Capitolo 40 Damon
Socchiude gli occhi, di seguito si copre subito il volto non appena incontra il mio sguardo. Rido della sua timidezza, la parte di lei che riesce a mandarmi fuori di testa, la sua innocenza, il timore di essere sempre fuori posto, quando in realtà è tutto fuorché questo. Sembra come se viva costantemente in bilico fra il volersi lasciare andare e quello di trattenersi perché potrebbe essere sbagliato.
«Non pensi che sia troppo tardi per vergognarsi, EVANS», rimarco sussurrandole all'orecchio.
«Sei odioso», borbotta indispettita e scommetto che, se solo potessi vederla, le sue guance hanno preso a essere di un colore rosso acceso.
«A me non sembrava che mi odiassi così tanto qualche minuto fa...», lascio la frase in sospeso e l'ascolto respirare rumorosamente. «Soffocherai se non ti levi quelle mani dalla faccia», aggiungo. Le prendo nelle mie obbligandola a scoprirsi sotto i miei occhi.
«Io... Damon...», si morde il labbro, sfugge al mio sguardo mentre io rincorro il suo per potermi perdere.
«Al...», accarezzo la sua guancia, mi sistemo al suo fianco cingendola in vita, «non devi vergognarti di nulla con me», la rassicuro ma sembra non bastarle. «Cosa succede?», chiedo. Solo in quel momento si volta verso di me.
«Non sono... sì, insomma, io non sono capace di...», gesticola e io chino il capo verso il cavallo dei miei jeans un po' tirati scoppiando a ridere. L'afferro prima che possa alzarsi.
«Dove scappi?», la stringo forte al petto.
«Ridi sempre di me e delle mie pietose figure», protesta, in realtà non sa che è proprio tutto questo a piacermi di lei. Le bacio la spalla.
«Io non voglio niente da te...», si volta verso di me. Aggrotta la fronte perplessa. Strofino il mio naso contro il suo. «Per ora...», la bacio con trasporto, scaricando tutto quello che la mia testa ha immaginato di farle. Se fosse stata un'altra non mi sarei trattenuto, non mi avrebbe quasi appagato allo stesso modo vederla annaspare nel suo stesso respiro per il piacere che le regalavo. Non è stata solo la sua prima volta, in qualche modo è stata anche la mia. Con lei ogni cosa assume una forma diversa, un significato differente. Le parole di Cody non possono essermi più chiare in questo momento. Forse dovrei solo lasciare che le cose vadano come devono.
«A cosa pensi?», chiede staccandosi quasi senza respiro dalle mie labbra.
«Non credevo che saresti stata felice di entrare alla KAT», mento tenendo quei pensieri unicamente per me.
«È strano... non avevo mai pensato a una confraternita... sorellanza», sorride mettendosi a pancia in su, perdendo il suo sguardo verso il soffitto. «Però è interessante, Cristal mi ha elencato solo una minima parte di ciò che mi aspetta e non vedo l'ora di cominciare a prendere parte a tutti i comitati di organizzazione per i quali le KAT sono sempre in prima linea...», è elettrizzata mentre parla e questo mi rallegra di aver fatto la cosa giusta. Quando inizia a elencare tutti quelli che potrebbero essere i suoi impegni, la parte di me che ha fatto tutto questo solo per allontanarla sta quasi ricevendo la conferma che forse le cose andranno proprio così. Lei vivrà una vita nettamente diversa dalla mia e non esisterà più un tempo da poterci dedicare. La immagino dividersi fra lo studio e le stronzate dei comitati, il sociale e mi vedo in un angolo ad aspettare che trovi due minuti di tempo per me. Ho finito di ascoltarla da un pezzo, in trappola come un ragno nella sua stessa tela.
«Dormi qui o ti devo accompagnare al Campus?», l'interrompo d'un tratto facendole capire che il mio buonumore è andato a farsi un giro, insieme a tutti i programmi della sua vita.
«H... Ho... Damon, ho detto qualcosa...», prova a dire sollevandosi sui gomiti mentre io mi alzo dal letto.
«È meglio se ti accompagno». Era quello che volevi coglione, no? Mi rimprovera la mia stronzetta alla quale, per una volta, do ragione. «Ti aspetto là», aggiungo uscendo dalla stanza. Dovrei essere felice per lei, perché non lo sono? Perché mi sento incazzato? Eppure, sono stato io a organizzare tutto questo per lei, ma è come se mi sentissi vulnerabile ed è questo a farmi uscire di testa, il non avere il totale controllo sulla mia vita. Perché è questo che è esattamente successo, cazzo; da quando è entrata quasi in punta di piedi nel marcio che mi circonda, ho iniziato a sentirmi sempre in bilico. Ogni giorno che passava si aggiungeva qualcosa di ignoto dentro di me, al quale mi ostinavo di non trovare una risposta, ma era esattamente sotto il mio naso. Stringo nel pugno la chiave della macchina, allo stesso tempo che con la coda dell'occhio la vedo sopraggiungere. Apro la porta prima che possa dire qualcos'altro e scendo le scale fino al portone. Una volta in auto sollevo il volume della radio, cerco di perdermi nelle note della musica, ma sembra inutile, i pensieri viaggiano nella testa più veloci di ciò che scorre al nostro passaggio. Di sottecchi la vedo stringersi le mani al grembo, le spalle ricurve e lo sguardo oltre il finestrino. La mia mano si solleva dal cambio delle marce per raggiungere la sua, resto fermo a mezz'aria un secondo di troppo per cambiare idea e posarla sul volante. Parcheggio di fronte alla TU e non ho il tempo di spegnere la radio che salta fuori dall'auto iniziando a correre nel prato del Campus, illuminato solo dal bagliore dei lampioni. «Allyson», urlo uscendo dall'auto. Colpisco la cappotta con un pugno. Mi dico che dovrei seguirla, ma i piedi non rispondono a questo impulso e resto lì a vedere il turchese del suo abito scomparire nel buio della notte. «Merda», impreco. Quanto posso essere coglione? Era anche il suo compleanno. «Cazzo! Cazzo! Cazzo!», colpisco con un calcio l'aria che mi circonda.
Ho passato la notte con il telefono sul cuscino che non ha mai squillato e io da buon coglione quale so essere, non ho avuto il coraggio di prenderlo fra le mani e accertarmi che stesse bene. Non mi sono mai sentito così insicuro di me stesso, non ho mai dubitato di nulla, ma lei riesce a farmi sentire in questo modo; so che non lo fa di proposito, è un mio problema, ma faccio solo quello che sono abituato a fare... lo stronzo. Sbuffo mentre mi dirigo in cucina per una dose tripla di caffè. Cody esce dal bagno, già pronto per andare a lezione. Dovrebbe essere illegale avere dei corsi persino il sabato.
«Cos'hai combinato?», chiede sfilandomi dalle mani il caffè e versandoselo in una tazza.
«Perché dovrei aver combinato qualcosa?», domando inarcando il sopracciglio con aria minacciosa.
«Perché sei Damon e da quando ti conosco, fai sempre e solo cazzate», precisa con sarcasmo, mettendosi a sedere su uno degli sgabelli di fronte all'isola della cucina.
«Puoi ricordarmi perché siamo amici? Perché non riesco a capirlo, dal momento che sono quasi tentato di prenderti a calci in culo», scoppia a ridere.
«Questa domanda dovrei quasi farmela io», ribatte sorseggiando il caffè.
«Allyson», dico quasi in un sussurro.
«C'ero arrivato senza che me lo dicessi. Cosa le hai fatto questa volta?», se penso realmente a cosa le ho fatto, mi sento uno schifo. Un attimo primo ero concentrato solo sul sapore della sua bocca contro la mia, sul profumo della sua pelle che inebriava il mio respiro. L'istante dopo era sul sedile passeggero della mia auto come un pacco da rispedire al mittente, con il quale non volevo averci più niente a che fare.
«Ho fatto davvero questo?», esclamo ad alta voce come se Cody avesse sentito la parte del discorso che ho fatto solo con me stesso.
«Cosa le hai fatto?», quasi tuona sbattendo la tazza del caffè sul piano in marmo. Corro in camera, infilo la felpa che è ancora sul pavimento, i jeans ed esco dalla stanza con una Converse sì e l'altra che cerco di mettere saltellando per la cucina.
«Muoviti coglione, devo vederla prima delle lezioni», prendo le chiavi e il cellulare.
«Damon, cazzo, mi ascolti?», urla alle mie spalle mentre la mente passa in rassegna l'ennesimo casino che in effetti solo io sarei capace di fare.
«Che c'è?», urlo a mia volta spalancando le braccia in un gesto plateale.
«Lei oggi non verrà a lezione, l'ho sentita giustificarsi con il professore che sarebbe mancata», sgrano gli occhi.
«Merda, sta andando a New York», Cody mi guarda confuso corrucciando la fronte. Non posso spiegargli quello che sta attraversando Al e non ne avrei nemmeno il tempo. Devo fermarla prima che arrivi in stazione. «Ti conviene muoverti o perderai l'autobus», gli ricordo uscendo di casa, seguito dal suo "Vaffanculo" come saluto per una buona giornata. Correre non mi dispiace affatto, anzi, la mia Daytona riesce a farmi sentire vivo mentre pigio forte sull'acceleratore bruciando tutti i limiti di velocità. Prima o poi mi arriverà una multa più che salata da aggiungere a tutti i miei conti da pagare. Sorpasso un autobus diretto alla South Station di Boston. «Dev'essere per forza qui», mi sollevo appena dal sedile e inizio a suonare il clacson per attirare l'attenzione dell'autista. Gli indico di fermarsi, ma figurati se lo fa, potrei essere un pluriomicida, per i fatti di cronaca che inondano quotidianamente le nostre vite. Mentre sono parallelo al suo lato guida, la vedo in piedi al fianco all'autista che mette la freccia e si accosta. Fermo la macchina e scendo andandole incontro.
«Damon Sanders, tu sei...», prova a dire, ma non gliene do il tempo.
Intrappolo il suo viso fra le mani: «Un grande coglione», mormoro poco prima di baciarla. Le sue labbra a primo impatto sembrano desistere contro le mie, ma mi basta sfiorarle appena con la punta della lingua perché si schiudano sotto il mio tocco, permettendomi quell'accesso che non le farò mai più negare. Ci isoliamo dai cori da stadio che sembrano sollevarsi alle nostre spalle.
«Devo darti delle spiegazioni», dico allontanandomi appena dal suo viso. Con un segno della mano faccio cenno all'autista di ripartire.
«Mah...», esclama indispettita guardando il retro dell'autobus allontanarsi, «farò tardi», aggiunge.
«Arriverai in tempo alla tua seduta», prometto prendendola per mano, la strattona incrociando di seguito le braccia al petto mentre si accinge a salire in macchina.
«Sono ancora arrabbiata», sentenzia e non la biasimo, anzi, mi meraviglio di avere ancora il mio bel faccino intatto. «Ora mi spieghi perché sei qui e perché ieri sei... sei stato così... sì, così coglione», dice piccata e trattengo una risata alla parolaccia che esplode con fatica sulle sue labbra.
«Hai ragione, è solo che ho avuto solo un attimo di...», m'immetto in autostrada diretto a New York. Quattro ore di viaggio chiusi in questa auto, io e lei e le mie paranoie, forse non sono stati una buona idea.
«Un attimo di cosa? Ti rendi conto come mi sono sentita?», finisce l'ultima parte della frase in un sussurro appena percettibile, anche se, in realtà, per come mi sento è come se me l'avesse urlato in pieno volto.
«Quando hai iniziato a parlare... degli impegni e di quello che ti aspettava alla KAT», stringo forte il volante, come se in questo momento stessi per colare a picco e fosse la mia sola àncora di salvezza, «io ho pensato che alla fine non avremmo più avuto tempo per noi, la storia che teniamo all'oscuro da tutti non aiuta, ammettilo», per un istante mi sento più leggero nell'averglielo detto, ma dura poco, perché la parte di me che odia sentirsi in questo modo sta lottando per reprimere ogni emozione che tenta di venir fuori
«Damon, io aspetterò sempre un tuo messaggio, una tua chiamata che mi dica di vederci», cerco di ascoltarla e di crederle, ma la mia autostima è stata presa a calci su per il culo e a farlo è stata una cazzo di insicurezza comparsa dal nulla, come il fantasma di un passato che non conoscevo. «È questo che pensi? Non sarebbe mai successo... sì, lo sai che non sarebbe successo se io non provassi...», mi volto quasi in uno scatto, i suoi occhi sono sinceri ma sono io a non poterci credere.
«Non dirlo», le ordino con tono arrogante facendola stringere nelle spalle, «non dire quelle stronzate da coppiette», mi basta solo quella frase infelice per trascorrere il resto del viaggio in totale silenzio. Una parte di me ha creduto in una forma di amore che ha vissuto sulla propria pelle, per poi sentirla graffiare proprio dalla stessa. Anche lei è stata abbandonata da chi l'ha messa al mondo, i suoi graffi sono in parte forse più profondi dei miei, ma non posso farci nulla, non riesco a credere che si possa amare. Tutti arrivano per pugnalarti alle spalle, per trascinarti a fondo con le loro menzogne e ti ritrovi vuoto con l'eco dei ricordi a fotterti il cervello. La guardo appena, come se mi stessi prendendo qualcosa di lei che non mi appartiene ed è questo il punto. Voglio averla nella mia vita, ma non ho ancora capito come posso riuscirci se non credo nelle favole romantiche, dove lei sembra essersi rinchiusa e averne gettato la chiave. Io sono chiuso fuori, come posso entrare? Come potrei trovare quella chiave e aprire un mondo che so già mi porterebbe solo sofferenza? Quanto sei bipolare, oggi? Mi chiede la mia stronzetta. Sbuffo, buttando fuori non solo l'aria ma anche il peso di domande alle quali forse non troverò mai risposta.
Posteggio poco distante dal palazzo, scende dall'auto senza proferire parola e maledico me stesso perché mi ero ripromesso di sistemare le cose, invece sembra che il destino mi prenda per il culo facendomi ritorcere tutto contro. Entro nella caffetteria al piano terra mentre aspetto che termini la sua seduta. Mi interrogo su cosa dica in quest'ora e se, magari, tra i suoi problemi compaio anche io. Ordino un caffè doppio alla cameriera dietro l'illustre bancone in ciliegio con intarsi pregiati. Mentalmente rido dello sfarzo di questo quartiere.
«Non posso crederci, il mio caro cugino Damon è in città e non mi fa nemmeno una telefonata per avvisarmi?», mi volto verso la sua fastidiosa voce ma, ahimè, la sua vista lo è ancora di più.
«Sebastian», mi limito a dire rimettendomi comodo sul mio sgabello e dandogli volutamente le spalle.
«Come mai da queste parti? Hai bisogno di soldi?», bevo il caffè abbozzando un sorrisetto.
«Dei tuoi non ne ho mai avuto bisogno», gli ricordo. Quando mia zia Ella ha provato a intromettersi per aiutare la sorella, mia madre, ho creato la mia guerra di indipendenza. Non volevo nulla da loro, non avrei mai permesso che mia madre si fosse sentita umiliata dal peso dei soldi della sorella in carriera, quando lei per seguire un amore che alla fine esisteva solo nella sua testa si è trovata con un pugno di mosche fra le mani.
«Allora, perché sei qui? I tuoi soliti affari?», continua cercando di mettere alla prova la mia pazienza. Il bastardo si camuffa bene nel suo pullover di cachemire, pantaloni cachi e i suoi orrendi mocassini da cinquecento dollari. Ma in realtà sappiamo entrambi chi sia realmente, ovvero, uno molto più marcio di me che ha le possibilità di poterlo camuffare bene.
«Sei stato tu ad avvisare Alec del mio rientro in città?», domando facendo schioccare la mascella al ricordo della battuta di Joselyn sul fatto che tutti sapessero del mio ritorno e oltre a Cody, l'unico che potesse saperlo era proprio lui.
«Potrebbe essermi sfuggito, perché?», sorride malizioso, sapendo bene i rapporti che mi legano ad Alec.
«Cosa hai avuto in cambio?», chiedo a mia volta, consapevole che non farebbe mai nulla per niente, una parte dello stesso sangue che scorre nelle vene ci rende uguali in questo.
«Ancora nulla, ma forse presto riscatterò la mia ricompensa», spiega con fare allusivo. «Salutami la zia e mi raccomando non fare il solito coglione», sussurra all'orecchio poco prima di andarsene. Tengo il bordo del bancone del bar stretto fra le mani, perché so che se lo lasciassi andare l'inseguirei per prendere a pugni quella cazzo di faccia che si ritrova. Lo squillo del telefono mi distrae dalla tentazione di scaricare un po' di stress, lo sfilo dalla tasca e come leggo il nome sul display ho un tuffo al cuore.
«Pronto», provo a dire.
«Damon... sei tu Damon? Dove sei? Dove sono?», la sento urlare dall'altro capo del cellulare, il cuore incomincia a martellare senza pietà nel petto.
«Arleen, sono io. Cosa succede?», cerco di tenerla calma ma il suo respiro pesante riesce a penetrarmi fin dentro le ossa.
«Sono chiusa, io sono in trappola...», urla e scatto in piedi a quelle parole.
«Riesci a dirmi dove ti trovi?», chiedo allarmato alla sola idea che possa essere nell'unico luogo dal quale mi sono ripromesso di proteggerla.
«È tutto bianco, tutto... i colori... i colori non ci sono... Damon? Sei tu, Damon?», le domande si ripetono uguali di seguito alle altre, mentre i secondi scorrono lenti e i pezzi di me, a ogni scatto di un tempo malato, si perdono in un viaggio dal quale non esiste ritorno.
«Arrivo tesoro, okay?», dico incrociando lo sguardo di Al che esce dall'ascensore. Si precipita verso di me come se portassi inciso sul volto quello che sta succedendo. «Arleen, devo... io devo andare a Indianapolis», dico senza pensarci, la sua mano prende la mia intrecciandola alla sua.
«Andiamo», la guardo solo un attimo per imprimere nella mente i suoi occhi, per ricordare la sua comprensione, quella che io continuo inesorabile a negarle. Chiamo mia madre mentre imbocco per Winchester.
«Dove sei? Arleen mi ha chiamato, era nel panico più totale», ringhio furioso, anche se so che lei non ha nessuna colpa.
«L'hanno solo trasferita di stanza perché non si facesse del male», pigio forte sull'acceleratore.
«Del male?», mi sembra un incubo dal quale non puoi svegliarti perché purtroppo sei già sveglio. Riaggancio e sparo al massimo la musica mentre penso a lei, al prezzo che sta pagando con la sua vita. Una parte di me si rincuora verso una memoria confusa che sta lottando per tornare. Sì, perché lei lotterà e tornerà da tutti noi.
«Andrà bene», la sua mano si posa sulla mia, la stringo forte e anche se non sto parlando in questo preciso istante, la sto implorando di non lasciarmi andare perché cadrei in pezzi se solo lo facesse. Arriviamo di fronte alla clinica, il tramonto annuncia la fine di un giorno che vorrei quasi rimuovere dalla memoria. Le sue grida di aiuto continuano a rimbombare nella mia testa. Allyson assume un'espressione strana in volto.
«Cos'hai?», le domando mentre scendiamo dall'auto.
«No, niente, sono solo preoccupata, tutto qui», dice ravviandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Mi basta quel gesto per capire che in realtà mi sta nascondendo qualcosa. Ora non ho il tempo per pensarci troppo e mi precipito all'ingresso. La solita infermiera che ormai mi conosce non mi chiede nemmeno i documenti e mi indica la stanza dove hanno portato Arleen. Corro quasi a perdifiato e vedo mia madre poggiata alla parete.
«Perché sei fuori? Perché non entri?», chiedo allungando la mano verso la maniglia, la sua afferra il mio polso scuotendo il capo.
«Che succede?», tuono e la porta si spalanca. Mi scontro contro chi non mi sarei mai immaginato di trovare qui. «Che cazzo ci fai qui?», sbraito non capendo.
*SPAZIO XOXO*
Damon sta lottando con le sue emozioni.
Sebastian ha un suo premio da riscuotere, quale sarà ?
Allyson riuscirà davvero a essere sempre così comprensiva con lui?
Con chi si è scontrato lo sguardo di Damon?
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