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Capitolo 46 Damon

Sentire il suo corpo caldo contro il mio mi destabilizza. Guardo i suoi occhi azzurri che mi implorano di imprigionarli nei miei. Il suo respiro solletica il mio volto e faccio appello a tutto il mio autocontrollo, perché sento che lo sto perdendo. Dopo averla vista in quel fottuto letto di ospedale, sono rientrato a casa con la sola intenzione di chiuderla fuori dalla mia vita. Volevo spegnere il mondo, ma non ci sono riuscito, nessuna droga riusciva ad alleggerire il peso che sentivo soffocarmi.

«Dimmi che non provi niente per me e non ti cercherò mai più, Damon», speravo che questa domanda non arrivasse, illuso che non avrebbe veramente avuto il coraggio di presentarsi qui. Poggio la fronte contro la sua, la sento sussultare, chiudo gli occhi mentre la testa grida e non posso non ascoltare le voci, perché sono le sue che mi accusano per tutto ciò che le ho fatto, che mi sono preso un pezzo della sua vita. «D... Dam...», sospira, la mano sfiora la mia guancia, il suo tocco brucia e l'afferro stringendo forte il polso. Spalanco gli occhi incontrando i suoi sorpresi.

«Non ti amo, non ti ho mai amata e mai ti amerò!», inarco un sopracciglio abbozzando un sorrisetto sbieco. Le sue mani spingono contro il mio petto, indietreggio di qualche passo lasciandola correre verso la porta, fino a sentire il portone d'ingresso sbattere prepotentemente. «Cristo», colpisco il muro di fronte a me. Non mi importa se mi spacco qualcosa, sono già a pezzi. Confesso a me stesso non sentendo alcun dolore. Non può esistere dolore più grande quando ne hai già uno che ti inghiottisce giorno dopo giorno. Cerco il telefono e la chiamo. Attendo qualche squillo prima che risponda. «È stata qui, avevi ragione», le dico. «Le ho dato un motivo per odiarmi per sempre, ora è libera», aggiungo chiudendo di seguito la chiamata. Non voglio sentire altre stronzate uscire dalla sua bocca; questo pomeriggio, quando si è presentata alla mia porta, non avrei dovuto farla entrare, ma sapevo che non era qui per me ma per Allyson. È stato il solo motivo per cui le ho concesso due minuti per dirmi che cazzo voleva.

«Sei tu il problema, lei l'ha fatto per te, perché voleva dimenticarti. Deve voltare pagina, Damon, e devi essere tu a spingerla ad andare avanti, deve capire che tu non sei giusto per lei ed è così», le parole di Ella sono ancora fresche come nuove ferite. Già, io non sono giusto, non capisco cosa ci sia che non vada in me. Qualsiasi cosa tocco si rompe, si infetta come se fossi un batterio del cazzo che non puoi curare, ma nessuno sa che lei è la stessa cosa per me. Non posso essere curato, perché l'unica persona che potrebbe farlo l'ho lasciata libera di farsi una vita che non sia questa. Mi guardo attorno nel mio piccolo mondo sotto sopra. Dove non ci sono limiti, i confini sono barriere abbattute, le regole si dissolvono. Cosa posso darle? Altro dolore. Ammetto digrignando i denti. È stato tutto ciò che ho saputo fare finora.

«Hai una pessima cera», mi volto vedendo Joselyn sulla porta d'ingresso, che non avevo chiuso dopo che lei se ne era andata; forse la parte più malata di me credeva che sarebbe tornata indietro. Ma quante volte puoi saltare nel vuoto, precipitare nel buio che ti avvolge, con il terrore che ti mozza il fiato per poi volerlo rifare? Solo una, una volta sola puoi fare quel salto e noi l'abbiamo fatto insieme il giorno in cui le nostre strade si sono divise, sputandoci addosso parole di troppo. «Perché lei era qui?», chiede chiudendosi la porta alle spalle. «L'ho vista correre per strada», aggiunge lasciando scivolare il giubbotto di pelle a terra.

«E tu perché sei qui?», sollevo il mento mentre continuo a guardarla.

«Lo sai, hai bisogno di me...», prende l'orlo della maglia sollevandola verso l'alto fino a gettarla in una parte a caso della stanza, «...per dimenticarla», aggiunge ammiccando un sorriso. La raggiungo mordendomi il labbro, il sapore metallico si disperde nella bocca. Con le mani sui suoi fianchi nudi la sollevo da terra, le gambe in un gesto automatico si avvinghiano alla mia vita, stringendomi contro di lei che spingo verso la parete.

«Oh, Joselyn», rido contro il suo collo che si inarca all'indietro. «Non potrai mai farmi dimenticare Allyson... mai», scandisco, staccandomi da lei e lasciandola cadere di colpo. «Ora, se non vuoi farti male sul serio, togliti dalle palle», tuono. Raccoglie i suoi quattro stracci.

«Non cercarmi più!», minaccia.

«Non essere ridicola, alla mia prossima telefonata sarai qui a scodinzolare come una cagna in calore», solleva le spalle. «Scommettiamo?», è quasi sul punto di crollare, gli occhi lucidi che trattengono le lacrime ne sono la conferma.

«Fottiti, Sanders», scoppio a ridere.

«Per ora ti ho solo fottuto io, Jo», sbatte la porta scomparendo dalla mia vista.

«Come stai?», le chiedo mentre ci sediamo su una delle panchine nell'enorme parco, alcuni passeggiano, altri corrono. In un modo o nell'altro la gente cerca di evadere dalla propria vita. Mi sono rifiutato di entrare in quel cazzo di attico che mi avrebbe solamente ricordato l'ennesimo fallimento d'aggiungere alla mia lista nera e troppo lunga.

«Non è facile, ma sto provando a rimettere insieme i pezzi», mormora con lo sguardo che si solleva verso il cielo, faccio lo stesso perdendomi nelle nuvole che scorrono lente in mezzo a un cielo che mi ricorda i suoi occhi.

«E tu?», chiede, sento il suo sguardo addosso che mi scruta.

«Io me la cavo», mi limito a dire. È un mese che non la vedevo, mi sono perso i suoi progressi, le sue sedute e tutto perché ero troppo impegnato a farmi di ogni cosa per non accettare ancora una volta ciò che mi succedeva.

«Piuttosto male», commenta pizzicandomi un fianco. Prima di tutto questo, ho persino pregato verso un Dio nel quale non credo, perché lei potesse tornare da me e ora che a piccoli passi ci sta riuscendo, sono talmente incasinato che non riesco a rendermene conto. È brutto soffrire, ma lo è ancora di più non provare più niente.

«Sono solo più stronzo del solito, Arleen», dico volgendole un sorriso. Cody ci raggiunge con dei caffè nei bicchieri di cartone. Devo ancora abituarmi a vederlo girarle attorno.

«Mi è quasi difficile crederlo», ride. Troppo tempo che quel suono non colmava quel vuoto che aveva lasciato.

«Tieni», guardo il mio migliore amico, anche se ultimamente a stento ci vediamo, che è tornato a vivere nella nostra vecchia stanza al Campus, e prendo il caffè. «Devi prendere queste, ricordi?», le dice dandole delle pastiglie che Arleen prende subito.

«Che roba è?», domando circospetto.

«Servono per evitare le crisi», spiega in un sussurro. Non riesco ad aggiungere altro, sorseggio il caffè e subito dopo mi accendo una sigaretta, soffio il fumo e con lui cerco di liberarmi della tensione che si è accumulata per tutto il tempo. «Resti per cena?», mi prega.

«Non posso, ho delle cose da fare», rispondo. Con la coda dell'occhio guardo Cody posarle la mano sul ginocchio e stringerlo appena in un gesto rassicurante. Cazzo, devo andarmene. «Ora devo andare, ho la macchina dal meccanico e il treno parte a breve», annuisce. Ci guardiamo per qualche secondo, vorrei abbracciarla ma non trovo il coraggio per farlo. Sorrido e mi incammino verso l'uscita del Central Park.

«Ehi, Damon, aspetta», mi volto verso Cody che mi raggiunge quasi correndo, mentre Arleen siede ancora sulla panchina.

«Che vuoi?», dico con un cenno del mento.

«Non ti prendo a calci in culo solo perché c'è lei», mi avverte il mio migliore amico e io sogghigno.

«Dimentichi che non te lo permetterei comunque», aggiungo.

«Stai tirando troppo la corda», quasi minaccia.

«Amico, non ti sei nemmeno accorto che si è già spezzata la corda, è questo il problema», gli faccio notare scuotendo il capo con ovvietà, beffandomi quasi di lui.

«È tua sorella, porca puttana. Ti stai bruciando il cervello con tutta quella merda», mi addita spingendomi appena contro la spalla. Guardo il suo gesto facendo schioccare la mascella per poi tornare sul suo sguardo che mi provoca. Gli occhi ridotti a due fessure, la mascella serrata, le vene si ingrossano pulsando lungo il collo.

«Sai, ho sprecato tutto questo tempo a dare la colpa a mio padre, alla troia che si portava a letto e ad Alec...», una risata nervosa si impadronisce di me, «ma sono solo io ad averla ridotta così. Sono marcio, tutto ciò che tocco e mi sta vicino finisce per distruggersi sotto i miei occhi», corruga la fronte. «Se non mi fossi mai messo in quel giro, nessuno si sarebbe fatto male», solo ora riesco ad ammettere l'evidenza, ecco perché non riesco più a guardarla negli occhi come vorrei.

«Lo sai bene che non è stata colpa tua», prova a dire. Faccio un passo verso di lui.

«Ah no? Ero io quello che faceva le lotte clandestine, io che ho iniziato a frequentare persone che era meglio non incontrare lungo il proprio cammino. Prenditi cura di lei», scocco un'ultima occhiata a mia sorella.

«Ti stai arrendendo, Damon», mi rimprovera.

«No, ti sbagli, sto solo pagando per il male che ho provocato», gli volto le spalle senza ascoltare la sua voce che mi richiama.

Il viaggio in treno è durato meno di quanto di aspettassi, forse perché mi sono addormentato. Sono crollato in un sonno profondo, tutta colpa delle notti che continuo a passare sveglio a tormentarmi. Mi è rimasto solo quello. Ho mollato gli studi, ho mandato a puttane ogni cosa e a tenermi compagnia resta solo quel senso di colpa che ti divora l'anima poco per volta. Le immagini del passato si presentano più nitide, colpendoti in pieno volto per tutti gli errori commessi. Quei colpi ti travolgono, ti stordiscono fino a farti crollare e speri di non avere un giorno le forze per rialzarti, perché sai che tutto nella tua testa si ripeterebbe da capo, come una punizione senza fine. Forse è questo che merito. Dico a me stesso mentre scendo dal treno, attraverso la stazione e una volta che esco nel parcheggio, cammino fino alla fermata degli autobus. È ormai notte, non si vede anima viva in giro dato che sono ormai passate le undici di sera e la stazione è in periferia. Ci sono io e due ragazzi che barcollano un po' troppo, un centinaio di metri più distanti da me. Chino il capo fissando le Converse consumate.

«Aspetta...», sento dire, ma non sollevo la testa verso quegli idioti che urlano e schiamazzano. «Dove scappi? Tanto sei sola!», mi blocco aggrottando la fronte e punto dritto verso di loro. Sembrano correre verso qualcuno, anzi, stanno rincorrendo qualcuno. Aumento il passo, fino a trovarmi io stesso a correre.

«Vieni qui», biascica uno e vedo una ragazza in lontananza che inciampa cadendo a terra.

«Ehi! Bastardi», urlo raggiungendoli. Uno di loro si volta, aspettandomi quasi a braccia aperte.

«Tu che vuoi, l'abbiamo vista per pri...», il mio pugno colpisce il suo volto prima che possa finire la frase, cade a terra senza troppa fatica, tramortito già dalla quantità di alcol che gli scorre in corpo. L'altro è a terra, avvinghiato sopra la ragazza che si dimena singhiozzando senza riuscire a dire una sola parola. Lo prendo per le spalle sollevandolo di peso e scaraventandolo contro il muro che fiancheggia il marciapiede. Lo sguardo scorre sul corpo della ragazza, che con mani tremanti si sistema la giacca della felpa che le era scivolata sulla spalla, mostrando la maglia strappata.

«Al...», pronuncio in un sibilo mentre il fiato si mozza, le sue guance sono rigate di lacrime e poco dopo le mie mani sono avvolte al collo del ragazzo che si è permesso di toccarla. Nella mente penso solo a cosa le sarebbe successo se non fossi stato qui e continuo a stringere vedendo il suo volto passare da rosso a viola in pochi secondi. «Figlio di puttana!», ringhio e non riesco a fermarmi.

«Damon, basta! Basta ti prego!», le sue piccole mani mi strattonano fino a lasciare quel verme che scivola lungo il muro logoro. Gli sferro un calcio al fianco, lo prendo per il colletto della maglia e gli sputo sul volto. «Se ti vedo ancora in giro hai finito di respirare», lo minaccio. Mi volto verso di lei che trema come una foglia al vento, mentre si stringe le braccia attorno al corpo. «Come stai? Ti ha fatto male? Hai sbattuto da qualche parte?», non mi rendo nemmeno conto che la tengo per le spalle, piegandomi sulle ginocchia per incontrare i suoi occhi colmi di lacrime che non cessano di sporcare il suo viso. Scuote la testa per poi gettarsi fra le mie braccia.

«H... Ho avuta tanta paura», singhiozza. Mi mordo il labbro mentre cerco di portarla via da lì prima che riprenda a calci quella feccia. Non si stacca da me nemmeno mentre camminiamo, il calore del suo corpo contro il mio è l'unica cosa che riesco a sentire. Il profumo fruttato dei suoi capelli inebria il mio respiro a ogni passo. Se non fossi arrivato in tempo, continuo a ripetermi e stringo forte i pugni lungo il corpo.

«Perché eri in treno da sola a quest'ora?», le chiedo sedendoci sull'autobus.

«Ero andata per la seduta da Ella, mio padre doveva accompagnarmi ma ha avuto un imprevisto», spiega fra una lacrima e l'altra.

«Non puoi girare da sola di notte, te ne rendi conto?», la rimprovero, colpendo con un calcio il sedile vuoto di fronte a noi, si stringe nelle spalle. Non riesco a stare calmo. «Scusa», mormoro.

«Perché... Perché ti stai scusando?», chiede con la voce che trema. Mi sfilo il giubbotto e glielo metto sulle spalle.

«Perché la mia pazzia in questo momento non ti serve, dopo quello che ti stava per succedere», resta in silenzio fissando il nulla e mi chiedo a cosa stia pensando. Arriviamo in centro, l'autobus si ferma. «Ti accompagno fino alla KAT», dico. Si volta verso di me.

«Non voglio stare sola», supplica chiedendomi l'impossibile.

Calpesto il viale di ciottoli, i prati fiancheggiano l'intero Campus. Le mani tremano. Troppo. L'aria gelida colpisce duramente il mio volto mentre cammino nella desolazione attorno a me. Sento solo una cosa, il suo respiro alle mie spalle. Tornare qui, dove tutto avrebbe dovuto avere un inizio, mi mette di fronte alla consapevolezza che per me non possa esistere vita differente di quella che faccio. I casini mi perseguitano come ombre. Persino a Indianapolis avevo fatto conoscere il mio nome, un po' troppo, fino a quando non sono stato costretto a scappare. Chissà cosa mi ero messo in testa. Il vecchio me mi ha risucchiato in un attimo e ora so di essermi spinto anche oltre a tutto ciò a cui ero abituato, come un animale famelico che non riesce a fermarsi, ecco cosa sono. Prendo le chiavi della stanza del dormitorio dalla tasca dei pantaloni. Me le ha lasciate Cody, dicendomi: «Tieni, in caso di emergenza», ero certo che non mi sarebbero servite a un cazzo avendo casa mia, ma ha talmente insistito che è stato più forte di lui mettermele in mano. Mi volto verso di lei lasciandole il passo per farla entrare, non potevo portarla a casa mia; quindi, ringrazio di possedere queste chiavi in questo momento. Si guarda in giro come se vedesse tutto per la prima volta, i suoi occhi sono smarriti o forse sono rimasti inchiodati a quella merda che la schiacciava con tutto il suo peso. Chiudo la porta dietro di me e sobbalza di paura.

«Al», provo a richiamare la sua attenzione.

«Cody... Cody dov'è?», chiede mordendosi talmente forte il labbro che il colore si schiarisce talmente tanto diventando quasi bianco.

«A New York», trattengo il fiato. È sempre così con lei, ammetto quasi come una colpa. «Da Arleen», spiego e sprofondo nel letto di fronte a lei. L'adrenalina non cessa di scorrermi nelle vene, dove il calore divampa. Le immagini di lei per terra, con quel bastardo che provava a toccarla, mi fanno assalire da un senso di nausea. Stringo forte i pugni e decido di implodere, di divorarmi l'anima dall'interno, perché se esplodessi, la mia rabbia avrebbe la meglio sul mio controllo e so che sarei capace di distruggere ogni cosa, fermandomi solo per cercare un po' d'aria. Tentennando, con le braccia strette attorno al corpo, si siede su, letto. Solo in quel momento mi rendo conto dei pantaloni strappati sulle ginocchia per la caduta; si passa le mani proprio in quel punto, mostrandomi senza volerlo i graffi che riporta. Cazzo, non me ne ero accorto prima. «Fammi vedere», quasi tuono avvicinandomi a lei. Prendo la sua mano nella mia, controllo anche verso lo strappo del jeans nero che trovo intriso di sangue. «Al, porca puttana, sei ferita», apro l'armadio di Cody alla ricerca di quella fottuta cassetta del pronto soccorso. Dove diamine l'ha messa? Impreco non trovandola.

«Non è niente», minimizza in un sussurro così triste che mi arriva come una pugnalata alla schiena.

«Eccola», esclamo inginocchiandomi di fronte a lei con la valigetta, la poggio per terra aprendola. Prendo qualche garza e del disinfettante. Quasi non so come fare, non ho mai curato le mie ferite, lasciando che ci pensasse solo il tempo al posto mio. «Stai ferma», dico sollevando lo sguardo verso il suo, dove le iridi sono diventate di un grigio scuro. Picchietto appena sui graffi delle mani, ci scambiamo qualche sguardo di puro imbarazzo, mentre prova a ritrarle.

«Pizzica», protesta e il ricordo di lei nel bagno di casa sua riaffiora come se fosse trascorsa una vita intera, mentre le confessavo che la volevo, e mi rendo conto che non è cambiato nulla. Scuoto la testa e finisco di medicarla, mettendole alla fine giusto qualche cerotto sulle ferite più profonde.

«Qui abbiamo fatto», dico facendo scorrere gli occhi verso lo strappo del jeans.

«N... Non vorrai che...», prova a dire. In effetti ha tutto dell'assurdo. Ma siamo noi e sembra che non potrebbe essere diverso se non fosse così "complicato". Sentire il suo contatto mi fa essere vivo, perché riesco finalmente a percepire qualcosa che non sia solo il vuoto. Può una persona lasciarti le stesse sensazioni incise sulla pelle, come un tatuaggio indelebile, che porterai con te a ogni respiro che farai? È passato poco più di un mese da quando mi ha cacciato dalla sua vita, da quando io l'ho umiliata solo per il gusto di ferirla e di vederla soffrire. Come aveva fatto lei, voltandomi le spalle nel momento in cui ero disposto a spiegarle ogni cosa, anche ciò che continuo a tenere sepolto in un angolo ancora più oscuro di me stesso.

«Devi medicarti la ferita, posso farlo io ma puoi farlo anche da sola», dico in tono brusco alzandomi in piedi e voltandole volutamente le spalle. Averla davanti, in questa cazzo di stanza troppo piccola per contenere entrambi i nostri casini, inizia a mandarmi fuori di testa. È come quando ti avvicini al fuoco e ti bruci talmente tanto che il dolore resta così vivido da non voler in alcun modo riprovare quella sensazione.

«Cosa ci è successo?», mormora. La guardo inarcando un sopracciglio, seduta sul bordo del letto, avvolta ancora nel suo Parka, la maglia di un color crema dove uno stralcio di tessuto penzola per come le è stata strappata, i jeans logori dalla polvere, le guance rigate di nero. Non è più la stessa persona, non lo è più da quando come un Tornado sono comparso dal nulla, in una delle sue giornate perfette travolgendola. Non si sarebbe ritrovata qui, dopo aver quasi rischiato di essere stuprata se solo io l'avessi lasciata in pace, ma era un gioco doverla avere, ignaro che sarebbe diventata un'ossessione... la mia peggior dipendenza.

«Non è successo niente, Al. Ci siamo solo resi conto di essere troppo diversi», ammetto più a me stesso che a lei.

«Tu non sei così, Dam», deglutisco a fatica.

«Tu non sai chi sono, Allyson», chiudo gli occhi in due fessure minacciandola di non aggiungere altro. Si solleva in piedi.

«Io invece lo so chi sei, Dam. Io lo so», ripete cantilenando, poggiando le mani sul mio volto. Faccio un passo indietro e per una volta sono io a trovarmi con le spalle al muro.

«Al...», sono io a supplicarla, mentre chiudo gli occhi e scuotendo la testa mi inebrio nel suo profumo.

«Dam...» soffia appena contro la mia bocca. Le labbra poco dopo premono contro le sue. Le trattengono tra le mie. Il suo sapore così dolce è peggio di qualsiasi droga. Lei riesce a rapirmi in un mondo lontano, sospeso in uno stato di trance dove rabbia e dolore si dissolvono e il mondo finalmente si spegne. Continuo a premere contro la sua bocca che si socchiude, regalandomi un biglietto di sola andata per il paradiso. Le nostre lingue si cercano, si intrecciano insieme ai respiri che incalzano, colmando il silenzio dal quale siamo circondati. È un bacio avido, che ti travolge nei ricordi, che rivendica ciò che eravamo. È una passione inspiegabile, mai provata, mentre sento i nostri sapori mischiarsi, così diversi ma che al contempo creano l'incastro perfetto dell'imperfetto. Perché è questo che siamo: il giorno e la notte, il male e il bene, lei l'angelo e io il diavolo. Le mani stringono i fianchi avvicinandola ancora di più, le sue mi strattonano i capelli strappandomi un gemito che lascio disperdere fra le sue labbra. La mente offuscata dal suo odore e dal suo sapore che quasi mi tormenta, poi un flash, spalanco gli occhi sgranandoli, incontrando i suoi socchiusi. La prendo per i polsi, in uno scatto l'allontanano di poco, mentre cerco di respirare, di regolarizzare i batti del cuore che come se fossero stati rianimati in un corpo ormai morto, riprendendo a martellare.

«Non è giusto», dico poggiando la fronte contro la sua.

«Noi possiamo ancora farcela, Damon, guardami», mi implora, ma non posso scontrarmi con il suo sguardo che mi rapirebbe, mettendo catene dalle quali non potrei più liberarmi.

«È meglio che ti disinfetti la ferita», dico andando verso la cassettiera e tirando fuori un paio di pantaloni di Cody, con una felpa che possa indossare per la notte.

«Scappi, continui solo a scappare, te ne rendi conto?», strilla.

Tengo il tessuto degli indumenti stretto in un pugno. «Non sto scappando, ti sto proteggendo», confesso.

«Non ho bisogno... Io non ho bisogno di essere protetta», rido nervosamente voltandomi verso di lei. «Sei qui di fronte a me dopo che ho baciato volutamente Joselyn di fronte ai tuoi occhi perché volevo ferirti e farti soltanto del male. E il problema sai qual è, Allyson?», chiedo provando a incastrare il mio sguardo nel suo che vedo vacillare. «Che sono talmente malato che lo rifarei», ed è vero, la parte di me ferita... un'altra volta, farebbe esattamente tutto ciò che ci ha portato a questo. È per questo che deve starmi lontana.

«Sei stato a letto con lei?», chiede iniziando a singhiozzare.

«Non lo vuoi sapere davvero», scrollo le spalle.

«Sì, dimmelo! Tanto è così, te la sei scopata, vero?», urla portandosi le mani ai capelli.

«Sì. Me la sono scopata così tante volte in questo periodo che ho perso il conto», sbraito. «Ora hai capito che non mi conosci affatto? Che ti distruggerei soltanto?», grido contro i suoi occhi colmi di lacrime.

«Sei tu che non hai capito una cosa, Damon, che mi hai già distrutta, non è rimasto più nulla che tu possa prendere di me e sgretolarla tra le tue mani», il fiato mi si mozza nel petto che sento bruciare. Prova a scappare e le blocco il passaggio.

«Non vai da nessuna parte, non stanotte. Ora medicati e cerca di dormire», ride in modo isterico.

«Non mi vuoi, però vuoi proteggermi? Un po' contorto non trovi?», mi rimprovera.

«Cazzo, Al, non analizzare ogni cosa. Non ci sono più autobus a quest'ora. Dobbiamo stare qui che ti piaccia oppure no», spalanco le braccia. Prende i vestiti da terra, apre la porta dirigendosi verso i bagni.

«Non c'è bisogno che tu mi segua», ribatte seccata calpestando con prepotenza il pavimento.

«Sei in un dormitorio maschile», le ricordo. Solleva le spalle. Mi irrita ancora nello stesso modo quel suo gesto indifferente, è un esplicito "non me ne fotto un cazzo"; okay, forse lei non userebbe queste precise parole, ma il senso è lo stesso. L'aspetto poggiato alla parete di piastrelle gialle mentre sento l'acqua scorrere dalla parte opposta. Immagino il suo corpo in quella sera che sotto il mio, mossa solo dalle mie carezze, si lasciava andare a

una sensazione nuova che io, solo io, le avevo fatto provare, promettendo a me stesso che sarei stato il solo e unico a poterla toccare e.... e se anche lei avesse qualcuno? Questo pensiero mi si insinua nella mente come un tarlo. Scuoto la testa e la inclino all'indietro facendola volutamente sbattere alle piastrelle. Scivolo a terra con le ginocchia contro il petto, le gambe divaricate e i gomiti poggiati sopra a essi. Perché gliel'ho detto in quel modo? Forse conosco solo quello, sputare veleno senza rimorsi. «Coglione», dico a me stesso. Penso che solo ferendola possa rendersi conto di quanto io sia sbagliato, malato e contorto per lei. Deve capirlo, non può essere così cocciuta. E io non posso ignorare cosa ha fatto per dimenticare il mio dolore, deve starmi lontana, è la cosa migliore... per lei.

«Ho finito», dice comparendo di fronte a me, i pantaloni bianchi della tuta di Cody sono girati in vita almeno tre volte e la felpa le arriva a metà coscia, i capelli umidi iniziano a formare piccole onde imperfette.

«Okay», mi limito a dire, anche se quella fottuta domanda continua a picchiettarmi la tempia. Entriamo nella stanza, l'aria è pesante e la vedo raggomitolarsi nel letto volgendomi le spalle. Mi siedo in quello di fronte. Non dormirò, non dormo mai da quando chiudere gli occhi si rivela più schifoso di tenerli aperti.

«Stai vedendo qualcuno?», esclamo dal nulla, mordendomi la lingua subito dopo. Si volta mettendosi sui gomiti con l'aria accigliata e le labbra increspate.

«Non lo vorresti sapere davvero, Damon», mi provoca. Rido.

«Tanto non esci con nessuno, lo so», dico in maniera concitata, come se ne avessi un qualche diritto. Il cervello va a puttane quando sono con lei, vacillo, in piedi sul filo di una cazzo di corda che devo attraversare come un funambolo e sotto di me il vuoto, il nulla, lo stesso che si impadronisce di ogni mia cellula.

«Hai ragione, ma sai, credo che d'adesso in poi lo prenderò in considerazione», ammette, sistemandosi sotto le coperte. Resto a guardare la sua figura che si solleva dal basso verso l'alto mentre respira. Aspetto che arrivi il giorno, che il destino la smetta di mettermi continuamente di fronte ai miei errori, solo che lei non è un comune sbaglio. Lei va oltre ogni limite, il proibito, ciò che non puoi avere e che vorresti disperatamente. È la sola che è riuscita a entrare nella mia testa e che tuttora ci riesce avendone il controllo. Questo mi spaventa più di quanto non sia spaventato da ciò che potrei farle. Merda, ho bisogno di qualcosa. Frugo nelle tasche e tiro fuori un pezzo di carta ben ripiegato. Lo apro e il colore rosso della pasticca risalta subito agli occhi, me l'ha data quel nuovo tizio che viene spesso ai combattimenti, dice che questa ti fa davvero dimenticare il mondo; lo spero, visto che è proprio di fronte ai miei occhi. La metto sotto la lingua, aspetto che il corpo si rilassi e che ogni muscolo smetta di esistere, che la testa fermi la sua giostra di pensieri offuscandoli e sostituendoli con frammenti che non riesci più a distinguere da ciò che sia vero oppure no.

Il mio corpo è quasi paralizzato, io vedo, sento ma non posso muovermi, vorrei ma non posso non riesco. È come se il mio cervello sia staccato dal corpo. Grido, urlo disperato il suo nome mentre la vedo di spalle avvolta dalla nebbia sottile che la inghiotte facendola scomparire. Schiamazzi echeggiano nelle orecchie.

«Ora non puoi fermarci», minaccia una voce ovattata.

«Non toccarla!», ringhio contro il nulla, ma non esce nessun suono, solo gli occhi che seguono due sagome che la inseguono fino a scomparire anche loro oltre la nebbia. «NOOOO!», grido.

«Damon!», scatto a sedere sul letto, sono madido di sudore, le mani che tremano, il respiro affannato, gli occhi li sento bruciare come se stessero per piangere acido. «Damon, guardami». È qui davanti a me ma non so se è reale, quella merda di pasticca mi ha devastato. Appena becco quel figlio di puttana dovrà pregarmi in tutte le lingue perché non gli apra il culo. «Mi vedi?», scuote una mano di fronte al mio volto.

«Sì, sì, ti vedo Al, smettila di starmi col fiato sul collo», dico alzandomi per raggiungere la finestra. Ho bisogno di aria, respiro ma non basta, è come se avessi corso per ore interminabili. Il cuore sta per esplodermi nel petto mentre la vista continua ad andare e venire. Barcollo fino ad aggrapparmi alla sbarra del letto evitando di stramazzare a terra.

«Damon, ma cos'hai?», quel cazzo di flash si ripete e nello stesso momento ogni muscolo si paralizza. Sudo freddo, i denti battono e poco per volta riprendo lucidità.

«Sto bene», sibilo a denti stretti. Cazzo, mi sto davvero fottendo il cervello. Devo solo aspettare che svanisca l'effetto. Apro la finestra e inspiro a pieni polmoni l'aria.

«Perché urlavi il mio nome?», sussurra dietro di me.

«Non lo so», mento.

«Non hai freddo? L'aria è gelida», dice. Peccato che non la senta, nessun brivido o qualsiasi altra sensazione percorre il corpo. «Cazzo, Damon, mi senti?», mi strattona per il braccio, il mio equilibrio in questo momento è la copia sputata della mia vita, non ne ho uno e cado col culo per terra. L'immagine di lei sfocata che si accovaccia in mezzo alle mie gambe. «Tu... Tu hai preso qualcosa?», è così ingenua, così pura, mentre io sono così letale.

«Sì», rispondo mettendo a fuoco i suoi occhi colmi di lacrime. La delusione che vedo impadronirsi del suo volto è il riflesso di me stesso allo specchio. I suoi occhi scrutano il mio volto disgustati, percepisco il timore percorrerla come brividi lungo il corpo.

«Perché? Perché lo fai?», mi supplica.

«Perché questo sono io ed è l'unico modo che conosco per staccare la spina. Per sentire meno di quello che provo, per spegnere una fottuta luce che illumina solo le macerie che ho lasciato al mio passaggio», solo una cosa non riesco a far cessare di esistere, mentre spero che il corpo si perda in sé stesso in un viaggio nel quale potrebbe non esserci un ritorno. Sono questi occhi grigio-azzurri che mi fissano e penetrano fino in fondo alla mia anima oscura.

«Finirai per ammazzarti con le tue stesse mani», trattiene un singhiozzo portandosi la mano alla bocca.

«Forse e quindi?», dico semplicemente. Sento la guancia avvampare e la sua mano ancora a mezz'aria che trema. Rido, mordendomi appena il labbro mentre mi accarezzo la parte colpita. «Stai meglio ora, Allyson? Ti piace il tuo principe azzurro? Tanto era questo che speravi, no?», mi sporgo verso di lei stringendo gli occhi, mentre un altro flash mi paralizza; la solita immagine di lei che corre e di loro che la inseguono, dura meno ma l'ansia che mi mette addosso apre un altro squarcio.

«S... Smettila», mi implora.

«Volevi che diventassi come gli altri. Ma sono solo un fottuto bastardo», colpisco con un pugno il mio petto mentre lo dico. La voglia di perdermi in un suo abbraccio è troppo forte, ma non posso cedere. Non voglio trasportarla insieme a me nel caos che è diventata la mia vita. Deve starmi lontana, deve odiarmi. Perché cazzo non lo fa? Perché è così testarda?

«Sei un bastardo. Hai ragione, ma pensi di spaventarmi, Sanders?», le lacrime che scorrono ormai copiose contraddicono di gran lunga le sue parole. Mi tiro in piedi, butto un occhio alla sveglia sul comodino di Cody. Segna le cinque del mattino.

«Non voglio spaventarti», rispondo di rimando.

«Mi hai baciata e lo sai anche tu cosa voleva dire quel bacio», dice con un fil di voce, così sottile che si spezza. La guardo struggersi le mani l'una contro l'altra, fissarsi i piedi nudi.

«E cosa voleva dire? Sentiamo? È stato solo un bacio, Al, non farti film che non esistono», le urlo gesticolando animatamente di fronte al suo volto. «Mi hai chiesto di non lasciarti sola e l'ho fatto. Questo...», indico la stanza dove ci troviamo con il dito indice, per poi portarlo contro il suo petto e di seguito contro il mio, «non significa niente. Tra noi è finita», scrollo le spalle fingendo una risata. «A dirla tutta non è mai iniziata», aggiungo. Mi volto per evitare i suoi occhi, mordo il labbro fino a sentire il sapore così familiare del sangue bruciarmi mentre scivola nella gola.

«C... Ci sei riuscito», trattengo il fiato. «Hai vinto», mormora sconfitta. «Ci ho provato... mi sono illusa, non ho voluto credere alle tue parole, solo perché nella mia testa e nel mio cuore, io sapevo cosa ci legava. Sapevo che volevi solo chiudermi fuori dal tuo mondo per punirti... ma ora mi rendo conto che in effetti non mi hai mai fatto entrare. È stata solo una mia illusione, una disperata speranza... l'ultima alla quale mi sono aggrappata», resto di spalle mentre qualcosa mi inumidisce la guancia. Con il dito indice raccolgo quella lacrima solitaria, la prima e l'ultima che ha solcato il mio volto.

La sento parlare poco dopo al telefono oltre la porta della stanza. Sono sdraiato sul letto, con le mani dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto. Sono quasi le sei e mezza del mattino, nessuno dei due ha avuto più il coraggio di proferire parola dopo l'ennesima tempesta che si è abbattuta. Continuo a ripetermi che arriverà un giorno che riinizierò a respirare, che tutto sarà solo un lontano ricordo e sarò felice. Perché immagino lei con un uomo che le possa realmente regalare sorrisi, cancellando per sempre tutte le lacrime versate. Lo stomaco però si contorce, provocandomi quasi dolore, al pensiero di lei con un altro che non sia io. Ma è così, è più facile lasciarla andare che rimettere insieme i pezzi nei quali potrei perdermi nuovamente, fino a farla crollare con me un'altra volta. Non posso permettermi di incasinarle la vita più di quanto non abbia già fatto, di spingerla sotto l'acqua togliendole la libertà di respirare. Si dice che ci si rende conto dell'importanza di una persona solo quando l'abbiamo persa. Ma se sai che quella persona scorre e vive dentro di te, occupando ogni centimetro del tuo essere, cosa succede? L'ho persa fisicamente, ma nemmeno la morte potrebbe allontanarmi da lei. Forse è questo quello che tutti chiamano "amore", proteggere la persona che si ama, persino da sé stessi. Potrebbe essere contorto come discorso, se non fosse che io sono fuoco e lei benzina, insieme possiamo esplodere a tal punto da distruggerci per sempre.

«V... Vado... Jenna sta venendo a prendermi», mi godo la sua voce armoniosa ancora una volta, facendo finta che non la senta artigliarmi l'anima, lacerandola per un numero di volte che ormai ho smesso di contare. Di sottecchi la vedo raccogliere le sue poche cose.

«Prenditi cura di te, Evans», sussurro così piano che quasi spero non mi abbia sentita.

«Anche tu, Sanders», balbetta. La porta si chiude e con lei i miei occhi mentre sospiro, cercando di tirar fuori inutilmente il peso che sento opprimermi contro il petto. Il telefono squilla e lo prendo da sopra il comodino dove l'avevo appoggiato.

«Che vuoi Cody, è presto e....», mi interrompe.

«E tu sei il solito coglione, giusto?», mi rimprovera lasciandomi confuso. Mi metto a sedere sul letto, stropicciandomi il volto.

«Che cazzo ti prende?», tuono. Mi rendo conto che non sto salvando solo Al da me, ma anche Cody e la mia famiglia. Sento la vita scivolarmi dalle dita come granelli di sabbia al vento e loro sarebbero il prezzo da pagare contro la follia che si impadronisce della mia testa offuscando ogni cosa che abbia senso, ragione, regole, limiti e rispetto... quest'ultimo non lo dedico neppure a me stesso.

«Allyson era spaventata, ha detto che ti ucciderai prima o poi», scuoto la testa verso la sua piccola mano che anche in questo momento cerca di salvare il suo "caso disperato".

«Sto bene e fatti i cazzi tuoi. Ciò che faccio e di cosa mi faccio non è affar tuo», lo minaccio.

«Ringrazia che sono ancora in viaggio», dice come se realmente le sue parole mi intimorissero.

«Non rompermi i coglioni con la tua paternale. Sei diventato noioso e io non ho tempo da perdere», ride.

«Lo so che stai solo cercando di allontanarci tutti», dice in tono concitato.

«Forse mi sono solo rotto le palle di voi», rispondo con noncuranza, anche se quelle stesse parole quasi mi strozzano mentre le dico.

«Se sei convinto che porterò la tua bara sulla spalla solo perché tu hai deciso di fotterti la vita, non hai capito un cazzo! Sono rimasto anche troppo in un angolo a guardare», chiude la chiamata, fisso il display stringendo forte il telefono tra le mani. Perché nessuno vuole capire che non mi può salvare, perché non voglio essere salvato? Mi alzo dal letto, esco dalla camera chiudendola a chiave e scendo giù fino al portone del dormitorio che si affaccia su uno dei grandi giardini del Campus. Sollevo il cappuccio della felpa dirigendomi verso la fermata dell'autobus. Fra pochi giorni arriverà dicembre, odio con tutto me stesso le feste, specie il Natale. Finte famiglie felici che solo per quel giorno siedono allo stesso tavolo inscenando una vita perfetta. La perfezione non esiste, esiste solo indossare una maschera, una diversa per ogni giorno, fingersi chi non si è perché nessuno possa vedere cosa realmente si nasconda sotto.

SPAZIO XOXO:

Manca poco alla fine del primo libro

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