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Capitolo 41 Damon

Serro la mascella saettando lo sguardo da Allyson a mia madre, la quale tenta invano di richiamarmi.

«Ti ho chiesto che cazzo ci fai qui?», faccio un passo verso di lui che avrebbe dovuto essere a ben quattordici ore di distanza da questo posto.

«Damon», la mano di Al mi sfiora, mi volto non capendo cosa stia cercando di fare.

«Ora si è calmata se vuoi entrare», si limita a dire il mio migliore amico, dandomi le spalle mentre raggiunge il distributore automatico in fondo al corridoio, con le spalle ricurve e le mani cacciate in tasca.

«Non finisce qui», lo minaccio, faccio un respiro profondo ed entro nella camera dove la sua voce urlava di colori che erano svaniti. Il freddo del bianco che dipinge le pareti lo sento avvolgermi e raggelarmi, allo stesso tempo che il mio sguardo si posa su di lei, seduta su una sedia di fronte alla finestra. Si dondola su sé stessa, fissa il buio della notte che copre tutta la città, dove a risaltare sono solo le luci dei palazzi in lontananza. «Arleen», si volta lentamente, si sistema i capelli e accenna un debole sorriso.

«Damon...», sospira. Mi siedo di fronte a lei. Guardo il suo volto stanco e con le mani tremanti provo a prendere le sue. Gli occhi increduli scorrono verso quel gesto.

«Come stai?», le chiedo stupidamente, ma come al mio solito non ho niente di meglio da dire, mi sento andare in pezzi mentre sono qui contro l'incubo che accompagna ogni singolo giorno, ogni minuto e ogni secondo della mia vita.

«Confusa... è tutto così confuso... io ricordo ma poi...», stringe forte la mia presa, cercando a fatica le parole, «i ricordi si affollano tutti insieme... non hanno un ordine, un senso e.... e la realtà non so più quale sia», confessa con la voce che si incrina, il cuore perde un battito.

«Sono qui», dico, mentre una lacrima solitaria scorre sul mio volto e con un gesto rapido della mano l'asciugo, impedendo di lasciarmi andare alle emozioni di quel dolore con il quale mi sono imposto di convivere e non di farmi annientare, anche se ha già avuto la meglio su di me.

«Damon?», trattengo il fiato mentre i suoi occhi di un verde smeraldo si rabbuiano e tutto intorno a lei perde forma, portandola via, lontano... ancora una volta.

«Sono io... Arleen, sono qui. Sono Damon», supplico. Scatta in piedi, lasciando bruscamente le mie mani, si stringe nelle spalle, incrociando le braccia al petto come se volesse proteggersi.

«Dove... Dove sono?», si gira su sé stessa come se fosse una trottola, gli occhi impauriti si dilatano sempre di più. «Viaaa», grida portandosi le mani alle orecchie e accasciandosi a terra in ginocchio, dove le mani sbattano contro il pavimento. «VIAAAA», continua in preda al panico. Non ho nemmeno il tempo di rendermene conto che la porta si spalanca in uno schianto, Cody corre verso di lei e resto impietrito a guardare la scena.

«Ehi... guardami, Arleen», la richiama tenendole il viso fra le mani. Il labbro trema, si guarda attorno come se stesse poco per volta prendendo contatto con la realtà.

«Cody...», trattiene il fiato gettandogli le braccia al collo e posando la sua testa contro il petto, mentre lui le accarezza i capelli. Stringo forte i pugni lungo il corpo e retrocedo a fatica, trascinandomi fuori dalla stanza dove l'aria sembra mancarmi.

«Damon», mia madre prova ad avvicinarsi.

«Da quanto lo sapevi? Da quanto va avanti quello schifo?», indico la stanza dove il mio migliore amico tiene fra le braccia mia sorella.

«Ascolta... cerca di restare calmo... Cody e Arleen», scuoto la testa.

«Non provare a dirlo. Loro non possono... io... no, non è vero, è tutto assurdo», sbraito.

«Per favore, Damon...», la mano di Al si posa sulla mia schiena, mi volto corrucciando la fronte.

«Dimmi che non lo sapevi...», non glielo sto chiedendo, ma sto quasi implorando che sia così. Non può avermelo tenuto nascosto, non può...

«L'ho capito quando sono venuta qui con Cody...», prova a spiegare. Sollevo le braccia in aria divincolandomi dal suo tocco.

«Avete tramato alle mie spalle. Fottetevi tutti», i piedi calpestano con rabbia il corridoio mentre imbocco l'uscita, sento dei passi rincorrermi, ma non mi volto. Raggiungo la macchina, le mani serrate in due pugni colpiscono il cofano. «Perché?», mormoro. «Perché?», urlo contro l'aria pungente.

«Come hai potuto tenermelo nascosto?», chiedo senza voltarmi, è alle mie spalle, la sento, riuscirei a sentirla in qualunque luogo pur non vedendola. Tutto cambia, io cambio quando il suo corpo si avvicina al mio.

«Non spettava a me dirtelo... Damon, per piacere girati», la sua mano raggiunge il mio braccio, mi volto e l'afferro per il polso tirandola a me.

«Io mi sono fidato di te», gli occhi si riducono a due fessure mentre cerco di contenere la voglia di esplodere. Strattona decisa la presa.

«Anche io mi sono fidata di te, eppure...», lascia la frase a mezz'aria come se il resto fosse sospeso sulle nostre teste, «non sei l'unico a soffrire, a portare il peso del dolore. Se vuoi commiserarti, piangerti addosso e colpevolizzare chi è stato costretto a soffrire in silenzio... fai pure, ma io... io non resto qui fuori a farmi insultare da te. Non questa volta», è determinata e lo vedo nei suoi occhi che non si distolgono dai miei.

«Nessuno ti trattiene, Allyson», il fiato si mozza nel petto non appena lo dico. Mordo l'interno della guancia per evitare di rimangiarmi tutto. China lo sguardo, abbozza un sorriso amaro e poi mi scocca un'occhiata.

«Infatti, ora l'ho capito... non mi trattiene nessuno, hai ragione, Damon», non le corro dietro, non posso, non riuscirei a guardarla negli occhi sapendo che era a conoscenza di tutto. Le porte automatiche si aprono e punto dritto verso Cody. Lo prendo per la giacca e lo scaravento contro la parete di mattoni.

«Dai picchiami, cosa aspetti Damon?», mi urla in faccia. Stringo più forte la presa facendogli sbattere la schiena più volte.

«Eri il mio migliore amico», dico a denti stretti mentre una nuova ferita sembra comparire sulla mia anima. Mi chiedo quante cicatrici si possano portare, quanto peso siamo disposti a sostenere fino a farci crollare, a toccare un fondo dal quale forse non faremo più ritorno.

«Sono ancora il tuo migliore amico, coglione. Dovevamo dirtelo, ma certo non avrei mai immaginato che non avremmo avuto più il tempo per poterlo fare», grida e con una spinta mi allontana da lui. «Ti rendi conto cosa ho passato io in questi anni? È tua sorella, è vero, ma è anche la mia ragazza. Ho trattenuto lacrime che imploravano di uscire. Non ho potuto urlare e spaccare ogni cosa perché nessuno doveva sapere, perché era questo che ci eravamo promessi... che io le avevo promesso», sollevo le mani in aria perché smetta di parlare, non voglio ascoltare altre stronzate. «Ho sorriso, ho continuato a fare il coglione mentre dentro, ogni giorno una parte di me moriva. Non ho avuto una spalla su cui piangere, un amico sul quale contare. Io per te ci sono sempre stato», si volta e fa per tornare dentro.

«Stalle lontano», gli intimo. Si volta appena.

«C'è un solo modo per tenermi lontano da lei», dice monocorde e lo lascio andare. Devo metabolizzare, devo capire... come ho potuto non rendermene conto? Resto seduto sul cofano della macchina mentre mi chiedo dove cazzo sia andata Allyson. Perché deve essere sempre tutto complicato?

«Cazzo», prendo il telefono e provo a chiamarla. Dopo tre squilli risponde e resto in silenzio, forse non mi aspettavo che lo facesse. «D... Dove sei?», sento il suono della voce robotica che annuncia l'arrivo del treno. «Sei in stazione?», dico prima che possa rispondermi.

«Sì, sto tornando a casa», è così lontana, ma in modo diverso questa volta, la sua voce sembra dall'altro capo del mondo e solo io l'ho potuta spingere così distante.

«Al... io...», sospira.

«Ascolta, Damon, credo che ci siamo detti anche abbastanza. Io... Io non ho le forze per combattere anche i tuoi demoni... mi dispiace», chiude la chiamata, fisso il display per qualche istante e lo lancio per terra, con la testa fra le mani lo vedo andare in frantumi come il resto di tutto ciò che tocco.

Sento bussare al finestrino della macchina dove mi sono addormentato, stropiccio gli occhi e vedo Cody con in mano due caffè.

«Che cazzo vuoi?», dico aprendo lo sportello.

«Puoi berlo oppure posso rovesciartelo addosso, coglione, decidi tu», lo prendo solo perché ho bisogno di riprendermi dagli incubi che mi hanno tormentato per l'intera nottata. Non so se sia arrivata a casa, se stia bene... anche se di sicuro non può stare bene dopo il modo in cui l'ho cacciata. Sembra essere la cosa che mi riesce meglio... ferirla. Prima le rubo un sorriso per poi sostituirlo in uno schiocco di dita alle lacrime.

«Arleen come sta?», chiedo senza degnarlo di uno sguardo, un caffè e qualche insulto non cambiano un cazzo.

«Dorme e anche tua madre, l'ho mandata a casa per farla riposare. Dobbiamo prendere una decisione», rido alla sua esclamazione.

«Dobbiamo? Dici sul serio?», resta in piedi fuori dall'auto a fissarmi e di certo non ho intenzione di distogliere per primo lo sguardo.

«Sì, Damon, dico sul serio. Che ti piaccia oppure no Arleen è la mia ragazza e sai cosa ti dico? Se non vuoi accettarlo sarà solo un tuo problema. Cazzo, amico, che ti prende? Sono io, Cody...», si guarda per un attimo attorno, «credevo che, sì, mi avresti anche preso a calci in culo ma che saresti stato felice per noi. Mi conosci meglio di chiunque altro, non la farei mai soffrire», non amo queste conversazioni a cuore aperto, ma so che un filo di verità unisce ogni singola parola che ha appena pronunciato.

«Perché non me l'hai detto? Perché doveva essere tutto un segreto?», è vero l'avrei preso a calci in culo, ma ora vorrei quasi strozzarlo e non solo perché è il ragazzo di mia sorella, ma perché mi ha tenuto lontano dalla verità, ha finto di essere chi non era, mi ha fatto credere che se la spassava con una ragazza diversa ogni sera, ma erano solo bugie.

«Lei non voleva per via di Caleb Trevor e dei rapporti che tuo padre aveva con il suo», immaginavo mia sorella felice, con un buon partito come ragazzo al suo fianco, possibile che fossi stato così cieco, così preso dalle mie cazzate da non rendermi conto che si stava solo nascondendo? «Tuo padre voleva candidarsi come senatore e il padre di Trevor lo stava aiutando con la campagna elettorale», mi ricorda.

«Prima che scoppiasse lo scandalo che il caro amato sindaco se la faceva con la segretaria», aggiungo digrignando i denti. Ti alzi una mattina qualunque e non pensi che in un solo istante tutto possa cambiare per sempre. «È colpa mia se lei è in questa merda di posto»,

è vero, non guidava Alec, ma se solo non fossi entrato in quel giro lei starebbe ancora studiando all'università, tornerebbe a casa per i fine settimana e mi romperebbe i coglioni perché in freezer non c'è la sua scorta di gelato alla nocciola. Quanto vorrei litigare con lei, anche in questo istante, urlarle contro che mi ha guardato negli occhi e mi ha mentito per mesi e mesi.

«Non potevi sapere che le cose avrebbero preso quella piega, nessuno poteva saperlo...», mi porge la mano per aiutarmi ad alzarmi dal sedile dell'auto.

Lo guardo un istante e poi l'afferro, mi alzo e a un centimetro dal suo volto dico: «Mi hai mentito, Cody», inarca le sopracciglia come se fosse sorpreso.

«Tu non l'hai mai fatto Dam, vero? Non nascondi niente?», non me lo sta chiedendo... lo sa. Resto in silenzio.

«Ti mentirei ancora per proteggere chi amo e tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro», ci guardiamo occhi negli occhi senza aggiungere niente che non sia celato dietro le parole stesse.

«Damon», mi volto verso mia madre e scopro che non è sola.

«Perché l'hai chiamata?», mia zia Ella poggia una mano sulla spalla di mia madre per interromperla.

«Sono qui per Arleen, devo parlare con i medici che ti piaccia oppure no», il suo tono è rigido, proprio come lei. Sono riuscito a rovinare anche questo, non ha mai potuto perdonarmi di aver trascinato mia madre e Arleen in un'altra città, di aver rifiutato il suo aiuto e di averla quasi ricattata perché mantenesse il segreto sul fatto che mia sorella fosse ancora viva. Mio padre aveva fatto abbastanza, la sua assenza in quella settimana in ospedale era stata chiara, non ci voleva più e non gli importava più niente, tanto valeva che soffrisse, che vivesse nella condanna del senso di colpa. Una tomba vuota sulla quale va a piangere ogni giorno prima di andare al lavoro, è questo che ho visto da quando sono a Medford, ma le sue lacrime non mi hanno minimamente scalfito. Ha avuto ore e giorni per far sì che le cose andassero diversamente. Ha fatto la sua scelta, sta pagando il suo prezzo, come io pago il mio. Ognuno sconta la propria pena, anche se non lo sappiamo.

Restiamo nella sala d'attesa, le sedie sembrano che abbiano spilli, non riesco a stare fermo. Vorrei sapere cosa si stanno dicendo, cosa sono tutti questi misteri e perché è dovuta venire; non ci sono abbastanza psicologi in questa città e in questa clinica? Tasto per abitudine la giacca di pelle alla ricerca del cellulare che non posseggo più.

«Perché continui ad allontanarla?», chiede Cody facendo finta di sfogliare la ventesima rivista da quando siamo in questa sala.

«Non sono affari tuoi», sentenzio a muso duro. Ha ragione, l'allontano, ma forse è meglio così per entrambi, la mia vita è fin troppo incasinata perché io debba pensare anche ai suoi problemi. Sono egoista, è questa la mia natura, lo sono sempre stato, non me ne è mai fregato di nessuno all'infuori di me stesso e da quando è successo tutto questo casino, sono diventato anche peggio.

«Stai lottando contro qualcosa che non puoi controllare, lo capisci?», continua, forse non gli è chiaro che non voglio più parlarne. «Non la dimenticherai, non ci riuscirai. Ti convincerai che è così, che passerà, che i giorni si porteranno via i ricordi di lei che ti tormentano, ma in realtà peseranno sempre di più sul tuo cuore», non sta parlando solo di me, in queste parole c'è anche un pezzo della sua vita che non conosco e che non mi sarei mai immaginato di scoprire. Il ticchettio dei tacchi di vernice rossa di mia zia mi fa trasalire dalle domande che vorrei fargli. La guardo avanzare sicura verso di me, come se quasi fossi un ostacolo da evitare, d'abbattere.

«Allora?», chiedo sollevandomi dalla sedia. Cody pende dalle sue labbra, dall'espressione che dipinge il volto di mia madre non riesco a capire cosa stia succedendo.

«Arleen ha bisogno di metabolizzare lo shock», spiega in due parole.

«Potresti parlare come noi comuni mortali o è chiedere troppo?». Cosa cazzo vuol dire ha bisogno di metabolizzare lo shock?

«La memoria le è tornata del tutto...», sgrano gli occhi. «Il problema non è più questo, ma il suo stato di shock che non è stata in grado di superare per via della perdita di memoria. A mandarla nel panico sono i ricordi dell'incidente e tutto ciò che ne è seguito», non riesco ancora a capire, ricorda eppure sembra smarrirsi ugualmente.

«Perché allora non ci riconosce, perché continua a chiedere le stesse cose?», sprofondo sulla sedia alle mie spalle e resto quasi spiazzato quando mia zia si siede al mio fianco.

«È il panico e la paura che le fanno perdere la cognizione del tempo. Perde il controllo delle proprie azioni proprio perché non accetta ciò che le è successo. Ora non è più un problema neurologico, ma psicologico», la guardo e poi mi volto verso mia madre. Le lacrime bagnano il suo viso e mi volto in uno scatto di nuovo verso mia zia.

«Mi stai dicendo che...», le parole restano bloccate nel nodo che sento formarsi in gola, ho paura di chiedere, di sapere, di restare nuovamente deluso dall'ennesima speranza che viene spenta una volta ancora.

«Ti sto dicendo che dovrà fare un percorso, che dovrà essere seguita e che sì, Arleen potrebbe tornare a essere nuovamente la nostra Arleen», sono stordito da quelle parole che da troppo tempo ho aspettato di poter udire. Cody scatta in piedi, lo vedo correre nel corridoio e lo seguo a mia volta. Lo lascio entrare nella sua stanza, lo guardo stringerla contro il suo petto, mentre affonda il viso nei suoi capelli.

«Siamo qui, siamo tutti qui per te», le dice, glielo promette ed è così, siamo qui per lei.

«Damon, è meglio che tu vada ora», mi ricorda mia madre dietro di me.

«Sì, lo so, non mi ha visto nessuno, tranquilla, ora me ne vado», dico continuando a smarrire ancora per qualche secondo lo sguardo verso quella parte di me che vedo quasi rinascere.

«Voglio che sia Ella a seguire Arleen», dice tutto d'un fiato. «Tu potrai venire a trovarla più spesso e noi staremo tutti meglio», tenta di dire, di convincermi.

«È solo a quattro ore da Medford, chi ha orchestrato l'incidente potrebbe cercarla ancora per farmela pagare», mi prende il volto fra le mani, cerco di ritrarmi ma per una volta è lei ad avere la meglio.

«Guardami, Damon, ti stai nascondendo dietro l'idea che possano fartela pagare, ma lo sai anche tu che continui a tenere in piedi questo teatrino solo perché tuo padre non scopra la verità. Ti ho assecondato perché io stessa ero ferita, ma ho sbagliato perché una madre dovrebbe insegnarti il perdono e non l'odio, ma non ero pronta a perdonarlo e non potevo di certo pretendere che lo facessi tu. Ha pagato abbastanza, Damon, non puoi continuare così, non puoi essere il mostro che non sei e permettere ai tuoi demoni di divorarti l'anima», le sue parole mi graffiano la pelle, si conficcano nelle ossa in cerca della mia anima e si insinuano lì mettendo radici, facendomi aprire gli occhi contro la realtà dalla quale ho cercato sempre di nascondermi. È vero, avevo paura per la mia famiglia, non so chi ci sia dietro l'incidente, ma ho anche sempre saputo che se solo avessero voluto farmi del male, mi avrebbero trovato comunque, ma non l'hanno fatto. Dentro di me, ripetevo che lo facevo per proteggere Arleen, ma in realtà volevo solo punirlo. Volevo che mio padre soffrisse come ho sofferto io fino a consumarmi a tal punto da non sentire più nessuna emozione, perché le aveva rubate lui, strappandoci la nostra vita felice che non sarebbe più esistita.

Ho viaggiato tutto il pomeriggio fino a tarda notte, con il discorso di mia madre che si ripeteva nella testa come un disco incantato. Mi sono fermato sotto il mio palazzo ma tutte quelle parole pesavano troppo, ho fatto inversione e mi sono diretto dall'unica persona che mi avrebbe saputo dire cosa fare. Guardo il parcheggio di fronte alla KAT dove, malgrado domani sia lunedì, sembra esserci una festa. Scendo dalla macchina ed entro facendomi spazio fra i giocatori di football. Le luci soffuse non mi aiutano, ma devo trovarla, deve essere qui da qualche parte.

«Evans, hai visto Evans?», chiedo al fratello di Cristal, mi indica il piano superiore al quale scocco un'occhiata con il timore di fare le scale e trovarmi di fronte la cruda realtà di una Allyson che si sia dimenticata di me. Ogni gradino che mi avvicina sempre di più a lei mi spezza il fiato. Che scuse posso trovare, ora? È stata chiara, non ha tempo per combattere i miei demoni. Come un coglione troppo preso da me stesso, ho lasciato da parte i suoi di demoni, con i quali sta facendo i conti.

«Così va bene? Oppure così?», è la sua voce, è ubriaca. La rabbia monta all'improvviso e spalanco la porta in uno schianto. «Ecco a voi, Damon Sanders», esclama agghindata di tutto punto con la divisa delle KAT, mentre quella che deduco essere la sua compagna di stanza le sta scattando delle foto.

«Questa la prendo io», dico strappandole di mano una bottiglia di vino.

«Sei il solito... prep....prepotente... ecco», indispettita incrocia le braccia al petto e si volta dall'altra parte dandomi le spalle. Consegno la bottiglia alla ragazza, facendole segno di scomparire. «Devi... Devi andartene, Sanders, nessuno ti trattiene, sai?», scoppia a ridere.

«Per favore, Al, devo parlarti, ti puoi girare?», la supplico, sono pronto a farla voltare con la forza ma per una volta non voglio comportarmi come al mio solito. Ci ha portato sempre a questo punto, a me che la ferisco per poi strisciare ai suoi piedi con altre scuse che pretendo possa accettare.

«No. Sai...», fa una pausa, io resto alle sue spalle a sentire il profumo fruttato dei suoi capelli che mi avvolge e vorrei che fossero le sue braccia minute a stringermi; l'avrebbe fatto, sarebbe andata così se io non l'avessi respinta per l'ennesima volta. «Sono stanca, Damon, mi sono resa conto che sto bene, sì, io sto bene anche senza di te», il terreno non esiste più sotto i miei piedi, sto precipitando, sento solo il vuoto che vuole inghiottirmi. Non può pensarlo davvero.

«Sei solo ubriaca», sussurro perché la forza inizia a mancarmi, si volta con aria mesta.

«Dovresti saperlo meglio di chiunque altro. In Vino Veritas, Damon Sanders», occhi negli occhi, i suoi non riflettono più la mia immagine, che vedo offuscarsi a ogni secondo che resto a fissarla nella speranza che possa aggiungere altro; aspetto, ma non proferisce parola o per meglio dire, il suo sguardo per tutto questo tempo ha detto più di quanto in realtà avrei voluto ascoltare, ma sono io che non riesco ad accettarlo... a credere di averla persa.


*SPAZIO XOXO*

Damon scopre la verità su Cody e Arleen e questo forse gli apre gli occhi su ciò che si sta facendo sfuggire dalle mani.

Allyson un'altra volta travolta dalla sua ostilità sembra aver tirato fuori il carattere e forse sta seriamente rinunciando al ragazzo che le ormai rubato l'anima.

Non fatevi sfuggire i piccoli dettagli. 

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