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Capitolo 11 Allyson

Prendo il vassoio da sopra il banco all'ingresso della mensa del campus e con Kam alle mie spalle ci mettiamo in coda per la pausa pranzo.

«Ti ho visto distratta alla lezione di filosofia», mormora e scosto la testa oltre la mia spalla per incontrare il suo sguardo.

«Sono solo stanca», ammetto per la prima volta anche a me stessa.

Sono passate due settimane e tutto è ancora nitido, chiaro e limpido nella testa, come un incubo che continuo a fare a occhi aperti. Le urla di Alec, le lacrime, le parole di Damon. Niente di tutto questo se ne andrà mai, un altro triste ricordo da aggiungere alla mia vita. Sospiro, lasciando scivolare il vassoio fino a raggiungere la cassa, porgo la mia tessera universitaria e, tallonata da Kam, andiamo a prendere posto vicino alla vetrata che dà sul giardino del campus.

«Mi spiace di non essere stato molto presente», esclama addentando il suo pranzo.

«Anche tu hai la tua vita e spiace a me non essere stata presente; so che per te era un momento importante e io non ti ho nemmeno chiesto com'è andata», confesso quasi con vergogna. La madre e la sorella di Kam si sono finalmente decise a incontrare Chaise e so che era tutto ciò che desiderava da sempre. Sorride, cercando di non farmi sentire in colpa.

«Dai, principessa, è stato importante, è vero, ma non è stato niente in confronto a ciò che stai passando tu», dice allungando la sua mano sul tavolo per incontrare la mia. «Damon come sta?», si affretta ad aggiungere. Sospiro, ripensando a questi giorni che ci hanno tenuti lontani.

«È sempre in ospedale. A volte vado con lui, poi la sera rientra tardi dopo essere passato per la galleria d'arte», spiego con una nota amara che si deposita sulla mia bocca, lasciando una strana sensazione che si propaga fino allo stomaco, che sento stringersi in una morsa. «Alec non l'ha presa bene...», lascio la frase in sospeso a mezz'aria, ripensando a tutte le volte che, in queste due settimane, Dam si è alzato nel cuore della notte per andarlo a recuperare al Masters.

Mi si stringe il cuore se penso come il dolore stia divorando la sua anima.

Non avrei mai pensato che la morte di Joselyn potesse mettere fine a un cerchio fatto solo di rancori, che ora si sono dissolti nel nulla, sciolti come neve al sole.

«Sembra non essere la sola cosa a turbarti, o mi sbaglio?», chino il capo sul cibo che non ho ancora toccato, ripensando all'inaspettato messaggio di ieri sera.

«Ethel vuole vedermi», dico in un fil di voce. Non so di cosa voglia parlarmi, ma vederla dopo tutto questo tempo, nel quale ci siamo sempre e solo scontrate, mi mette a disagio.

«Ethel... quella Ethel?», squittisce Kam, sorpreso quanto me. Annuisco. Non ho ancora avuto modo di dirlo a Damon; quando è rientrato a tarda notte dormivo e questa mattina, al mio risveglio, era già uscito, lasciandomi un piccolo biglietto sul cuscino che diceva: "Ti amo, baby". «Cosa pensi che voglia da te? Insomma, tu e lei non eravate di certo amiche, da quello che mi hai detto». Penso al nostro piccolo gruppo prima che Damon tornasse, aprendomi gli occhi su chi avevo realmente vicino, perché è questo che ha fatto, anche se all'inizio l'accusavo di rovinare qualsiasi cosa toccasse. In realtà, mi stava solo mostrando una verità che io non riuscivo vedere, nascosta dietro falsi sorrisi, segreti e bugie.

«Esatto. Ethel ha dato di matto non appena mi ha vista parlare con Dam e da lì tutto è cambiato, sono diventata il suo bersaglio preferito, da deridere in ogni occasione». Riesco ancora a vedere il suo sguardo coprirmi di ridicolo.

«Non sei obbligata a incontrarla, secondo me non dovresti», Kam corruga la fronte preoccupato; so che vuole proteggermi, ma Ethel non può farmi più niente, non alla persona che sono diventata, ammetto a me stessa.

«Voglio sapere cosa ha da dirmi», affondo la forchetta nella mia insalata di pollo e con lo sguardo rivolto verso gli alberi in fiore, che si stagliano sul giardino, inizio a prepararmi a quell'incontro che forse entrambe abbiamo rinviato per troppo tempo.

«Non mi piace vederti così triste, so che non è un buon momento, però mi manca il tuo sorriso». Ha ragione, credo di non essere riuscita più a sorridere da quando le mie spalle si sono voltate per scappare ancora una volta da Medford.

«Non lo so, mi sento un'egoista, ma...», il groppo in gola si forma in un battito di ciglia, le lacrime pungono e cerco di trattenerle a fatica.

«Ma?», incalza, inclinando il capo verso di me per incontrare il mio sguardo, che cerca di sfuggire per non crollare.

«Mi manca Damon», confesso in un soffio. È strano che ti possa mancare una persona che ti abbraccia nella notte, alla quale ti accoccoli per sentire il calore del suo corpo e il suo respiro che si infila nei tuoi capelli. Ma è vero, lui mi manca e anche se fa il possibile per essere sempre presente, in queste settimane sembriamo due estranei che si incontrano per caso.

«Non sei egoista, è solo che la tua vita ha subito un grande cambiamento, come quella di Damon. La bambina e la possibilità che non possa farcela, il lavoro, lo studio...», i miei occhi si inchiodano su di lui bloccando il flusso delle sue parole.

«Credo che non sia più tornato all'università. Non ho avuto il coraggio di chiederglielo, ma penso che abbia abbandonato i corsi. I libri sono disposti nello stesso modo da settimane», mi mordo il labbro per quanto è forte la tentazione di lasciarmi andare al turbinio di emozioni che si danno battaglia dentro di me.

«Dovresti chiederglielo, non lasciare un'altra volta che tutti i problemi e i casini costruiscano ancora muri attorno a voi. So che vuoi stargli vicino nel tuo silenzio, senza creargli altre preoccupazioni, ma così facendo, principessa, ti stai solo allontanando da lui», resto in silenzio perché ha ragione, è che ho solo paura di dire la parola sbagliata che possa far tornare un Damon che non sono più pronta ad affrontare. Ne ha passate tante, ma le sue stesse cicatrici sono tatuate ormai sulla mia anima.

«Chaise dov'è?», chiedo cercando di mettere da parte tutte le mie angosce per un momento e dedicarmi al mio migliore amico.

«Se te lo dico sono certo che scoppierai a ridere», commenta divertito, poi si sporge verso di me stando attento che nessuno possa ascoltare ciò che sta per dire. «È andato con mia madre per consigliarla sull'acquisto degli arredi che serviranno per la camera di mia sorella al college». Non riesco proprio a immaginare Chaise con la madre di Kam, ma pensarli insieme mi provoca una bella sensazione, soprattutto grazie al sorriso stampato che vedo di fronte ai miei occhi. Kam si merita questa felicità, anche lui ha lottato tanto per trovare la sua isola felice e credo che ci sia appena sbarcato. Sono certa che anche il padre un giorno si rassegnerà e tornerà a far parte della sua vita, non immagina il tempo che sta sprecando.

Quando termino la lezione di arte, incontro Kam che mi sta aspettando come al solito vicino all'ingresso. La conversazione con il professor Harris non era quello che mi aspettavo di ricevere a fine giornata.

Non credevo che i miei voti fossero scesi in modo così drastico.

Mi ha consigliato uno stage per ricevere qualche credito extra e delle lettere di raccomandazione che possano sistemare la media. "Proprio non ci voleva", penso tra me e me, riponendo nella borsa il foglio con i numeri di telefono che mi ha fornito per lavorare presso qualche artista di sua conoscenza. La cosa in parte dovrebbe entusiasmarmi, ma è il tempo a preoccuparmi, gli orari non coincideranno mai con quelli di Damon.

«Non hai una bella cera», mi fa notare Kam quando mi fermo di fronte a lui.

«Dovrò lavorare per risollevare i miei voti se non voglio perdere il mio posto al corso», spiego torturandomi le mani; sembra non essere proprio la mia giornata, oggi, perché so già che una volta varcato quel portone troverò Ethel ad attendermi.

«Magari si rivelerà un'ottima opportunità», cerca di dire, ma scuoto la testa consapevole che il tutto mi spingerà solo più lontana da Damon.

«Sta andando tutto storto», ammetto, sentendomi persino patetica per come viene fuori la mia voce, in un tono sommesso, quasi disperato. Il braccio di Kam mi stringe a sé, posandomi un bacio sulla tempia.

«So che te l'ho detto spesso, ma passerà anche questo momento e farà parte solo di un lontano ricordo da aggiungere agli altri», mi limito ad annuire alle sue parole che cercano di confortarmi, mentre ci accodiamo agli altri studenti intenti ad evadere da queste mura. Saetto lo sguardo sul cortile e la vedo all'ombra di un albero.

«È già qui», esclamo volgendomi verso Kam.

«Vuoi che ti aspetti?», chiede, posando la sua mano al centro della mia schiena.

«No, credo di potercela fare; anzi, devo farcela». Forse anche io e lei dobbiamo chiudere il nostro cerchio. Saluto Kam e mi avvio verso di lei; i capelli sono legati in un'alta coda di cavallo, gli occhi sono coperti da un paio di occhiali da sole, indossa dei semplici jeans e una maglietta. «Ciao, Ethel», dico non appena le sono vicina.

«Grazie per aver accettato di incontrarmi», le sue parole mi spiazzano, resto un istante immobile a fissarla cercando di capire se mi trovo davanti la stessa persona di qualche mese fa.

«Possiamo andare lì», indico alle sue spalle, dall'altro lato della strada, la caffetteria di Starbucks. Annuisce e ci dirigiamo in totale silenzio verso l'ingresso. Entriamo e andiamo a sederci a uno dei tavoli liberi.

«Cosa vi porto, ragazze?», chiede subito la cameriera.

«Per me un caffè nero, senza zucchero», dico, per poi portare la mia attenzione su Ethel, che inforca gli occhiali da sole e li posa al lato del tavolo.

«Per me uno alla vaniglia con latte scremato», quando la cameriera se ne va con le nostre ordinazioni, l'imbarazzo torna a far da padrone. «Non è facile essere qui, Allyson, ma lo dovevo fare...», i suoi occhi si perdono sul suo grembo, la voce trema e io mi limito a restare in silenzio per prestarle la mia totale attenzione. «Non ti ho mai sopportata. All'inizio potevi anche starmi simpatica, ma poi, quando ho visto il modo in cui ti guardava Damon, ho incominciato a odiarti con tutta me stessa». Il suo sguardo, che non riesco a decifrare, si posa su di me. «Non mi aveva mai guardata in quel modo, nemmeno una volta, e non capivo che cosa potesse trovare di speciale in una ragazza come te», una risata amara sfugge al suo controllo, mentre la ragazza poggia i nostri caffè sul tavolo. Afferro il mio con entrambe le mani, come se mi volessi aggrappare a qualcosa, mentre i ricordi di quei mesi trascorsi a Medford iniziano a vorticare nella mia testa, affollandola totalmente. «Ero solo invidiosa, perché tu riuscivi a vedere in lui quello che nessuno di noi aveva mai visto. Lo hai salvato, sei sempre stata al suo fianco e hai lottato per lui. Sai, Allyson, è strano per me dirlo, ma ti ammiro», sgrano gli occhi di fronte a quelle parole che mai mi sarei sognata di sentire uscire dalla sua bocca. «La morte di Jo mi ha fatto riflettere su come la mia vita abbia fatto schifo e su come possa essere breve, a volte; sprecarla è l'errore più grande che possiamo fare. Ho aperto gli occhi, mi sono guardata attorno e mi sono detta che era arrivato il momento di darci un taglio con tutte le stronzate. Perciò ti chiedo scusa per tutte le volte che ti ho umiliata e che ho cercato di separarti da Damon», resta in silenzio ad aspettare che io dica qualcosa.

«Ethel...», inizio a dire, in cerca delle parole giuste.

«Non voglio che accetti le mie scuse, non le merito, perché so di essere stata una grande stronza, ma avevo bisogno che tu lo sapessi. Ora possiamo solo restare in silenzio a bere questi caffè?», mormora in una supplica, con la tristezza che avvolge il suo sguardo, che vedo luccicare per le lacrime che stanno per rotolare giù dal suo volto. Acconsento e restiamo lì, a scambiarci qualche sguardo mentre sorseggiamo i nostri caffè.

Torno a casa, chiudo la porta alle mie spalle e mi ci appoggio; Damon non è ancora rientrato e a parte il messaggio sul cuscino di questa mattina, non l'ho ancora sentito. Prendo il telefono e provo a chiamarlo, ma parte la segreteria; perciò, lancio il telefono sul divano e vado dritta in bagno per una doccia calda.

La chiacchierata con Ethel mi ha disorientata, ma è proprio così, non ci rendiamo conto di ciò che abbiamo finché non lo perdiamo; lei ha perso un'amica e tutto il dolore che prova l'ha portata a riflettere. Joselyn si è portata via tutta la rabbia e il rancore che scorreva nelle nostre vite.

Apro l'acqua calda e nel frattempo mi osservo allo specchio sopra il lavabo.

Aggrotto la fronte confusa e mi metto a riflettere, ma poi penso di essere solo un po' stressata e scaccio dalla testa quella assurda ipotesi, per perdermi completamente nello scrosciare dell'acqua, nella speranza che lavi via dal mio corpo l'intera giornata.

Damon

«Ehi, piccolina, allora abbiamo superato un altro giorno, ma sono sicuro che supererai tutti gli altri a venire», sussurro contro quel vetro che ci tiene separati, mentre le accarezzo con cautela le manine e guardo il suo esile corpicino lottare con tutte le sue forze.

«Non le nego, signor Sanders, che ci sono buone possibilità che tutto proceda per il meglio», dice il medico di turno alle mie spalle, mi volto e con le mani unite ancora a quei piccoli pugni gli sorrido.

«Lei ce la farà», riporto il mio sguardo su mia figlia per darle un ultimo saluto, prima di avviarmi verso casa. Ho trascorso le ultime settimane diviso fra l'ospedale, il laboratorio d'arte dove sto lavorando a un altro progetto e a tirare fuori dai guai Alec. Quando esco dall'ospedale, decido di fare un giro sulla Main, per controllare se becco in giro la sua moto e non ci vuole molto per scorgerla posteggiata esattamente di fronte al Masters, dove poche sere fa l'ho trascinato fuori di peso, dopo essere stato avvisato da Jake. Posteggio l'auto ed entro in quel luogo ormai a me quasi sconosciuto, nulla di quelle mura mi appartiene più.

«Kim», dico con un cenno del mento, mentre lei da dietro la sua postazione bar mi indica Alec, stravaccato su uno dei divani del locale. «Ci stai dando dentro», commento non appena lo raggiungo, guardando i bicchieri vuoti disposti in fila sotto il suo naso.

«Non voglio perdere il ritmo», biascica, tracannandosi l'ultimo goccio rimasto sul fondo.

«Ero da Cindy», esclamo cercando di attirare la sua attenzione, la mano resta sospesa a mezz'aria con il bicchiere chiuso in una stretta. «Non sei più andato da lei», gli faccio notare, è dal giorno in cui è morta Jo che non mette piede in quell'ospedale.

«Vattene, Sanders», sibila tra i denti e con un gesto del braccio fa cadere a terra tutti i bicchieri; il rumore del vetro in frantumi è lo stesso che il mio cuore ha provato tante, troppe volte. Nick, il buttafuori, si avvicina a noi con ampie falcate; con un gesto della mano lo invito ad andarsene, facendogli capire che ho la situazione sotto controllo.

«Hai intenzione di far marcire il tuo culo in questo posto? Lei non tornerà, Alec», tuono. Il suo sguardo truce mi fulmina, ma ho bisogno che si scontri con la realtà e, anche se fa male, che l'accetti.

«Vattene... vattene, cazzo, o giuro...», lo prendo per il colletto della maglietta, stringendolo in un pugno, e l'avvicino pericolosamente al mio volto.

«O cosa, Alec? Cosa farai, mi picchierai? Non puoi, amico, non ne hai le forze, non ti reggi neanche in piedi e sarà sempre peggio se continui a farti di questa merda», infilo la mano libera nella tasca dei jeans ed è come fare un ritorno al passato, quando sfilo la busta trasparente che contiene ciò che ho letto nel suo sguardo perso, smarrito in un viaggio fatto solo di tormenti. Lo stesso riflesso del mio, per tutte le volte che ho cercato di alleggerire un peso che non se ne sarebbe mai andato, almeno finché non l'ho affrontato.

«Perché lo fai?», chiede con voce strozzata.

«Perché non sempre abbiamo una seconda possibilità. Io sono stato fortunato, ma c'è chi non è più tornato da quel baratro, il torpore l'ha sepolto per sempre, e io voglio che mia figlia abbia uno zio nella sua vita», rispondo, lasciando bruscamente la presa sulla maglia. La sua schiena scivola contro il divanetto e le mani raggiungono il volto stanco.

«Io non ti ho aiutato, Damon, ho lasciato che ti rovinassi con le tue stesse mani», biascica con lo sguardo inchiodato al nulla.

«Non siamo più quei ragazzi, Alec, lo devi a tua sorella. Non buttare la tua vita, tu che puoi scegliere, non lo fare».

Prendo il casco e le chiavi della moto: «Andiamo, ti porto a casa». Nelle ultime due settimane è capitato una volta di troppo che lo venissi a recuperare, ma non posso abbandonarlo, non quando so cosa sta passando la sua anima tormentata. Lo tiro su di peso, appoggiandolo al mio fianco, fino a raggiungere l'uscita dove Nick mi aiuta a caricarlo in macchina. «Prendi la moto e mettila nel retro», chiedo a Nick lanciandogli le chiavi. Mi metto al posto di guida, mentre Alec ha la testa poggiata al finestrino.

«Come sta?», domanda in un sussurro appena percettibile.

«È forte», dico riferendomi a Cindy, allo stesso tempo che faccio inversione e mi dirigo verso casa sua.

«E se non ce la facesse?», le sue parole mi mozzano il respiro in gola, il cuore prende a martellare mentre io stesso vivo in quella costante paura ogni fottuto giorno.

«Ha il mio e il tuo sangue, non mollerebbe mai», gli faccio notare dandogli una leggera pacca sulla spalla, per rassicurarlo.

Quando arrivo di fronte all'abitazione dei Sanchez, non sono sorpreso di trovare lo sceriffo sul portico. Poco prima di andare via dal Masters, l'avevo avvisato. Mi sento in debito con questa famiglia e la sensazione di dover cercare in qualche modo di rimettere insieme i pezzi, si è cucita alla mia vita, e sarà così per sempre.

«Grazie», sussurra mentre l'aiuto a prendere Alec per portarlo fino alla sua stanza, dove crolla sul letto con gli occhi già chiusi.

«Un'altra volta?», commenta inorridita la signora Sanchez nel corridoio, coprendosi la bocca per soffocare i singhiozzi che non riesce più a trattenere.

«Gli passerà, ha solo bisogno di tempo», cerco di rassicurarla, e una parte di me spera che sia davvero così. «Ora vado», mi affretto ad aggiungere, scendendo le scale fino alla soglia del portone ancora spalancato.

«Damon?», mi fermo sul portico, voltandomi verso lo sceriffo.

«Credi davvero che gli passerà?», domanda quasi in una supplica. Abbozzo un sorriso.

«Ne sono certo», rispondo, poi mi volto per raggiungere la mia auto e andare via da lì. Non so se la mia risposta si rivelerà una bugia, ma non posso dirgli che ne uscirà solo dopo che avrà toccato davvero il fondo. È lì che ti svegli realizzando che la tua vita è in frantumi, ma devi raccogliere ogni fottuto pezzo di vetro e rimetterlo insieme; solo così potrai vedere una nuova alba, apprezzando ciò che ti circonda e che stavi per perdere, perché eri troppo cieco ed egoista per ammettere che stavi annegando. Scocco un'occhiata all'orologio. «Merda, è tardissimo», esclamo ad alta voce pigiando forte sull'acceleratore, oltrepassando il cartello di Medford che si staglia sul ciglio della strada. Sono stato talmente preso da tutto, che il tempo mi è scivolato dalle mani senza che me ne rendessi conto. La troverò di nuovo addormentata, in più mi si è scaricato il cellulare mentre ero in ospedale. Ma non posso non andarci, lei ha bisogno di me, ha bisogno di sentire che non è sola; in ogni caso, devo farmi perdonare da lei, perché so di averla trascurata e, conoscendo Al, non oso immaginare cosa stia frullando nella sua testolina.

Pesto un pugno contro il volante, furioso con me stesso, perché sapere di essere la causa delle sue sofferenze, delle sue paure e dei suoi dubbi, mi porta verso una spirale di ricordi che non voglio rivivere. Sto cercando di fare la cosa giusta, ma forse non so nemmeno come si fa.

Cerco di essere presente per Cindy, di lavorare per non far mancare niente ad Allyson, quando in realtà la sto privando di ciò di cui ha più bisogno... me.

Infilo la chiave nella toppa facendo scattare la serratura, il silenzio e il buio del nostro appartamento sono le prime cose che mi accolgono non appena ci metto piede. Lascio le chiavi sul piccolo mobile all'ingresso e metto la giacca sull'appendiabiti.

Non ho messo nulla nello stomaco, ma non importa, ora ho solo bisogno di vederla. Imbocco il corridoio ed entro nella penombra della nostra camera da letto; mi soffermo un minuto sulla soglia poggiandomi allo stipite della porta, mentre la luce che filtra dalla finestra mi mostra il suo corpo rannicchiato.

Impreco contro me stesso e allo stesso tempo mi sfilo la maglia e i jeans, posandoli sulla poltrona di fianco al muro. Mi metto al suo fianco, avvicinandomi al suo corpo caldo, poi intrufolo il mio volto nel profumo fruttato dei suoi capelli, inebriando il mio respiro.

Mi è sempre piaciuto il profumo che emanano.

Ricordo che ogni volta che mi passava di fianco, dovevo serrare i pugni per trattenermi dal prenderla con la forza quando ancora non la potevo avere, quando non era mia.

Con l'indice percorro il profilo del suo corpo, sfiorando la pelle scoperta sul fianco; le palpebre si muovono, fino a regalarmi il mio mare preferito... il suo sguardo.

«Damon, sei tornato...», biascica con la voce assonnata mentre si stropiccia gli occhi.

«Sono qui», mi limito a dire, avvolgendole un braccio alla vita per attirarla a me; la sua testa preme contro il mio petto e posso sentirla trattenere il fiato. «Perdonami», mormoro ispirando quanta più aria possibile; credevo che non mi sarei più ritrovato a chiederle scusa per i miei comportamenti. La testa si solleva, poggiando il mento sotto la mano che tiene sul mio petto.

«Non devi scusarti. È un momento difficile, Dam, lo capisco», un sorriso amaro compare sul mio volto. Come potevo pensare che inveisse contro di me dicendomi esattamente quello che pensa? Non sarebbe da Allyson non trovare il modo di giustificare i miei comportamenti, ma lei per me non è mai stata un segreto; leggo la tristezza nei suoi occhi, la stessa che riesce a incastrarmi il fiato nei polmoni e a farmi vacillare per il timore di perderla.

«È vero, ma questo non giustifica il fatto che ti ho trascurata. So di averlo fatto, baby...», si morde il labbro carnoso, torturandolo come fa sempre quando è nervosa e non sa cosa dire. «Non tocco il tuo corpo perfetto da due settimane», pronuncio quelle parole con voce roca, intrisa di desiderio.

«Avevi... avevi altro a cui pensare», balbetta mentre le mie mani sfiorano la pelle calda del suo ventre e lei sussulta, come se lo facessero per la prima volta.

«Ma eri sempre qui», dico quasi in una promessa, afferrandole la mano per premerla all'altezza del mio cuore che martella. Inizia la sua corsa, mossa solo dal respiro caldo che solletica le mie labbra che supplicano di poterle assaggiare.

Premo contro quella bocca che si schiude senza esitare, ricordandomi come sia il paradiso che è sempre vissuto in lei. La mia lingua lambisce la sua con movimenti lenti, che la reclamano con dolcezza, prendendomi ogni piccola parte di lei che mi sono perso in questi giorni. Con le mani sui suoi fianchi la metto a cavalcioni su di me.

Le dita affondano nella sua carne con possesso, mentre il bacio, da dolce, diventa avido e quasi disperato per quanto mi sia mancato tutto questo, per come mi sia mancato tornare a respirare. «Muoviti», le ordino con un sorriso malizioso contro le sue labbra. Basta solo quel piccolo movimento dei suoi fianchi, che si dimenano, per accendere un fuoco di passione che divampa in tutto il corpo. «Oh... cazzo, piccola», biascico in balia del suo corpo, prigioniero della sua essenza, schiavo della sua anima che nutre la mia.

«Mi sei... mi sei mancato», annaspa inarcando la schiena per intensificare quella lenta e veloce tortura, allo stesso tempo che solo un pezzo di stoffa ci tiene ancora separati.

«Sei mia, piccola...», grugnisco, liberandola dalla maglietta, che impaziente quasi le strappo di dosso. Le mani scivolano sulla sua schiena e si fermano sul suo sedere pronunciato, che strizzo prima dolcemente, poi con prepotenza, strappandole un gridolino. «Sono stato un folle», rimprovero me stesso per esserle stato così lontano. Si china su di me, torturando il lobo dell'orecchio, succhiandolo fra le sue labbra carnose. «Baby... basta», supplico smarrendomi nella libido che mi acceca. Devo averla.

Ora.

La stringo contro il mio petto, voltandomi sul letto insieme a lei, mentre tempesto di baci la sua pelle che inizia a imperlarsi di sudore; il sapore salato si disperde sulla mia lingua che raggiunge l'ombelico, sul quale disegno dei piccoli cerchi, e le sue gambe mi invitano, spalancandosi di fronte al mio volto. I miei occhi si incastrano alla perfezione nei suoi, mentre infilo lentamente i pollici all'estremità dei suoi slip facendoli scorrere lentamente lungo le sue gambe.

Mi soffermo a baciare e succhiare il suo interno coscia, fino a raggiungere la caviglia sottile. «Guardami, piccola...», la imploro, levandomi i boxer, mentre i suoi occhi scorrono su di me; la luce che emanano mi rapisce, lasciando muovere da sole le mie mani. Accarezzo il mio corpo con lo sguardo inchiodato al suo, che la obbliga a fare lo stesso; inseguo le sue mani che scorrono sul suo ventre fino a perdersi fra le sue gambe, la sua bocca che si spalanca per il piacere fa rallentare il mio ritmo. «Cazzo, baby, così mi farai esplodere», ammetto in un grugnito, non resistendo più alla visione perfetta che si staglia di fronte a me. «Fanculo», impreco raggiungendola.

«Damon...», sibila roteando gli occhi al cielo mentre la faccio mia, facendole sentire ogni cellula del mio corpo che freme, pulsa e vive per lei. «Oh... Dam...», mugola contro i miei gesti che la stanno spingendo verso l'oblio.

«Vieni, piccola... vieni insieme a me...», supplico, con le braccia tese sopra di lei, con il mio corpo che torreggia impedendole di muoversi. «Oh... cazzo, baby...», grugnisco in un tono strozzato che mi lascia senza fiato, mentre sento le sue cosce stringermi in una morsa e il mio nome esplodere sulla sua bocca che si spalanca in cerca d'aria. Affondo il volto nell'incavo del suo collo, crollando contro di lei, dove posso sentire i nostri cuori martellare all'unisono, riportando entrambi alla realtà alla quale siamo stati strappati per rinchiuderci nel nostro piccolo mondo.

«Ti amo, Sanders, ti amo da impazzire», mormora al mio orecchio, sollevo il viso per incontrare i suoi occhi che brillano, riflessi contro i miei. Strofino la punta del naso sul suo.

«Anche io, piccola», dico tenendola ancora stretta a me. Questo è il mio posto, lei è la mia casa, la sola vita che voglio vivere, l'unica strada che ho deciso di percorrere. «Domani ti porto al lago Spy Pond», esclamo sorreggendole il volto nel palmo della mano.

«Ma...», cerca di dire, ma le stampo un bacio sulle labbra impedendole di proseguire.

«Partiremo dopo pranzo. Avviserò i Sanchez che vadano loro da Cindy, sabato; quando domenica saremo di ritorno, ci passeremo insieme», spiego, rassicurandola da ogni suo pensiero.

Allyson

Quando rientro a casa a metà mattina, le mani ancora mi tremano e il nodo che sento alla bocca dello stomaco non ha alcuna intenzione di sciogliersi; proprio come quello che sento in gola e che soffoca tutte le parole che vorrei trovare il coraggio di dire, di gridare.

«Calmati, Allyson», ordino a me stessa, dirigendomi verso il frigo per prendere un bicchiere d'acqua. Damon sarà di ritorno dall'ospedale a momenti e devo nascondere questa stupida scatola nel fondo della valigia prima che la possa vedere.

Ma cosa diavolo mi è saltato in mente?

Scuoto il capo sentendomi stupida e frastornata. Fisso le mani che fanno traboccare l'acqua dal bicchiere che sorreggo. Lo poggio sul piano in marmo della cucina, sulla quale poso i palmi delle mani cercando di ispirare a fondo, ma sembra non bastare. «Devo distrarmi», vado in camera, portando con me la piccola scatola, poi prendo il borsone dall'armadio e la metto sul fondo, ricoprendola con i vestiti che ci serviranno per questo week end. Sobbalzo non appena sento il portone chiudersi e il cuore mi salta in gola mentre sento i suoi passi avvicinarsi sempre di più.

«Ehi, pronta?», mi volto verso di lui. Indossa la sua felpa rossa preferita, tiene le braccia incrociate al petto mentre si poggia allo stipite della porta per osservarmi meglio.

Il suo sguardo, il modo in cui le sue iridi splendono sempre di più, di un verde intenso, riesce a togliermi il fiato come se lo vedessi per la prima volta.

Ogni volta che sono con lui, fra le sue braccia, è come se fosse il nostro primo incontro.

«Sì... sì, sto mettendo dentro le ultime cose».

Aggrotta la fronte, raggiungendomi con ampie falcate vicino all'armadio: «Stai tremando, baby, è successo qualcosa?», chiede, avvolgendo il mio volto fra le sue grandi mani. Non incontro i suoi occhi, portando l'attenzione sulla sua bocca piena, sulla quale decido di indugiare con un bacio per scappare alle sue domande. Non gli ho detto di Ethel, ma è tutto quello che è successo questa mattina ad aver rimescolato le carte della mia vita. I suoi denti strattonano lievemente il mio labbro inferiore. «Se fai così, piccola, ti chiuderò in questa stanza per tutto il fine settimana...», mugola con voce roca che riesce a entrarmi fin sotto le ossa.

«Allora andiamo», rispondo, premendo una mano contro il suo petto per allontanarlo, mentre cerco di riacquisire più lucidità possibile.

Mi sorride con quel suo modo spavaldo, afferra il borsone che ho appena richiuso e, tenendomi per mano, usciamo dal nostro appartamento.

Non appena saliamo in auto, metto subito la chiavetta USB facendo vibrare le note dei Muse, che mi riportano indietro con la mente a quando avevo iniziato a vedere il mondo che nascondeva a sé stesso.

Mi perdo nel paesaggio che ci scorre vicino fino a oltrepassare il ponte sul River Mystic.

«Sei silenziosa», mi fa notare, facendomi portare l'attenzione su di lui.

«Sono solo stanca, qualcuno non mi ha fatto dormire», ammicco, arricciando la bocca fingendomi indispettita.

«Oh... davvero?», risponde in tono malizioso, lasciando scorrere la sua mano sulla mia coscia; il suo tocco brucia ancora a contatto con il mio corpo.

«Davvero», asserisco accennando un sorriso. «Ho visto Ethel», esclamo poi dal nulla, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada che si apre di fronte a noi, mentre posso percepire i suoi occhi che mi trapassano in cerca di spiegazioni. «Mi ha chiesto scusa, per tutto», dico, ancora sorpresa per le sue parole.

«È strana la vita», commenta, mentre le sue mani si aggrappano al volante, le nocche sbiancano e decido di non aggiungere altro; il dolore che ha legato tutti è ancora presente, fresco e non ci abbandonerà mai, farà sempre parte delle nostre vite. «Stasera ti porto a cena fuori», continua, lasciandomi senza parole. «Non abbiamo fatto così tante cose, baby, che non voglio perdere altro tempo», si appresta ad aggiungere. Il nodo allo stomaco è ancora lì e mi dico che, forse, dopo la cena potrò dirgli cosa è successo.

Gli alberi si stagliano sul viale che prosegue in salita verso la collina della casa al lago.

Amo questo posto e la tranquillità che trasmette, è come se fosse il nostro rifugio segreto, nel quale veniamo a nasconderci per staccare dalla realtà che tenta di crollarci addosso.

«Mi piace il tuo sorriso», esclama. Mi stringo nelle spalle.

«Sono solo felice di essere qui», dico con sincerità.

«E io di esserci con te», aggiunge strizzandomi l'occhio. Scarichiamo il borsone, il sole del pomeriggio scalda lo specchio d'acqua dove alcuni ragazzi sguazzano con le loro moto d'acqua.

La mano di Damon mi stringe la vita. «Se fai la brava domani ti porto a fare un giro», mi domando se sarà davvero di buon umore domani mattina, forse è meglio se mi godo la serata. Mi preparo indossando un semplice vestito turchese con le maniche a tre quarti, lego i capelli in una coda alta e mi guardo per qualche secondo allo specchio, perdendomi nel mio stesso riflesso. «Sei la cosa più bella che abbia mai visto». trasalisco. Si avvicina posando la sua bocca contro la pelle scoperta del collo. «E sei mia», mormora, solleticandomi con il calore di quelle parole.

«Sanders, togliti dai piedi o faremo tardi», sentenzio, sciogliendomi dalle sue braccia e lasciandolo alle mie spalle con un finto broncio.

Il locale è poco lontano dalla casa e lo raggiungiamo a piedi. Damon mi tiene per mano e lungo il tragitto parliamo di Cindy e dei suoi progressi, non potrei esserne più felice.

«Alec non ne viene fuori», confessa con una nota amara.

«Ha bisogno di tempo e di tutti noi». È vero, ci sono troppi trascorsi che forse nessuno di noi dimenticherà facilmente, ma non è questo il momento di pensarci, non quando qualcuno sta cercando di lottare contro sé stesso.

«Già, mi sento come in debito...», la frase di Damon, che si perde nell'aria pungente del tramonto, mi provoca una fitta al petto; non vorrei mai che il peso della scomparsa di Joselyn pesasse su di lui.

«Lo sai che non è colpa tua, fai ciò che fai perché anche loro sono la famiglia di tua figlia», pronunciare quelle ultime parole fa ancora male, quando il cervello sta ancora cercando di metabolizzare il tutto.

«Siamo arrivati», Dam mi fa trasalire dai pensieri, mentre osservo la graziosa locanda che si affaccia con il suo terrazzo a filo del lago, dove piccoli lucernari pendono dal soffitto regalando un'atmosfera calda e familiare.

«È bellissimo, Dam», biascico, sorpresa di come quel posto appaia quasi magico: gli alberi imponenti torreggiano ai lati e la scala in legno che conduce al terrazzo è interamente ricoperta di fiori, che si aggrovigliano tra loro lungo la balaustra.

«I signori Sanders?», chiede un cameriere non appena ci vede.

«Sì», risponde Damon. Fa uno strano effetto e per un attimo ci fissiamo negli occhi con uno strano sorriso che compare spontaneo sulla bocca di entrambi.

«Da questa parte», ci accomodiamo vicino al lago, il profumo delle acque si mescola a quello dei fiori e della cera che brucia nelle lanterne.

«Sono contento che ti piaccia», fa una pausa allungando la mano verso la mia, «signora Sanders». Scoppiamo entrambi a ridere.

«Credo che mi terrò ben stretta il mio cognome», commento, notando che la cosa lo infastidisce.

«Non ho bisogno di un pezzo di carta che dica che sei mia, quando il tuo nome è marchiato a fuoco nella mia anima che apparterrà a te per sempre», dice senza distogliere il suo sguardo dal mio. Le nostre famiglie distrutte, sono l'esempio lampante di come l'unione tra due persone non è data da un sì pronunciato ad alta voce, ma di tutte le parole non dette che si sono insinuate nella tua vita, quando a parlare erano due anime imperfette che si incastravano alla perfezione... NOI.

Divoriamo tutta la cena, Damon ha insistito perché assaggiassi anche le ostriche e per quel piccolo lasso di tempo ho potuto sentire i nervi sciogliersi; ora, però, mentre torniamo a casa, metto una mano sul ventre con il timore di cosa succederà quando varcheremo quella porta.

«Evans... Evans...», mi canzona non appena siamo sul portico. «Lo sai che non puoi più fuggire da me...», il suo dito preme contro il mio petto, «io ti leggo dentro», sibila in un sussurro, assottigliando lo sguardo.

«Allora dimmi, Dam, cosa vedi?», la voce trema mentre glielo chiedo.

«Che mi stai nascondendo qualcosa», ritraggo le labbra, con lo sguardo che fissa la punta delle mie scarpe di vernice.

«Hai ragione», confesso, guardando i suoi occhi che non mi giudicano e non sono sorpresi, ma aspettano che i miei gli rivelino che cosa non gli ho detto. «Entriamo», lo supplico, il suo braccio si tende facendo flettere i muscoli, che scorgo anche tramite la stoffa leggera della camicia, e spalanca la porta lasciandomi entrare per prima. I suoi passi mi seguono nel piccolo salotto, lo sento sedersi sul divano alle mie spalle.

«Al, che cazzo sta succedendo?», domanda cercando di mantenere la calma, ma lo sento dalla sua voce che la sta perdendo.

«Aspettami qui», mi limito a rispondere infilandomi a precipizio nella stanza da letto. Sfilo dal borsone la piccola scatola bianca, mi siedo, poi tolgo il coperchio e ne osservo il contenuto. Il cuore scalpita forte contro la gabbia toracica, anche se nella testa vorticano tutte le nostre promesse. E se non fosse più così? Richiudo la scatola che senza pensarci ho acquistato questa mattina, quando l'istinto mi ha guidata a fare le cose come mi sarei sempre immaginata di fare.

«Allora?», chiede non appena faccio capolino di fronte a lui.

«T-tieni... aprila», quasi lo imploro, restando in piedi a fissare la sua espressione.

«Sei in questo stato per un regalo?», domanda confuso.

«Non sono sicura che quello che contiene sarà ancora un regalo», sussurro, intrecciando le mani l'una con l'altra. I suoi occhi tornano a fissare la scatola e quando le mani iniziano a sollevare il coperchio, il mio cuore manca un battito; chiudo gli occhi quando la sua fronte si corruccia e le mani ne estraggono il contenuto.

Solo silenzio.

È questo che mi rimbomba incessante nelle orecchie, il suo silenzio, e la mia paura di aprire gli occhi e affrontare la verità. "Le sue promesse sono ancora qui?", mi domando in attesa di un suo segno che non arriva ed è come essere trapassata da una lancia che mi mozza il fiato in gola.

Schiudo lentamente le palpebre, vedo una lacrima scivolare lungo il suo volto che si appresta ad asciugare rapidamente. «Dam... Damon», lo chiamo tremando come una foglia, mossa dallo stesso vento che in questo istante inizia a soffiare al di fuori, piegando gli esili alberi. Si alza dal divano senza guardarmi, mentre ripone la scatola sul divano. «Damon», ripeto annaspando nel mio stesso respiro, lui crolla ai miei piedi e la sua testa si posa contro il mio ventre sul quale posa tanti piccoli baci.

«Dimmi che è tutto vero», supplica, una lacrima rotola lungo le guance, seguita da un'altra e un'altra ancora, che rigano il mio volto di gioia.

«È tutto vero... sono... sono incinta», la sua mano mi accarezza come se fossi il cristallo più prezioso al mondo, le dita scorrono sulla mia pancia creando delle linee immaginarie. Mi ero accorta di avere un ritardo, ma con tutto quello che era successo mi sono distratta; questa mattina mi sono recata al poliambulatorio e sono uscita da lì con una minuscola foto; un piccolo cerchio al centro di quell'immagine era la conferma che una parte di Damon stava crescendo dentro di me. Passando di fronte a un negozio, i miei piedi si sono fermati da soli, ho preso due piccole tutine, mossa da un turbinio di emozioni che non riuscivo a controllare: una celeste e una rosa, con al centro la scritta "daddy". Nella stessa scatola avrei messo la prova di tutto. Ma lungo la via del ritorno, tutte le mie insicurezze sono tornate a farsi vive, ricordandomi che Damon aveva già una figlia, che era già padre, e che, forse, dopo la nascita di Cindy aveva ben altre priorità. Il terrore mi aveva dilaniata, con il timore che potesse non esserne felice... ma mi sbagliavo.

«Avremo un bambino nostro», mormora sollevandosi da terra e afferrandomi il volto per tempestarmi di baci. «Nostro», ripete come un mantra e il mio cuore esplode di gioia.

«Nostro», dico a mia volta, assaporando la gioia che la vita ha deciso di mettere nelle nostre mani.

È proprio vero, la salita è dura, ma quando raggiungi la vetta, il panorama che si staglia davanti ai tuoi occhi ti ripaga di tutti i dolori che ti hanno segnato nel profondo.


*SPAZIO XOXO*

Ve lo aspettavate?

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