina drogava lentamente le mie vene chiedendone sempre di più e, ogni volta, diventava più facile spingersi oltre.

«Allora, che problemi avete?», li sfido, assottigliando lo sguardo, e voltandomi oltre la mia spalla verso gli altri due che sogghignano. Il più alto fa un passo verso di me, non lo vedo bene in volto nella penombra della via sprovvista di lampioni. Ed è un vero peccato non poter vedere il suo volto tumefatto, quando il mio pugno entrerà in collisione con il suo viso spigoloso.

«Non ci è piaciuto come hai trattato nostra sorella!», ringhia con tono quasi gelido e soffoco una risata, ripensando al saluto di Selena. C'è lei dietro a tutto questo. «Hai sentito?», incalza l'altro, affiancandosi a quello che suppongo sia il fratello. Ricordo il primo giorno in quella palestra, quando Selena mi ha raccontato di avere dei fratelli che combattevano; per questo non le è stato difficile riconoscere in me la stessa furia distruttiva. Ma la piccola stronza non ha capito un cazzo. Io non combattevo su un ring regolare, io ero prigioniero in una gabbia senza regole. Non immagina, come non l'immaginano i suoi poveri fratelli, cosa sono in grado di fare.

«Oh... capisco che siate incazzati perché non mi sono voluto sbattere vostra sorella», ghigno e il più alto, alla mia sinistra, si scaglia contro di me Mi piego sulle ginocchia, il suo peso da novanta chili preme sulla spalla, ma lo sollevo facendolo cadere all'indietro oltre la mia schiena.

Il tonfo che produce sembra farmi prudere ancora di più le mani. Un gancio inaspettato colpisce il mio viso, barcollo arretrando di un passo, e il sapore metallico del sangue si disperde nella bocca, fino a scivolare nella gola; brucia come il resto del mio corpo che viene avvolto dalle fiamme di un inferno al quale do vita senza pensarci. «Tutto qui quello che sapete fare?», incalzo, mentre mi pulisco il sangue dal labbro con il dorso della mano. Si muovono tutti e quattro contro di me; li studio, fisso lo scintillio che riesco appena a scorgere, per capire che sono senza palle e dovranno tenermi fermo se vogliono darmele.

«Ti sei appena scavato la fossa da solo, Sanders», minaccia uno di loro. Rido, non immagina quanto sia stato profondo per me quel fosso, nel quale ho seppellito me stesso per anni. Scatto in avanti, mosso solo dal dolore che ha contaminato il mio corpo e la mia vita per troppo tempo. Pesto i pugni, ricevo qualche calcio all'altezza del costato, che mi fa piegare, e non perdono tempo per scagliarsi contro di me. Incasso, so resistere a qualche colpo che provoca in me quel piacevole dolore che avevo quasi rimosso, e non appena riesco a trovare un varco, mi fiondo su uno di loro. Lo afferro per il colletto della giacca, con una testata lo mando a sbattere contro il fratello al suo fianco e il mio gomito entra in collisione con il suo volto, allo stesso tempo che con un calcio in pieno addome allontano il terzo coglione facendolo crollare al suolo.

Il piede, questa volta, raggiunge il suo viso senta pietà. Il rumore prodotto dalle ossa rotte del suo naso è una scarica di adrenalina pura che mi acceca la vista.

Con passo deciso raggiungo il quarto, mentre gli altri tre sono ancora intontiti.

«Scappi?», chiedo mentre osservo il suo corpo retrocedere. Sorrido, beffandomi della sua espressione terrorizzata, perché io stesso in questo momento ho paura di me stesso. La pelle strappata sulle nocche, il bruciore dei muscoli tesi e il sangue che pulsa talmente forte nelle vene, rimbomba nella mia testa.

Sto perdendo il controllo, ricordo a me stesso.

Lo squillo del mio cellulare, quella suoneria, quella di Allyson, illumina questa strada buia dove le mie mani sono ormai strette attorno al collo del ragazzo, braccato sotto il peso del mio corpo.

Lascio la presa in uno scatto e mi volto verso gli altri che si stanno tirando in piedi.

Penso ad Al, al nostro bambino e a Cindy. Inclino il capo e li osservo disorientato. «Non fatevi più vedere o la prossima volta non mi fermerò», restano ghiacciati dalle mie parole, inchiodati al suolo sul quale li ho stesi. Raccolgo la sacca con il suono soffocato del ragazzo che cerca di riprendere fiato. Non mi volto, non sarebbero così folli da seguirmi, mentre io, al contrario, sono stato così pazzo da spingermi oltre un confine che non ho mai oltrepassato. «Merda, potevo ucciderlo!», commento aggrottando la fronte, schifato dalle mie azioni, nello stesso momento in cui il cellulare cessa di suonare.

Non posso risponderle in questo momento.

Punto dritto alla macchina, devo tornare a casa il prima possibile senza fare alcuna sosta. In queste condizioni non mi farebbero nemmeno entrare in un locale, dico a me stesso, osservando le mani che si aggrappano al volante mentre rivoli di sangue scorrono indisturbati.

Inizio a pensare ad Allyson, ai suoi occhi quando rivedranno in me una parte di un passato che ci siamo lasciati entrambi alle spalle, e la fitta al petto mi opprime a tal punto da lasciarmi senza respiro. Posteggio e non perdo tempo a salire fino al nostro appartamento.

Osservo la maniglia come se bruciasse, allo stesso modo in cui sono bruciati tutti i miei pensieri quando ero in quel vicolo, riducendoli in cenere. Entro con lo sguardo chino, rivolto al pavimento, dove piccole gocce di sangue lo imbrattano sbattendomi in faccia la realtà.

«Ti avevo avvertito che se non avessi portato del cibo...», le parole le muoiono in gola, sento il suo sguardo bucarmi il petto per come mi sta fissando e solo in quel momento decido di affrontare la tempesta dei suoi occhi. «Damon!», il mio nome esce quasi come un grido, la mano cerca di soffocare il terrore che trapassa il suo volto sconcertato. Lascio chiudere la porta alle mie spalle.

«In un vicolo ho trovato quattro ragazzi che mi aspettavano», lo so cosa dicono i suoi occhi, ho visto cosa ha pensato la sua mente. «Non ho combattuto, come pensi, ho solo cercato di salvarmi il culo», aggiungo in un sospiro sommesso, che è il solo suono che riesce a circondarci in questo momento, mentre ce ne stiamo in piedi uno di fronte all'altro.

«Perché... cosa... cosa volevano da te?», balbetta facendo un passo verso di me, la sua mano si solleva per toccarmi il volto, ma mi scosto, non so nemmeno se il sangue che ho addosso sia mio o di qualcun altro.

«I fratelli di Selena», rispondo senza esitare. Le bugie e i sotterfugi ci hanno sempre portati lontani l'uno dall'altro, hanno innalzato muri che diventavano sempre più difficili da abbattere. «Deve essersi incazzata perché l'ho rifiutata e ha pensato bene di aizzarmi contro i fratellini». Il corpo prende a tremare, l'adrenalina inizia ad allentare la sua presa, lasciandomi vulnerabile a me stesso. Al scuote il capo incredula. Mi chino sulle ginocchia, solo perché i miei occhi si incatenino ai suoi. «Ho bisogno di una doccia, e poi... poi, se vorrai ancora parlarne, ne parleremo», la rassicuro, ma una lacrima che scivola sulla sua guancia mi mozza il fiato in gola, lasciandomi senza respiro.

«Stai bene? Tu stai bene?», l'allerta nella sua voce spezza tutto il mio autocontrollo e i propositi di tenerla lontano dallo schifo che ancora una volta ha imbrattato il mio corpo. L'attiro a me, poso un bacio sulla sua testa, ispirando il suo profumo che mi lascia libero di tornare a respirare.

«Sto bene. Io sto bene, loro un po' meno», ma forse questo commento era meglio che me lo risparmiassi, visto che arretra di un passo.

Ravviandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, dice: «Ora è meglio se vai a farti la doccia».

Non proferisco parola, prendo la delusione che mi trascina con il culo per terra e strascico i piedi fino al bagno. Mi chiudo nel vapore che emette l'acqua calda, immergendomi con tutti i casini che sento ancora una volta implodermi nella testa. Le mani si serrano in due pugni, la mascella si contrae, reprimendo quello che sento ancora scorrermi dentro. Guardo l'acqua che si colora di rosso e si perde nello scarico, portandosi via una serata che mi ha ricordato ancora una volta chi sono. Non riesco a negare a me stesso di essermi sentito libero, come se ogni ombra e ogni fottuto casino si fosse dissolto in quel vicolo, su quei volti che entravano in collisione con il mio pugno. Non sentivo nulla e non vedevo niente, accecato dalla furia di me stesso. Sono ancora questo, Damon Sanders è ancora un'anima dannata? La domanda preme contro le tempie mentre l'acqua, ormai gelida, scivola lungo la mia schiena; lo sguardo fisso a terra si perde insieme allo scrosciare che rimbomba nelle orecchie.

«Damon?», chiudo l'acqua e mi affretto a uscire dalla doccia. Allyson, con indosso una mia maglia, è sulla soglia della porta, i suoi occhi non si spostano dai miei. «È arrivata la pizza», si limita a dire, prima di tornare in salotto.

Mi asciugo, metto un pantalone della tuta che mi cala sui fianchi e resto a torso nudo, perché i lividi che iniziano a formarsi sul costato sfregherebbero sul tessuto, dandomi solo fastidio.

La trovo seduta sul divano con le gambe incrociate, mi dirigo al frigo e prendo una birra, perché ho bisogno di alcol; sento solo un cazzo di turbinio di emozioni prendersi gioco di me. Siedo al suo fianco, sembra essere concentrata sul programma televisivo che viene trasmesso, ma sono sicuro che non sta ascoltando una sola parola.

«Non ti sei coperta la bocca per come è ridotto il mio volto», esclamo, portandomi alle labbra la birra, il gusto dolce amaro scivola lungo la gola solleticandola. Mi sono guardato allo specchio e, a parte lo zigomo spaccato e il labbro, non ho niente.

«C-cosa vuoi dire?», mi giro verso di lei. Il suo profilo trema come una foglia al vento e sono stato io a ridurla così.

«Guardami», cerco di tenere il tono il più calmo possibile, ma non glielo sto chiedendo, perché la mia testa sta gridando affinché lei lo faccia.

«Che c'è?», chiede con voce strozzata.

«Cosa hai visto?», il suo sguardo non è sorpreso alla mia domanda, sa bene cosa le sto chiedendo, come sa che solo lei può darmi una risposta.

«Non lo vuoi sapere davvero cosa ho visto», ribatte stringendosi nelle spalle.

«Non ti dico cazzate, pestare quei pezzi di merda non mi ha fatto sentire in colpa, ma i tuoi occhi...», faccio una pausa in cerca di aria, «il tuo sguardo mi ha trapassato, togliendomi il suolo da sotto i piedi». Ho visto in quel grigio-azzurro tutto ciò che ero prima, prima che il mio cuore riprendesse a battere, prima che sentissi lo stomaco prendere vita da solo, prima che il mio corpo si ribellasse alla mia ragione, desideroso di avere solo lei. Tutto ciò che non avrei mai potuto avere. La persona che è diventata la mia dipendenza più grande, dalla quale non esiste overdose. Perché sarebbe come morire e rinascere ogni volta per un suo sorriso.

«Il tuo sguardo, Damon, non era... non era il tuo», confessa in un sussurro che artiglia la mia vita incasinata.

«Al...», sospiro. Cazzo! Odio vederla così fragile. «Una parte di me sarà sempre la stessa che hai conosciuto mesi fa. Quel mondo ha fatto parte di me per così tanto tempo che...», mi passo una mano tra i capelli ancora umidi, «che è difficile liberarsene. Stasera o le prendevo, o mi difendevo. Ho scelto di tornare tutto intero da te. Allyson...», la osservo perdersi nelle mie parole, che a fatica riesco a pronunciare.

«Non voglio che torni...», scatto verso di lei, posando il dito sulla sua bocca carnosa per evitare che lo dica; io posso pensarlo, ma sentirlo dire da lei è tutt'altra cosa.

«Non succederà», prometto accarezzando la sua guancia, i suoi occhi si socchiudono chiedendo di più. Scivolo lungo il collo sfiorando la sua pelle che rabbrividisce al mio tocco. «Non tornerò più come prima», ripeto, come se stessi salvando me stesso. Quando la sua mano preme sul fianco, trattengo il fiato.

«Ti hanno fatto molto male?», non lo sta chiedendo, perché i suoi occhi sono puntati sulla parte violacea.

«Non quanto mi ha fatto male vederti terrorizzata», confesso, premendo la mano sul suo ventre. «Siete tutto ciò che voglio e non farei mai niente per rovinarlo», la sua bocca piomba sulla mia, lasciando che le sue labbra morbide accolgano le mie in un gioco di movimenti lenti e tormentati. La tiro per i fianchi, facendola salire a cavalcioni. Geme, come i nostri corpi si sfiorano appena. Ingoio quel suono non avendone abbastanza. «Piccola...», ansimo contro la sua bocca perfetta. I suoi fianchi si dimenano affamati e la libido scorre veloce. «Cazzo!», grugnisco tirandomi in piedi, ma non per condurla su un letto comodo, no, non stasera, non posso resistere un secondo di più.

«Ti voglio», implora contro il mio orecchio, la sua lingua danza attorno al lobo assaporandolo.

«Ti darò tutto ciò che vuoi», prometto con tono roco, facendola sedere sul piano in marmo della cucina. Faccio un passo indietro, passandomi la punta della lingua tra le labbra, ammirandola in quella posizione che la tiene completamente esposta ai miei occhi, che la bramano come la prima volta e come se potesse essere l'ultima. È questo il desiderio che sento crescere. Smarrirmi in lei mi fa perdere il controllo, lasciandomi sospeso nel nulla.

Con la sola volontà di possederla fino in fondo alla sua anima, dove la mia mette radici che nessuno potrà mai sradicare. «Baby, guarda cosa mi fa il tuo sguardo», lascio scivolare i pantaloni della tuta lungo le gambe, liberando la parte di me che pulsa frenetica per lei.

I suoi occhi si posano dove voglio, prendo a giocarci con movimenti lenti mentre i miei occhi sono inchiodati su di lei. «Spogliati», sussurro stringendo di più la presa, che mi strappa un grugnito quasi esasperato. Le sue mani sfilano la maglia che cade a terra, scivola lentamente lungo le mutandine che vorrei strapparle di dosso. Se c'è qualcosa che può rimettere insieme i pezzi di me stesso, in questo momento, è solo lei. La raggiungo, non resistendo più all'impulso di averla, di possederla.

«Dam...» mugola in un gemito sommesso, le mani affondano sulla mia spalla allo stesso tempo che la faccio mia, inarcando la schiena, perché ogni parte di me possa essere rapita nel suo mondo. Brividi scorrono sulla mia spina dorsale e posso sentire la sua anima cucirsi alla mia.

«Oh... baby», è tutto quello che riesco a dire mentre il calore del suo corpo avvolge il mio, in una morsa che mi strattona violentemente dalla realtà. La sua bocca che cattura la mia mi fa quasi cedere le gambe, mentre posso sentire un milione di pezzi che si incastrano. Lei ha questo potere, cura le mie ferite, scaccia i miei demoni e mi ricorda la persona che ero e ciò che sono. Appartengo a lei con ogni cellula del mio corpo, che si sta frantumando senza opporre resistenza al suo volere.

«Damon... Damon», ripete annaspando in cerca d'aria.

«Vieni, piccola...», supplico, inseguendo il mio nome che esplode sulla sua bocca perfetta, che mi reclama e mi rivendica come suo, riducendomi in poltiglia. Il controllo si dissolve e non esistono altro che i nostri respiri a solleticare i nostri volti poggiati l'uno contro l'altro.

«Ti amo», mormora e la stringo a me, con il terrore di svegliarmi un giorno dal sogno che Allyson Evans ha creato nella mia vita.

«Scusami», chiedo con vergogna. La sua testa non si stacca dal mio petto, mentre sono ancora in piedi tra le sue gambe.

«Va tutto bene, Damon, non tornerai a essere come un tempo», sembra una promessa alla quale non intende rinunciare e mi aggrappo a lei. La speranza che ho visto solo nei suoi occhi, nel momento in cui sono entrati nei miei in punta di piedi, per vedere ciò che nessuno aveva mai provato a scorgere. Trascorriamo la serata avvinghiati sul divano, cancellando qualsiasi cosa abbia cercato di entrare ancora nella mia anima. Il timore di smarrirmi in me stesso è ancora qui, ma lo scaccio nello stesso istante in cui penso alla parte di me che sta crescendo dentro di lei. «Domani ho un appuntamento con un artista per fargli da stagista», esclama, con il volto rivolto alla televisione. Aggrotto la fronte confuso e la sollevo da sopra il mio petto.

«Cosa significa?», Allyson mi racconta del suo corso di arte e di come i suoi voti sono scesi drasticamente.

«E cosa dovresti fare?», domando pensieroso. L'idea che lei, nelle sue condizioni, debba anche lavorare non mi va a genio, ma so quanto sia importante lo studio e le ho promesso tutto il mio sostegno. «Ancora non lo so, ci vedremo direttamente domani», dice, per poi alzarsi dal divano, ma afferro l'orlo della mia t-shirt fermando i suoi passi.

«Voglio sapere tutto su questo tizio, intesi?», il suo sguardo si assottiglia e so che la mia domanda è arrivata alle sue orecchie esattamente come un ordine.

«Sanders, non fare il geloso. È solo lavoro e dovrai abituarti perché, dopo l'università dovrò lavorare e avrò a che fare anche con altri uomini», non avevo messo in conto questo aspetto e mi mordo la lingua per non ribattere, perché le direi che il suo bel culetto resterà a casa a crescere il nostro bambino; se lo facessi, credo che mi prenderebbe per un uomo delle caverne, così trattengo tutta la conversazione mentale per me.

«Va bene, ora non pensiamoci, hai ancora due anni davanti. Andiamo a letto», rispondo, raggiungendola per andare a dormire.

Allyson

Damon è uscito presto questa mattina, doveva andare a Medford da Cindy. L'immagine di lui, fermo come una statua di sale di fronte alla soglia di casa, mi ha tormentata per tutta la notte. I suoi occhi scintillavano di vittoria, la stessa che spesso ho visto oltre quella gabbia che lo teneva prigioniero di sé stesso. Un brivido ha solcato il mio corpo quasi spezzandolo, ho visto la sua visione dissolversi in polvere, rapita dalla parte più dannata del suo passato. Anche lui si è reso conto di cosa ha provato e si è spaventato quanto me, ma il suo sguardo chiedeva ancora una volta di essere salvato. Per questo non ho esitato a smarrirmi in lui, era tutto quello che voleva ed era tutto ciò di cui avevo bisogno io per ricordare a me stessa che Damon non cadrà ancora una volta in quel baratro.

Le guance avvampano al ricordo di come il suo corpo ha plasmato il mio in un tocco nuovo, è stato più dolce del solito, come se si stesse prendendo tutto il tempo del mondo per assaporare ogni parte di me.

Finisco di indossare la giacca, con il pensiero di Dam che mi accompagna per tutto il tempo, e mi dirigo all'appuntamento in centro.

Il professore di arte mi concede due mattine alla settimana per lavorare come stagista, il che significa frequentare i corsi pomeridiani e studiare fino a tarda notte. Ma non mi importa, ce la posso fare.

Esco dal palazzo ammirando i raggi del sole che si stagliano sullo specchio d'acqua. Prendo un taxi e vado dritta al caffè Bella Vita. Quando arrivo, noto che il locale si trova proprio di fronte alla galleria di Gagosian e sono quasi curiosa di farci un salto, dopo, per vedere a quale progetto sta lavorando Damon. La caffetteria è rumorosa a quest'ora del mattino, sono le dieci passate e molti sono in pausa.

«Evans?», mi volto verso la voce che mi ha chiamata, incontrando un ragazzo dai capelli neri corvini che gli scendono mossi lungo il collo, incorniciando un volto olivastro con due grandi occhi color nocciola che mi fissano.

«Ci conosciamo?», domando subito.

«Non ancora, sono Patrick Duval», si massaggia il pizzetto pronunciato nel mento e mi porge la mano.

«Come faceva a sapere che ero io?», chiedo, stringendogliela per presentarmi, anche se, a quanto pare, non ce n'era bisogno. Mi siedo inquieta mentre fisso quello che dovrebbe essere l'artista per il quale dovrei lavorare.

«Ho vissuto talmente tanto per strada, che questo mi ha dato il tempo di conoscere alla perfezione i movimenti del corpo delle persone; eri l'unica che entrando da quella porta stava cercando qualcuno», mi fa notare. Ci vengono serviti due caffè, che aveva precedentemente ordinato. «Vedi quel signore?», mi volto oltre le mie spalle e noto un uomo con in mano un giornale. «Non sta davvero leggendo, fa soltanto finta, forse per estraniarsi», lo continuo a fissare e noto che non volta mai pagina, finché il mio sguardo torna su di lui.

«Allora, cosa devo fare per lei?», chiedo, afferrando con ambedue le mani la tazza di caffè fumante; la sua bocca si piega in un sorriso sbieco che non riesco a decifrare.

«Ho bisogno di una musa ispiratrice», risponde noncurante di ciò che ha appena detto, mi schiarisco la voce prima di mandare giù un sorso della mia bevanda.

«Allora non credo di poterle essere utile, io...», si sporge sul tavolo poggiando i gomiti.

«Uno, chiamami Patrick e due, lascia decidere a me se mi sarai utile o meno», lo sguardo che lascia scorrere su di me, riesce a mettermi completamente a disagio, ma il peggio non sembra essere questo. «Il mio laboratorio è proprio qui di fronte», con un cenno del capo indica la galleria di Gagosian, e non perdo l'occasione di mettere in chiaro un paio di cose.

«Allora conoscerai sicuramente il mio ragazzo, Damon Sanders. Piccolo il mondo?», dico con aria ironica, anche se sul suo volto sembra essere arrivato un pugno ben assestato. Aggrotta la fronte pensieroso, per poi scoppiare a ridere.

«Bene, è stato un piacere conoscerti», si alza come se niente fosse, ma gli blocco il passaggio, raggiungendolo.

«Ho bisogno di questo stage», i suoi occhi si posano ancora una volta su di me.

«Quindi mi stai dicendo che non ci sarebbero problemi se posassi per me?», mi sfida con un'alzata di spalle.

«Per quello esistono le modelle», gli faccio notare.

Scuote il capo con dissenso, accompagnando quel gesto da una leggera risata: «Vedi, le modelle posano, le stagiste studiano arte, sanno cosa cerco... cosa voglio».

Mi mordo la lingua prima di dirgli esattamente ciò che penso di lui, ma non posso mollare, questo posto mi serve: «Va bene, poserò per te». Le parole si catapultano fuori dalla mia bocca prima che possa fermarle.

«Bene», si limita a rispondere, per poi indicarmi con un gesto della mano la porta. «Dopo di te», attraversiamo la strada, passando dalla via che fiancheggia la galleria, per entrare nel laboratorio. «Quindi tu e Sanders state insieme da quanto?», chiede mettendosi subito ad armeggiare con alcune tele.

«Aspettiamo un bambino», esclamo a gran voce, sbarrando totalmente la strada a qualsiasi idea si sia fatto di me.

«Non sei troppo giovane per questo? Cosa pensi di poter fare della tua vita dopo la laurea se avrai già un bambino a cui pensare?». Non rispondo perché non sono affari suoi, io riuscirò a portare a termine il mio sogno. «Vedo che, forse, nemmeno tu hai delle risposte da darti», si appresta ad aggiungere.

«Sono qui per lavorare, non per parlare della mia vita privata».

Solleva le mani in segno di resa: «Touché. Mettiti questo», mi porge una lunga striscia di tessuto in velluto verde muschio, sembra quasi un drappo di tenda; lo esamino, non riuscendo a capire che cosa voglia dire con "mettiti questo". «Dovresti posarlo addosso», spiega e il mio volto scatta verso l'alto incrociando il suo.

«Senza... senza...», mi lancia al volo un costume intero color carne, senza spalline.

«Non mi interessi se sei di Sanders, tranquilla, ma il tuo faccino sì, quindi non farmi perdere altro tempo», mi esorta indicandomi una sorta di camerino e mi domando quante modelle entrino ed escano da questo posto. La stanza è ampia, circolare, e ogni postazione ha a disposizione un angolo in cui creare lo scenario perfetto per le proprie opere. Mi chiudo dentro e mi sbrigo a indossare il costume, che aderisce al mio corpo come una seconda pelle, il tessuto vellutato l'avvolgo attorno al corpo; è molto lungo, quindi, una parte si apre sul pavimento quasi a ventaglio.

«Va bene cos...», le parole mi muoiono in gola quando vedo Damon di fronte ai miei occhi che mi fissa da capo a piedi.

«Ah, Sanders, ho conosciuto la tua ragazza, nonché la mia stagista», esclama Patrick senza voltarsi verso di noi.

«Potresti darci un minuto?», chiede Damon, ma in realtà non lo sta facendo davvero, perché il suo tono di voce è quasi un ordine, mentre la mascella si contrae visibilmente.

«Sì, purché risolviate in fretta, devo lavorare», risponde con noncuranza Patrick uscendo dal laboratorio.

«Damon, fammi parlare», lo supplico e lui incrocia le braccia al petto, appoggiandosi con tutto il peso del corpo contro un tavolo alle sue spalle.

«Sono tutto orecchi, sono proprio curioso di sapere perché vengo al lavoro e trovo la mia ragazza mezza svestita», rimarca, trucidandomi con lo sguardo; il suo volto dice in modo inequivocabile che mi vorrebbe caricare in spalla per riportarmi a casa, dove mi rinchiuderebbe.

«Ho bisogno di questo stage, te l'ho già spiegato, e Patrick vuole che posi per lui, altrimenti se ne cercherà un'altra e io...», una risata amara mi attraversa come una lama, perché quel ghigno l'ho sentito troppo volte, per non sapere che proviene proprio da Damon.

«Tu hai pensato bene di agire, anziché parlarne prima con me. Cazzo, Allyson!», abbaia, passandosi entrambe le mani sui folti capelli neri, spettinandoli più del solito.

«Ho pensato solo di fare ciò che è meglio per i miei studi. Non sono nuda, indosso un costume, e devo solo stare seduta mentre lui dipinge», avanza verso di me, accorciando la distanza che ci separa in questo momento, le mani premono contro le mie spalle scoperte facendomi rabbrividire.

«Pensi davvero che io possa stare qui, seduto al mio posto, mentre tu sei mezza svestita sotto uno sguardo che non è il mio?».

Deglutisco a fatica, ma non posso mollare la presa, perché da questo corso d'arte dipendono il mio futuro e la mia vita, come tutti i sogni che sin da bambina ho rinchiuso in un cassetto, con la sola speranza di poterlo un giorno aprire per toccarli con mano.

«Tu non usi modelle?», sbotto irritata quanto lui.

«Sì, certo», risponde senza degnarsi nemmeno di negarlo e prima che possa aprire bocca, corre verso la sua tela e la scopre. «Lei è la sola modella di cui la mia testa ha bisogno», guardo il riflesso di me stessa che marchia la tela bianca; i miei grandi occhi azzurri sono al centro del dipinto, seguiti dal profilo del mio naso e della mia bocca che si posa su una piccola fronte che sparisce oltre la tela, sferzata dall'ombra dei capelli. Resto senza respiro, con i piedi piantati al suolo, senza riuscire a muovermi di un solo centimetro.

«Io... Damon, mi dispiace, ma questa volta non posso fare quello che vuoi tu», i suoi occhi verdi si spalancano e quasi mi inghiottono nel vortice di emozioni che lo attraversano. Fa un passo indietro, come se l'avessi spinto con le mie stesse mani, che invece sono chiuse a pugno lungo il corpo per impedirmi di correre da lui ed accettare un altro compromesso. Amo Damon, ma amo anche la mia vita e non posso impedirmi di viverla solo perché a lui non vanno bene le mie scelte per colpa della sua gelosia.

«Avete finito?», si informa Patrick entrando nella stanza.

«Sì», rispondo senza incontrare quegli occhi che mi stanno bucando la schiena, mentre vado a sedermi sullo sgabello di fronte alla tela. «Va... va bene così?», chiedo a Patrick.

«Sei perfetta!», ma non è lui a dirlo con una punta di ironia, che mi fa quasi sprofondare, come se il pavimento si fosse aperto sotto i miei piedi, ma Damon, che con grandi falcate imbocca la porta sbattendosela alle spalle.

Mi mordo il labbro e sposto una ciocca di capelli per coprire una lacrima solitaria che sfugge via, solcandomi il viso che posso sentire quasi bruciare. Non so cosa farò, né cosa succederà quando tornerò a casa. L'unica certezza che ho è che il nostro amore, per quanto possa essere grande e per quanto le nostre vite abbiano corso tra inferno e paradiso, in un viaggio di sola andata, sarebbe capace di distruggerci senza che ce ne rendessimo conto.


*SPAZIO XOXO*

E adesso il nostro Dam darà di matto?

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