Capitolo 37 Allyson
È strano trovarmi qui, sembra essere diventato il "mio posto", quello in cui rifugiarmi dal mondo intero. Eppure, non appartiene alla mia infanzia, il solo ricordo legato a questo campo da calcio è stato quel bacio... il primo. Mi stringo nelle spalle, il profumo dell'erba bagnata, il freddo del cemento dei gradoni degli spalti a contatto con il mio corpo, sono l'unica cosa che voglio sentire. Forse dovrei tornare a Boston, ricominciare tutto da capo e lasciarmi questa strana piega che ha preso la mia vita alle spalle. Come se fosse facile. Ricordo a me stessa. Mi chiede di fidarmi di lui, ma in realtà non so realmente chi ho di fronte. Una domanda che mi pongo dal nostro primo scontro. Chi è Damon Sanders? È vero, ora so di Arleen, ma me l'avrebbe mai detto? Incomincio a stilare una sorta di lista mentale, nella quale appunto tutte le domande che ancora non hanno ottenuto risposta: questo legame forzato con gli altri... Per affari mi ha risposto, poi vediamo... ah sì, i due anni che ha vissuto a Indianapolis dei quali non proferisce parola. Come ha vissuto in quella nuova città? La cosa che più mi irrita sono i suoi continui sbalzi di umore. Oh, sì, l'essere bipolare con la sua personalità è un eufemismo a confronto. Incrocio le braccia al petto e mi rendo conto che pur non essendo qui, riesce a indispettirmi allo stesso modo. Poteva rispondere al cellulare di fronte a me, ma no, certo che no. Avrei scoperto che dall'altro capo del telefono ci sarebbe stata un'altra ragazza, una come Tamara, forse. Il solo pensiero mi dà la nausea, l'immagino con altre ragazze... chissà quante. Rabbrividisco all'idea, riesco a sentirmi un'altra volta sbagliata, non alla sua altezza. Insomma, Allyson, svegliati! Chi voglio prendere in giro, uno come lui non ci avrebbe pensato due volte a.... a fare quello che fa ogni ragazzo di quasi vent'anni. Forse ha solo pietà per me? Scatto in piedi come se avessi trovato la soluzione a tutto.
«Lui prova pena per me», sibilo.
«Non puoi pensarlo davvero», sussulto, mi volto lentamente trovandolo dietro di me, con i pugni serrati lungo il corpo.
«Io...», balbetto, vorrei dirgli che non lo penso, ma non posso, perché è esattamente così che mi sento. I suoi occhi mi guardano in modo diverso, ma sembra frapporsi fra di noi un muro troppo alto da valicare e io... io non penso di avere le forze per abbatterlo.
«Non provo pena per nessuno, cosa cazzo ti salta in mente?», dice passandosi una mano dietro la nuca, con il volto che si solleva verso il cielo.
Sollevo anche io lo sguardo verso quello stesso manto stellato che copre le nostre vite. Per un attimo chiudo gli occhi, alla ricerca di qualcosa che non trovo e mi rendo conto che sto crollando. Sto lasciando un pezzettino di me a ogni mio passo. Se non riuscissi più a voltarmi per raccogliere i pezzi, cosa ne sarebbe di me? Che fine farei? Domando quasi in una supplica a chi possa ascoltare quei pensieri.
«Perché sei scappata?», apro gli occhi incontrando i suoi, troppo vicini al mio volto.
«La tua macchina è a posto», gli faccio notare indicandola.
«Mi spieghi cosa ti prende?», scoppio in una fragorosa risata, che ha dell'isterico. Con un gesto della mano credo di averlo mandato a quel paese, anzi, sono certa di averlo fatto mentre scendo i gradini e raggiungo il prato poco distante da me. «Al...», i suoi passi mi seguono. «Allyson, fermati cazzo!», grida, mi blocco col respiro affannato, il cuore che martella nel petto e mi rendo conto che sto correndo, sto... sto scappando. È l'unica cosa che sento e che non riesco a evitare di assecondare, come se fosse qualcosa più grande di me, come se non fossi più in grado di gestire un corpo che sembra non appartenermi.
«Sono stanca», sussurro a denti stretti senza voltarmi verso di lui, che sento alle spalle. «È tutto sbagliato, io sono sbagliata. Non... non posso stare qui... e far finta che tutto vada bene... che», mi giro inchiodando i miei occhi contro i suoi, che si dilatano sotto le mie parole, mostrandomi una pupilla che copre quel poco di verde che ero riuscita a scorgere nel suo sguardo, «che fra noi sia tutto a posto», su quest'ultima parola chino lo sguardo, per evitare di vedere il suo deluso penetrarmi fin sotto la pelle.
«È stata quella telefonata del cazzo, non è vero?», resto in silenzio a fissare i ciuffi disordinati dell'erba. «Al, è per quello che sei scappata?», le sue mani mi stringono le spalle obbligandomi a guardarlo.
«C'è sempre qualcosa che non so... che mi nascondi...», sospiro e mi divincolo invano dalla sua presa. Il mio petto sbatte contro il suo, la fronte poggiata alla mia, le sue dita le sento premere sempre di più sulle braccia.
«Non puoi arrenderti...», mi supplica e non riesco a capire a cosa si stia riferendo. «T... Tu... tu sei così diversa che sto perdendo la testa, Al», occhi negli occhi, il mio riflesso nei suoi che mi guardano in maniera differente dal solito. «Devo ancora... ancora capire come muovermi, è tutto così nuovo per me», respira come se finora avesse trattenuto il fiato.
«C... Cosa devi capire?», chiedo con un fil di voce che sento spezzarsi. Ho bisogno che lo dica per me, voglio quella maledetta etichetta che ci dia un posto in questo mondo. Non mi bastano i suoi baci, le sue carezze, per poi urlarci contro e dividerci, scappare l'uno dall'altro perché tutto è come al solito "complicato".
«Come fare... come essere», sbuffa.
«Il mio ragazzo?», le parole scappano dalla mia bocca, faccio un passo indietro allo stesso tempo che lo vedo sorridere.
«Ehi... non muoverti», minaccia con dolcezza tirandomi nuovamente a sé. «Più o meno», aggiunge continuando a sorridere e trattengo a fatica il mio sorriso, richiamato dal suo al quale non posso resistere. Le labbra così carnose che si piegano all'insù creano quelle fossette che ti invitano a punzecchiare con un dito.
«Ho bisogno di certezze, lo capisci? Guardami», indico la mia persona come se portassi addosso i segni indelebili di quello che mi sta travolgendo.
«Dimmi cosa vuoi, Al?», chiede fissandosi le punte delle scarpe, come se avesse paura di ciò che sto per dirgli.
«La verità prima di tutto... e....», mi guarda mordendosi le labbra a trattenere forse la costante voglia di ribattere, «promettimi che non ci perderemo», aggrotta la fronte.
«Cosa vuoi dire?», non so se potrà mantenere questa promessa o se io stessa la manterrò.
«Qualsiasi cosa accada ci ritroveremo, sempre», dico quella frase tutta d'un fiato, d'istinto socchiudo gli occhi per la vergogna, in attesa di una sua risata che non arriva. Sento solo le sue labbra premere con foga contro le mie che non oppongono resistenza, concedendogli un permesso che non deve più chiedere. Il suo bacio si prende ogni parte delle mie incertezze e le chiude in un angolo di me stessa dove non potrò trovarle. Le mani sorreggono il mio volto rapito nel suo mondo. Una parte di Damon, come uno dei suoi tatuaggi, marchia la mia anima dalla quale nessuno potrà mai cancellare quello che provo per lui. «Devi ancora dirmi con chi stavi parlando al telefono», gli ricordo staccandomi da lui.
«Va bene, ne parliamo a casa», concede dandomi un ultimo bacio sulla testa e tirandomi verso la macchina. «Se ha un solo graffio torni a piedi», minaccia con un ghigno sbieco. Faccio spallucce.
«Potrei aver preso un marciapiede», rispondo con noncuranza, prendendomi gioco di lui che mi fulmina all'istante. «So guidare, Sanders», rimarco accigliandomi solo per il fatto che ne ha dubitato. «Insomma, è da sfatare questa storia ridicola sulle donne al volante», tossisce per finta.
«Guarda, EVANS, mi fido sulla parola ma guiderò sempre io», sentenzia facendo una corsa verso l'auto. Questo suo lato un po' infantile... Un po'? Sì, okay, un po' tanto infantile, cara gemella interiore, non mi dispiace affatto. «Vuoi stare ferma?», mi ordina lasciandomi intravedere solo il suo sguardo che spunta da oltre la tela.
È così... non lo so, così strano vederlo concentrato in questo modo, persino buffo come corruccia la fronte per concentrarsi, per non parlare delle macchioline di tinta che, come piccoli spruzzi, dipingono anche il suo volto. Mi piace questa versione di Damon artista, ha un grande talento e il mio ritratto ne è la prova.
«Lo so cosa stai facendo», dico a denti stretti perché il mio volto non cambi espressione.
«Sto disegnando?», questa sua parte ironica, invece, la farei eclissare del tutto.
«No. Stai evitando la mia domanda», gli faccio notare girandomi di scatto. Sprofonda sulla sedia lasciando cadere il pennello a terra.
«Okay, dato che non ti fidi di me...», incomincia e so che questa conversazione ci porterà di sicuro a un altro litigio.
«Io mi...», alza gli occhi al cielo, sbattendo i palmi delle mani sulle gambe con le quali fa leva per tirarsi in piedi.
«Ti fidi? Non si direbbe visto che per uno stralcio di conversazione che hai sentito sei scappata», gesticola animatamente e, senza accorgersene, la tela cade dal cavalletto mostrando il dipinto. Gli occhi si fermano, intrappolati nell'immagine di me stessa nella quale riesco a vedermi per la prima volta... bella. Il sorriso, il taglio degli occhi, gli zigomi alti, i capelli che, seppur raccolti in una crocchia disordinata, sono perfetti. «Ora non mi ascolti nemmeno?», vado a raccogliere il dipinto da terra tenendolo fra le mani con il timore di poterlo rovinare; non è finito, ma credo che sia perfetto così... forse l'ha fatto apposta nel colorare solo metà del ritratto. «Non ti piace?», scuoto la testa velocemente con un sorriso che nasce spontaneo e si allarga sul mio volto.
«È bellissimo...», mormoro voltandomi verso di lui, in piedi al mio fianco con le mani in tasca e la testa china a guardarlo insieme a me. «È così che mi vedi?», il dorso della sua mano accarezza la mia guancia.
«È così che ti vedono tutti, Al». Perché io non riesco? Mi rabbuio a quella domanda che da troppo tempo mi trascino appresso come un bagaglio che non riesco mai a disfare. «Vieni», mi prende per mano e mi fa sedere sulle sue ginocchia. «Ho cercato io la persona che poi mi ha telefonato», annuisco. «Prima mi fai raccontare ogni cosa e poi potrai anche urlare quanto vuoi», ecco, già la cosa non mi piace e non promette nulla di buono. Guardo la sua bocca in attesa delle parole che la varchino. «Ero al telefono con... con mia zia. Si chiama Ella, è la sorella di mia madre», non ne parla con molto entusiasmo e conoscendolo, credo che sia una delle tante persone che Dam ha scritto sul suo libro nero, perché sono più che certa che ne abbia uno. «Lei è una delle più brave psicologhe di Manhattan», alla parola "psicologa" tento di alzarmi, ma ovviamente le sue braccia mi tengono avvolta contro di lui immobilizzandomi. «Ho detto quando avrò finito», ordina. «Sono preoccupato per te...», sospira, come se la stessa aria lo stesse soffocando. «Io non posso aiutarti contro qualcosa che è più grande di te. Lo capisci?», ammettere a me stessa che ho perso il controllo di tutto, significa toccare nuovamente il fondo.
«Passerà... sono, sono solo stressata», mento.
«Martedì alle quattro del pomeriggio hai un appuntamento», sento la sua presa allentarsi di proposito.
«Come hai potuto prendere una decisione così importante al posto mio?», sbraito pur sapendo che ha ragione, che è la mia unica opzione, ma non sa cosa significhi mettersi a nudo davanti allo sguardo di chi analizza anche solo il modo in cui incroci le gambe. Ho passato anni recandomi una volta alla settimana a parlare del solito problema: l'assenza di una madre che continua a non esserci. Non è cambiato nulla e non sono cambiata neppure io, a quanto pare.
«Hai ragione, avrei dovuto parlartene, ma...», si ferma un istante, nel quale ci guardiamo in silenzio. «Ti ho già detto che devo abituarmi a tutto questo... ho visto che hai bisogno di aiuto e ho mandato quel messaggio senza pensarci due volte», è sincero e forse dovrei arrendermi, afferrare la mano che mi sta tendendo per rialzarmi e provarci... ancora una volta.
«E se...», non termino neppure la frase che mi raggiunge al centro della stanza e mi ravvia una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Non esistono se o ma, tu sei forte e ce la farai», si sfila la maglia dalla testa, i muscoli guizzano a ogni suo movimento e non posso fare a meno di constatare quanto sia perfetto: il tatuaggio Maori che ricopre quasi del tutto il suo braccio sinistro, una scritta sul costato che dice "Niente è facile e nulla è impossibile". Non mi ero accorta di quest'ultimo. La sua mano lo sfiora. «L'ho fatto dopo l'incidente di Arleen», dalla sua risposta, capisco soltanto ora la speranza aggrappata alla frase incisa sulla pelle. «Ora, se hai finito di sbavare», con il dito indice fa finta di pulirmi l'angolo della bocca, «tocca a te», dice posizionandosi sulla sedia di fronte al cavalletto dov'ero seduta io. Mi indica l'altra tela bianca poggiata al muro. Sorrido, cogliendo il suo invito come una sfida e mi metto subito all'opera.
Il fine settimana è praticamente volato, è stato... particolare restare chiusi in casa come se fosse normale, anche se il nostro rapporto e ciò che ci circonda è sempre lì a ricordarci che fra noi è tutto fuorché "normale". Speravo che il lunedì non finisse mai, invece eccomi qui, seduta al suo fianco diretti a New York.
«Il professor Liry era soddisfatto del compito», esclama facendomi trasalire dai pensieri.
«Cosa?... Ah, sì, anche il resto della classe», gli faccio notare, al ricordo di come tutte le ragazze erano in preda a un attacco ormonale non appena è stato mostrato il suo ritratto a torso nudo; di sicuro si saranno bagnate anche le mutandine, ci scommetto.
«Non è colpa mia se sei stata così brava», ribatte lui.
«Non è colpa mia se quando passi ti sbavano dietro», dico accigliandomi.
«Ne abbiamo già parlato», sbuffa per la milionesima volta da quando abbiamo affrontato l'argomento "è meglio che nessuno sappia di noi". Mi domando se sia realmente meglio per me o per lui. La mia costante insicurezza gioca a nascondino, comparendo nei momenti meno opportuni. «Tua madre cosa ti ha detto quando ti ha vista a lezione?», rido spontanea alla sua domanda, dato che sono stata trattata come una semplice alunna con la quale sembra non avere nessun legame di sangue.
«Mio padre mi ha detto che ha dato di matto al telefono perché mi permette di stare con te, ma lui è stato prudente, spiegandole che dormo da un'amica finché non troverò un posto in uno dei dormitori», non accetta Dam nemmeno lui e forse non lo farà finché non lo conoscerà meglio. Sono contenta, però, del fatto che, come al solito, mi abbia dato fiducia quando gli ho detto che sarei stata in grado di gestire la situazione con lui e che non volevo compromettere il mio futuro. La scelta di andare alla Tufts è stata nella mia testa fin dal primo giorno di liceo.
«Si chiederà quale amica», faccio spallucce, fregandomene per la centesima volta di cosa passi per la testa di chi mi ha messa al mondo. Ho passato l'intera adolescenza a interrogarmi sul suo abbandono, a cercare delle giustificazioni per la sua assenza, fino a compromettere la mia di esistenza.
«Voglio solo fare questa seduta e tornarmene a casa», questa parola suona strana associata al fatto che praticamente abito con Dam, anche se la mia presenza ha dato un tocco presentabile all'appartamento. Sono riuscita finalmente a fargli mettere gli abiti nell'armadio, credo che si fosse quasi dimenticato di possederne uno, ma la cosa più buffa è stata quando l'ho beccato annusarsi gli indumenti che profumavano di vaniglia. Ha protestato per quel profumo troppo femminile tutto il giorno e fu così che Damon Sanders scoprì l'ammorbidente.
«Perché stai sorridendo, Evans?», adoro il nostro gioco di chiamarci per cognome, come se assumessimo qualche potere in più verso l'altro.
«Pensavo all'ammorbidente», scoppio in una fragorosa risata che non riesco a trattenere.
«Se utilizzi nuovamente quell'intruglio sui miei vestiti...», fa per minacciare quando veniamo interrotti dallo squillo del suo cellulare. «Si?», sento una voce maschile dall'altra parte. «Stasera? Vuoi scherzare?», risponde seccato sbattendo il palmo della mano sul volante. «Sì, sì, ho capito. Non rompermi i coglioni, ci sarò», chiude la chiamata e mi basta guardarlo per capire che il suo umore è stato risucchiato da quella telefonata.
«Chi era?», tento di dire mordendomi la lingua troppo tardi. «Jack. Ho una gara non programmata», spiega monocorde. «Devi andarci?», accelera per sorpassare un tir di fronte a noi, ma in realtà è solo il suo modo per scaricare ciò che lo sta preoccupando.
«Sì», capisco che non vuole parlarne, alzo il volume dello stereo e lascio che la musica riempia l'abitacolo strappandoci dalle nostre vite incasinate.
L'epidemia di taxi gialli che non cessano di suonare il clacson e gli enormi palazzi che sembrano toccare il cielo, ci danno il benvenuto a New York. Resto a bocca aperta dalla vastità di quella che tutti chiamano la Grande Mela, la città che non dorme mai. Mi sporgo fuori dal finestrino mentre attraversiamo il ponte di Brooklyn, l'ho sempre visto nei film e ora sono qui. Per essere una che non era mai uscita dalla sola città di Boston, devo dire che sto facendo progressi.
«Non c'eri mai stata sul serio?», noto dalla sua poca euforia che lui deve averla girata in lungo e in largo. Sprofondo sul sedile e sento l'ansia aumentare. «Andrà bene», esclama come se mi avesse letto nel pensiero. Annuisco e continuo a far finta di essere una semplice turista in visita, godendomi la città che si espande di fronte ai miei occhi. «Qui siamo nell'Upper East Side», sembra che abbia appena pronunciato il nome di qualche strana malattia per il tono che ha usato.
«È qui che ha lo studio tua zia?», chiedo quasi balbettando per il lusso che adorna l'intero quartiere, dove non si fa fatica a incontrare limousine, per non parlare delle prestigiose insegne affisse alle boutique.
«Già, lei è LA PSICOLOGA dei ricchi», sgrano gli occhi pensando a quanto mi costerà questa seduta.
«Oh...», l'unico verso che riesco a emettere.
«Tranquilla, il palazzo è questo», dice indicandomi l'intera struttura a specchi. «Decimo piano, non puoi sbagliare, c'è una targa affissa al muro che occupa tutta la parete», spiega ironico come al solito.
«Tu... tu non vieni?», avevo dato per scontato che mi avrebbe accompagnata.
«Non credo che mia zia muoia dalla voglia di vedermi, è meglio che vai da sola; io ti aspetto alla caffetteria al pianoterra» entriamo insieme nel palazzo e mi dirigo all'ascensore, con il suo sguardo che mi segue finché le porte non si chiudono. Guardo i numeri dei piani aumentare fino a raggiungere il decimo. Faccio un respiro profondo e sorrido al tempo stesso vedendo la gigantesca targa affissa alla parete. Proseguo lungo il corridoio, osservando le pareti color panna e i quadri d'arte moderna a dare quel tocco di calore all'ambiente. Alla scrivania, una segretaria mi osserva mentre le vado incontro.
«Signorina Evans?», dice ancor prima che mi presenti. Mi limito ad annuire, apre la porta alle sue spalle annunciando la mia presenza. «Prego, la dottoressa Sanders la sta aspettando», mi trascino sin dentro con la testa china, le mani che tremano e la sola voglia di scappare.
«Sei l'amica di mio nipote, giusto?», sollevo la testa trovandomi davanti una bellissima donna, i capelli raccolti in uno chignon perfetto, un occhiale raffinato dalla montatura allungata incornicia due occhi azzurri che assomigliano molto a quelli di Arleen, con indosso un completo che rende giustizia alla sua eleganza.
«Sì, Allyson Evans», mi presento porgendole la mano, ma non si scompone e mi indica semplicemente la chaise-longue di fianco alla sua scrivania. Annuisco, come se fossi entrata già in modalità soldatino e mi appresto a sedermi. Di fianco a me, nella parete, c'è un enorme acquario. È davvero grande, ma al suo interno ci sono pochissimi pesci e lo trovo uno spreco ma, allo stesso tempo, non posso fare a meno di guardare quei piccoli pesci che sembrano quasi muoversi in branco; tutti tranne uno che gli gira attorno.
«Cosa vedi?», chiede.
«Dei... dei pesci», rispondo con ovvietà. La sento sorridere alle mie spalle, mentre continuo a guardare i colori di quei pesci così vivaci e brillanti che nuotano, infastiditi di tanto in tanto dal pesciolino solitario tutto nero.
«Si chiamano speranza, forza, tenacia e coraggio», mi volto a guardarla come se stesse delirando. «Lui invece è la paura», dice sollevandosi e battendo l'unghia smaltata contro il vetro dell'acquario indicando proprio il pesciolino nero. «Convivono insieme malgrado la loro diversità; gli altri pesci restano uniti per affrontarla e non la distruggono perché serve anche lei all'ecosistema degli altri pesciolini», ascolto le sue parole che non stanno parlando semplicemente di un acquario. «Noi siamo questo», continua indicandolo. «La vita è immensa ai nostri occhi, ma ci riserva sorprese sia belle che brutte; queste ultime arrivano accompagnate costantemente dalla paura. Se la lasciamo avvicinare, dimenticandoci di essere forti, coraggiosi o speranzosi, lei si prenderà ogni cosa di noi», e con un retino toglie uno dei quattro pesciolini per qualche secondo. La paura, il pesciolino nero, attacca senza alcun problema gli altri tre che sembrano smarriti, ma quando rigetta in acqua il quarto pesce, lui si allontana lasciando in pace il piccolo branco, come se bastasse la sua presenza per ristabilire l'equilibrio.
«È....», non trovo quasi le parole per esprimere quello a cui ho assistito.
«È la vita, Allyson, ora vediamo quale dei quattro elementi ti sei lasciata per strada e andiamo a riprendercelo. Sei pronta?», il suo sguardo entra nel mio ed è come se fossi un libro aperto, inizia a leggere le pagine scritte della mia vita. Parliamo dei miei problemi col cibo, di mia madre, di tutto quello che sembra aver in qualche modo scombussolato il mio equilibrio e il tempo scorre così rapido che quasi non me ne rendo conto. «Per oggi basta. Voglio che in questa settimana tu ti confronti con tua madre», strabuzzo gli occhi raddrizzandomi sulla poltrona. «Hai sentito bene, Allyson, non puoi pretendere di risolvere il problema girandogli attorno. Quello che hai detto a me devi dirlo anche a lei. Devi liberarti del peso che continua a opprimerti. Questo è il mio numero, mentre questo è quello del mio collega nutrizionista. Lo chiamerò per spiegargli la situazione e lui ti contatterà per parlarti», annuisco prendendo quei bigliettini da visita fra le mani. «Chiamami per qualsiasi cosa e porta i miei saluti a quell'animo ribelle di Damon», sorride ma con dolcezza e mi chiedo perché Dam non abbia voluto incontrarla.
«Le devo pagare...», con un gesto della mano ferma il mio tentativo di tirare fuori dalla borsa il portafoglio, «ci ha già pensato Damon», credo che in questo momento il mio volto stia prendendo fuoco per la vergogna. Le porgo la mano e ci salutiamo, dandoci appuntamento per la prossima seduta, poi esco dallo studio. Non posso credere che l'abbia fatto veramente... sbuffo irritata. Attraverso il corridoio sentendomi un pochino più leggera di quando ho varcato quella soglia, anche se sono consapevole di essere solo all'inizio di una montagna ancora da scalare. Aspetto che le porte dell'ascensore si aprano mentre mi soffermo a guardare uno dei dipinti appeso di fianco.
«Ehi, mimosa pudica, che ci fai da queste parti?», mi volto verso quella voce che non mi è nuova.
«Ciao», biascico contro il ragazzo biondo dagli occhi azzurri.
*SPAZIO XOXO*
La promessa di risolversi sempre e comunque riusciranno a mantenerla?
La zia di Damon, la persona con la quale lui era al telefono.
Avete riconosciuto il ragazzo che si trova davanti Al? Vediamo se siete state attente ai DETTAGLI
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