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Capitolo 18 Damon

   Lo sguardo scivola sulla mano che si posa sulla mia e come se fosse rovente a contatto con la pelle, la tolgo di scatto.

«Perché vuoi andarci ora? Ci vogliono quaranta minuti da qui a Boston», odio il suo sguardo di un azzurro indefinito, il modo in cui sbatte le palpebre, come le sue lunghe ciglia nere tremino mosse dal suo sguardo innocente e ancora come sfrega le mani l'una contro l'altra o come tiene il labbro racchiuso fra i denti quasi a volersi fare del male.

Innesto la marcia e riparto sgommando, la vedo aderire perfettamente con la schiena al sedile mentre le mani si stringono sullo stesso. Posso sentire la sua paura mentre le scocco un'occhiata e appena raggiungo il parcheggio del supermarket Danny's mi fermo; in quel momento riprende a respirare.

«Hai paura che faccia male al tuo ALEC?», sibilo.

Mi protendo verso di lei, il suo respiro accelera contro il mio viso che quasi la sfiora; inchiodo solo un istante gli occhi e mi volto per aprire il cassetto del cruscotto di fronte a lei.

«Non è per lui». Sfilo una bustina bianca.

«Ah no?», domando con noncuranza mentre prendo un cd come base per la mia striscia. Ora più che mai ne sento il bisogno.

«Cosa pensi di fare?». Abbozzo un sorriso senza voltarmi.

«Non è abbastanza evidente?». Guardo la polvere sottile, di un bianco candido, scendere lentamente lungo la bustina fino a depositarsi sul cd che tengo con l'altra mano.

«Perché ti fai del male così?». Rido clamorosamente.

«Perché ti fai del male così?», la imito. «Non sai cosa sia il vero male».

La frase resta in sospeso contro il suo silenzio. Quando provi il dolore sulla tua pelle, che ti marchia in profondità strappandoti tutto in uno schiocco di dita, capisci che niente potrà farti più male di così.

Richiudo la bustina e poggio il cd sulla consolle fra noi, mi volto per sfilare il portafogli dalla tasca del jeans e il rumore dello sportello che si apre attira la mia attenzione, facendomi girare in uno scatto.

«Sei tu il male di te stesso», esclama e vedo che quello che poco prima avevo poggiato è sparito.

«Che cazzo hai fatto?», sbraito scendendo dall'auto. Duecento dollari di roba sono sparsi sull'asfalto. Sferro un calcio alla ruota e la vedo sobbalzare tramite il vetro. Apro la portiera tirandola verso di me.

«Sei... sei...», sono incazzato nero, la stringo per il polso e il vento smuove i suoi capelli che solleticano il mio viso inebriandomi il respiro.

«Sono?», incalza con la voce che trema.

Si morde il labbro sul quale i miei occhi seguono il movimento come ipnotizzati. La strattono attirandola contro il mio petto, le afferro il volto fra le mani e premo la bocca contro la sua. Le labbra soffici e vellutate aderiscono alle mie perfettamente. La solletico con la lingua, come fosse una parola d'ordine, e la sua bocca mi accoglie senza esitare. Le mani scorrono fra i miei capelli e un brivido sconosciuto mi corre lungo la spina dorsale.

La sento muoversi dentro la mia bocca, la sua lingua delicata accarezza la mia che scivola contro la sua in un intreccio che si dà battaglia fra la sua dolcezza e la mia avidità di possederla.

I respiri accelerano quando con i pollici le disegno dei piccoli cerchi sulla pelle liscia come seta; il suo corpo si rilassa contro il mio e nel momento in cui mi stacco da lei ha ancora gli occhi socchiusi, le labbra gonfie di un rosa intenso.

«Allyson», sussurro contro la sua bocca. Le guance le diventano di un rosso intenso e abbassa la testa stringendosi nelle spalle. Con due dita sotto il mento la obbligo a guardarmi. Non sono bravo con le parole, cazzo, che problema ho ora?

«Ti accompagno a Boston», è l'unica cosa che riesco a dirle, ma vedo i suoi occhi sorridere ancor prima della bocca. Annuisce e faccio il giro della macchina per raggiungere il lato di guida.

Il telefono squilla e richiudo la chiamata vedendo che è il titolare del Masters, Jack, il socio di Kevin; mi staranno cercando per l'incontro, dovranno fare a meno di me. Ci immettiamo nella novantatreesima ormai deserta vista l'ora. Il suo sguardo è perso nelle campagne circostanti avvolte dal buio della notte, dove alcuni tratti sono illuminati dal flebile bagliore della luna. Accendo lo stereo per smorzare la tensione che si è venuta a creare.

«Che cos'è?», domanda con uno strano sguardo a delinearne il profilo.

«Musica», rispondo con ovvietà.

«Be', a questo ci ero arrivata anch'io. Chiedevo che genere fosse», dice indicando lo stereo e solo ora noto lo sguardo quasi schifato.

«Non conosci i Muse?», chiedo trattenendo una risata. Ma da quale pianeta arriva?

«I M... Mus... i? No, non credo di averli mai sentiti». Non ce la faccio e la risata riempie l'intero abitacolo, la vedo incrociare le braccia al petto indispettita. Lo fa sempre. Merda, ma cosa sto dicendo, rimprovero a me stesso.

«Comunque, sono i MUSE. Non hai mai sentito parlare di Uprising, Madness?», domando e lei scuote solo la testa in senso di diniego. Resta in silenzio, percepisco il suo disagio, è diversa dalle altre ragazze. Non capisco ancora cosa sia a renderla così, ma sento in lei un qualcosa di strano che mi infastidisce e mi attira al tempo stesso. «Che gruppo ascolti allora?», la osservo di sottecchi, con le mani intrecciate in grembo.

«Io non ascolto gruppi, non amo quel genere di musica», sospira.

Il cartello indica che mancano poche miglia alla città e rallento, non lo so perché lo faccio, ma è la prima volta che parliamo senza urlarci contro.

«Quindi?», insisto.

«Non voglio darti un altro pretesto per prenderti gioco di me», si rabbuia. Non la biasimo, sono un coglione, ma lei mi rende il compito ancora più facile.

«Dai, prometto che non lo farò», mi mordo il labbro per evitare di incominciare a ridere.

«Io ascolto musica classica», i suoi grandi occhi mi fissano. «Ora puoi ridere», aggiunge indicandomi.

«Musica classica quindi», mi limito a dire cercando di restare serio, ma andiamo, chi ascolta quella roba?

Lei.

«Riesce a portarmi lontano, le note armoniose entrano sotto la pelle liberandomi da tutto. Basta chiudere gli occhi per guardare un mondo diverso da quello che abbiamo», ascolto il trasporto delle sue parole, il viso che se pur nella penombra della notte si illumina, gli occhi che brillano, ma non è questo ad aver catturato la mia attenzione, è quello che ha detto: "Riesce a portarmi lontano".

Mi domando da cosa. Perché una ragazza come lei vorrebbe allontanarsi dalla realtà? Senti chi parla. Stai a cuccia tu, lo sai che tanto non ti ascolto mai.

«Non voglio annoiarti», dice.

«Perché sei alla Tufts? Insomma, Boston ha grandi università».

Venti minuti senza una parolaccia. Complimenti. Mi hai rotto il cazzo è sufficiente come risposta?

«Perché il corso del Signor Liry è il migliore in assoluto in tutto lo Stato di New York. La sua borsa di studio offre ottime opportunità e io non posso perderle», spiega con l'entusiasmo di una bambina.

«Tu? Tu invece?», già io perché? Me lo chiedo anche io.

«Ho voluto solo far felice una persona», rispondo secco e a quel ricordo mi irrigidisco all'istante.

La scritta bianca impressa nell'enorme cartellone verde appeso al sottopassaggio ci avvisa che siamo giunti a destinazione, immergendoci nel traffico della città.

«Dove devo andare?», dico attraversando il Miller Rivers.

«Prendi per Cross Street, poi svolta per Richmond e siamo arrivati», faccio cenno di sì con la testa mentre guardo gli enormi palazzi riflettere le loro luci nella notte. Conosco bene la città, con gli altri ci venivamo spesso per la quantità di locali che offre.

Svolto nella via indicata, un quartiere residenziale composto da villette a schiera con i loro giardini ben curati compare di fronte ai miei occhi.

«È la terza casa», la indica e noto la mano tremarle.

«Non mi hai ancora detto perché sei voluta rientrare», mi fermo accostando sul ciglio del marciapiede. Il suo sguardo cade sulle ginocchia dove le mani sono serrate in due pugni.

«È complicato, in realtà lo è un po' tutta la mia vita. Grazie del passaggio». Sembra voler scappare.

«Okay», dico lasciandola andare.

Apre la portiera e si avvia. La guardo attraversare il vialetto e mentre l'auto sembra non voler ripartire, continua a fare uno strano rumore che attira la sua attenzione, facendola soffermare sul portico d'ingresso. Scendo e appoggiando la mano sulla cappotta la guardo.

«Non ne vuole sapere di partire. Sai indicarmi un posto qui vicino dove poter passare la notte?», viene verso di me, i capelli che ondeggiano morbidi a ogni suo passo, si avvia una ciocca dietro l'orecchio.

«Cosa pensi che abbia?», chiede corrucciando la fronte. Sollevo le mani in aria facendo spallucce.

«Non lo so, domani mattina le darò un'occhiata. Forse sarà il motorino di avviamento», capisco dal suo sguardo che non sa nemmeno di cosa stia parlando. Meglio così.

«Puoi restare qui», si morde il labbro. Merda. Mi volto dall'altra parte un istante per evitare di guardarla. «In fin dei conti mi hai accompagnata», aggiunge. Chiudo lo sportello, infilo le mani in tasca e la raggiungo. Incastro lo sguardo con il suo.

«Sicura che sia una buona idea?», sussurro con voce roca mentre gioco con una ciocca dei suoi capelli. Arrossisce e la vedo deglutire a fatica.

«Sì, c'è una camera degli ospiti e mio padre è un tipo molto ospitale», tossisco.

Il padre, che stupido.

Ma cosa mi è saltato in mente?

Me ne ero quasi dimenticato.

«Tutto bene?», chiede inclinando appena il capo.

«Sì, è solo che non vorrei disturbare», dico, sorride, due fossette le incorniciano la bocca carnosa e scuoto il capo per scacciare via tutti i pensieri che si fanno largo a spallate nella mia testa.

«Nessun disturbo».

La seguo fino all'ingresso. È passata la mezzanotte, ma la luce di una delle stanze che si affaccia sul giardino è ancora accesa. La vedo suonare il campanello e dondolarsi sui talloni mentre in me si conferma sempre di più il pensiero di essermi messo nei guai.

La porta si apre, un uomo sui quarantacinque anni compare sulla soglia.

«Allyson», esclama sorpreso e nell'abbracciare la figlia non si rende nemmeno conto della mia presenza. La osservo quasi aggrapparsi alle braccia possenti del padre, come fosse la colonna portante della sua vita.

«Papà, lui è Damon Sanders, un mio compagno di corso che mi ha gentilmente accompagnata fin qui», l'uomo sembra passarmi ai raggi X con lo sguardo. Non piaccio mai ai genitori delle ragazze. Quelli di Ethel mi hanno sempre odiato.

«Piacere di conoscerla», mi appresto a dire porgendogli la mano. Non ricordo nemmeno da quanto non lo facevo.

«Derek Evans, piacere. Sei stato molto gentile ad accompagnare mia figlia fin qui a quest'ora», la sua in realtà non sembra una frase di circostanza, anzi, è come se volesse scoprire cosa ci sia dietro la mia gentilezza.

«Vedi, papà, l'auto di Damon non riparte, possiamo ospitarlo per la notte?», il padre mi scocca un'occhiata che quasi mi trapassa, ma non vacillo nemmeno un istante. Anzi, gioco la carta del vittimismo, di solito funziona.

«Non si disturbi, grazie Allyson per la premura, ma sono sicuro che troverò un B&B da queste parti. No?», i suoi occhi azzurri, il riflesso perfetto di quelli della figlia, non vogliono mollare la presa, proprio come un cane fa con il suo osso, solo che questa volta l'osso sono io.

«Certo, puoi restare», esorta il padre con finta convinzione.

Seguo entrambi all'interno della casa. All'ingresso mi soffermo su alcune foto appese lungo il corridoio, che suppongo siano di Allyson; la ritraggono su un'altalena, riconosco il suo sorriso su quel piccolo volto.

In un'altra indossa uno strano grembiule tutto sporco di colori, avrà forse dieci anni. Continuo a guardare le foto, tutte dello stesso periodo, come se il tempo si fosse fermato in quell'istante; non vedo foto di lei adolescente e mi domando il perché.

«Vado a prepararti la stanza, accomodati pure in salotto», dice facendomi trasalire dai pensieri. Il signor Evans siede sulla poltrona e senza proferire parola mi indica quella di fronte.

«Ally non mi ha mai parlato di te», dichiara con freddezza. Mi chiedo perché tutti la chiamino così, ALLY è così infantile.

«Sono tornato da poco a Medford», dico come se bastasse come risposta.

Alle sue spalle guardo l'intensità dei colori che si mescolano sul paesaggio di un parco che si affaccia sul lago. Ogni dettaglio: da una foglia che cade dall'albero, da una donna che spinge un passeggino, da un'artista di strada con in mano il suo violino, è presente nel quadro come se fosse vivo, reale, per come i colori a contrasto fra loro ti facciano immergere nel dipinto.

«L'ha fatto Ally», esclama con fierezza. Sgrano gli occhi sorpreso.

«È bellissimo», mormoro con un fil di voce per la sorpresa.

«La tua camera è pronta», dice Allyson vicino alle scale, la guardo con indosso un pigiama alquanto bizzarro. Sulla maglia ha una stampa enorme di Winnie the Pooh. Goffamente cerca di coprirla ai miei occhi che non nascondono la riluttanza per quello stupido cartone animato. La raggiungo dopo aver salutato il signor Evans.

«Non conosci i Muse ma ti piace Winnie», sghignazzo cercando di soffocare le risate mentre percorriamo le scale fino al piano superiore. Infastidita, mi assesta una gomitata.

«Questa è la tua camera, se avessi bisogno la mia è quella in fondo al corridoio», si volta indicandola e il suo profumo alla vaniglia è quasi un pugno in pieno volto.

«E se...», mi avvicino più che posso, «se avessi bisogno ora?», si fissa la punta dei piedi. Mi piace il modo in cui riesco a imbarazzarla con poco.

«Vado a dormire, buonanotte, Damon», si volta ma la trattengo per il gomito, questa volta senza stringere la faccio voltare lentamente. Chiude gli occhi e protrae le labbra in attesa. Sorrido e le poso un bacio sulla fronte.

«Notte, ALLY», dico entrando in camera e chiudendo la porta alle mie spalle. Sfilo il telefono dalla tasca e controllo le chiamate perse, premo su quella di Cody.

«Allora, dove sei?», chiede non appena risponde. Trattengo a stento una risata.

«Secondo te?», lo sento sghignazzare.

«Sei un figlio di...», schiarisco la voce in tono duro.

«Se ti azzardi a offendere mia madre, mi obblighi a tornare a prenderti a calci in culo», l'avverto. Sento un casino tremendo dall'altra parte e capisco che è ancora al Masters.

«Ha ricevuto il messaggio?», chiedo e mi siedo sul letto.

«Oh, sì, eccome. Dovevi vedere la sua faccia quando ha saputo che sei andato via con Allyson», spiega Cody e il mio ego viene subito ripagato.

«A domani», faccio per chiudere.

«Come a domani?», chiede confuso.

«Già, dimenticavo. L'auto non ha voluto saperne di ripartire, forse...», mi stendo sul letto e metto un braccio dietro la testa. Toc... Toc... «Devo chiudere», mi sollevo sui gomiti. «Avanti».

*SPAZIO XOXO*

Non vi faccio domande, questa volto voglio vedere cosa avete capito dal capitolo. 😈

Commenti e ⭐⭐⭐ 

Vi presento il padre di Allyson: Dereck Evans


Love All You My Freedom ❤️

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