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Capitolo 32 Damon

Parliamo senza ascoltare il casino delle nostre parole.

Tamburello le dita sulle ginocchia mentre aspetto. Odio essere qui, seduto su questa sedia sulla quale mi sentivo prigioniero mentre ogni parola fuoriusciva dalla mia bocca come un fiume in piena, liberando tutti i miei demoni che mi tenevano prigioniero. Il dottore fa il suo ingresso nello studio con in mano la mia cartella. Al suo interno, nero su bianco, la mia vita contorta, la camera nella quale mi sono rinchiuso per rinascere, due mesi che sono sembrati eterni.

«Sanders, mi fa piacere vederti. Hai saltato molte sedute ultimamente», mi ricorda posando le mani intrecciate sul legno laccato della scrivania. Ero stato qui dopo aver saputo che sarei diventato padre e oggi sono qui per la stessa ragione.

«Ho avuto dei problemi», dico con noncuranza, come se non fossi stato qui proprio a causa loro.

«Ho immaginato», si limita a rispondere aspettando che sia io a parlare, nessuna pressione, solo il silenzio che colma la stanza che mi spinge a volermi liberare.

«Non avrei mai voluto segnare la sua vita...», esclamo dando voce a ciò che mi tormenta. «Un figlio, cazzo! Quanto può essere contorto tutto questo?», non glielo sto veramente chiedendo, so bene che ho fatto tutto da solo, come sempre. Ho usato le persone, mi sono servito di loro per raggiungere uno scopo che non capivo nemmeno io, anzi, in realtà lo conosco bene, ma mi vergogno così tanto di ammetterlo per primo a me stesso.

«Abbiamo già parlato della tua paternità e abbiamo anche già parlato di Allyson», dice osservandomi con attenzione.

Guardo oltre di lui, la vetrata che si affaccia sulla città. Ho saltato le lezioni per essere qui, perché sento che sto crollando e l'incontro di ieri ne è la prova. Ero talmente accecato dalla rabbia che avrei persino potuto uccidere quel coglione.

«Io volevo punirla, solo perché lei era la figlia di chi mi aveva portato via tutto...», trattengo il fiato mentre ogni ricordo riaffiora come un pugno che mi colpisce in pieno volto. «Avevo iniziato a giocare come ero abituato a fare con chiunque, solo... solo che non avevo messo in conto che giorno dopo giorno anche lei si sarebbe presa una parte di me che non mi avrebbe più restituito...». Ricordo ancora i suoi occhi sorpresi mentre baciavo Joselyn di fronte a lei, la parte malata di me che godeva nell'avere questo potere nei suoi confronti, ma allo stesso tempo mi sentivo confuso e incazzato con me stesso. Odiavo le sue lacrime, non sopportavo il modo in cui il suo sguardo mi disprezzava.

«Damon, cosa ti turba realmente?», fisso le mie mani che sfilacciano gli strappi dei jeans.

«Che alla fine l'ho punita, ho raggiunto il mio intento senza rendermene conto...». Lei mi ha perdonato, non si è mai arresa a noi e io, cazzo, sto per diventare padre del figlio che porta in grembo Joselyn. Se non mi sono vendicato di lei così, non so proprio cosa avrei potuto fare di meglio anche se solo avessi voluto.

«Ti sei innamorato di lei prima di tutto questo, Damon, sai bene che quando uscivi con Joselyn eri spesso sotto l'effetto di droghe e tu stesso mi hai confidato che lo facevi proprio per cercare di dimenticarti di Allyson».

Ero così stupido da credere che sarebbero potuti bastare un po' di alcol, qualche dose e un corpo che non fosse il suo per togliermela dalla testa.

«Questo non cambia il fatto che ho distrutto comunque la sua vita. Avrò un figlio», dico alzando il tono della voce mentre sento tutti i muscoli tendersi dalla delusione che inizia a fare da padrona nella mia testa. Altre fottute lacrime hanno solcato il suo volto mentre la tenevo tra le braccia a casa di Kam ieri sera. Quante cazzo di volte dovrò ancora vederla piangere per colpa mia?

«Sarai padre e sarai un compagno per Allyson, devi solo volerlo e credere di più in ciò che vi lega, Damon. Tuo figlio sarà una parte di te nello stesso modo in cui lo sarà Allyson».

Quasi rido, detta così sembra semplice, peccato che ciò non scacci il senso di colpa che preme contro il mio petto.

«Non potrò mai perdonarmi», ammetto a me stesso per non avergli regalato ciò che meritava... il rispetto.

«Dovrai, se vuoi tenerla al tuo fianco. Lei ha bisogno di certezze e se ti lasci risucchiare ancora una volta da ciò che si frappone sul tuo cammino, allora ti conviene fare un passo indietro e lasciarla andare ora», perdo un battito incontrando i suoi occhi che non lasciano trapelare nulla.

«Io... io non posso perderla ancora una volta», il solo pensiero riesce a lacerarmi nello stesso modo di quando è stata lei a dirmi addio, nella sua camera alla confraternita delle KAT.

«Hai risposto da solo alle tue domande, Damon. So che hai paura, ognuno di noi ne ha per ciò che ci troviamo ad affrontare, ma è proprio affrontando i nostri problemi che possiamo rendere la nostra vita migliore».

Resto in silenzio, con l'eco delle sue parole che ruotano nella testa, perdendomi con lo sguardo verso un cielo limpido che neppure una nuvola bianca sarebbe in grado di imbrattare.

Esco dallo studio con il desiderio di vederla e di passare del tempo con lei. Il telefono squilla e dalla fretta rispondo senza neppure guardare chi sia.

«Pronto?», dico avviandomi verso la fermata dei mezzi pubblici. Merda, mi serve una fottuta macchina. Impreco mentalmente.

«Credevo non mi avresti risposto», mi fermo sui miei passi.

«Cosa vuoi, Jo?», abbaio sentendo lo stomaco contorcersi.

«Sono a Boston per una visita di controllo, mi chiedevo se ti va di accompagnarmi», risponde con tranquillità, sento un mormorio di sottofondo e ci impiego poco per capire che si tratta di Ethel.

«Ci sei ancora, Sanders?».

Non vorrei andarci, ma se Ethel è davvero dalla parte di Sebastian e non ci andassi, le darei modo di pensare che non lo sto facendo per Allyson; non posso metterla in pericolo, specie ora che quel coglione che doveva fornirmi le informazioni necessarie per incastrarlo si è volatilizzato nel nulla.

«Ci sono. Allo stesso indirizzo dell'altra volta?», chiedo monocorde e con la bile che mi sale in gola.

«Sì», risponde con la stessa freddezza.

Chiudo senza nemmeno salutarla e mi avvio ai sottopassaggi che conducono alla metropolitana. Chiamo Kam sperando che non sia a lezione.

«Ehi, Damon, tutto bene?», chiede rispondendo.

«In verità avrei bisogno di parlare con Allyson, è per caso lì con te?», ho perso la cognizione del tempo e dal frastuono che sento mi rendo conto che devono essere alla mensa del campus.

«Sì, è al mio fianco, te la passo», sento Kam dirle che sono io, poi i rumori iniziano a essere più lontani, fino a sentire solo il suono della sua voce che mi chiama.

«Dam...», sento una scarica scorrere lungo la spina dorsale mentre la immagino nel corridoio del campus.

«Ehi, piccola, avevo bisogno di sentirti. Sto impazzendo», confesso a entrambi.

«Stai bene?», questa ragazza ormai mi conosce meglio di chiunque altro, riesce a leggermi come un libro aperto, persino le mie pagine bianche ancora da scrivere non possono essere più un segreto per lei.

«No, non sto bene, ma di questo ne parleremo stasera», mi interrompe.

«Stasera?», chiede sorpresa e in realtà lo sono anche io, ma non posso stare lontano da lei un minuto di più di quelli che già ci separano.

«Manderò un messaggio a Kam con il luogo e ti accompagnerà lui; vedrai, andrà bene», prometto, cerco di dirle dove sto andando. Mi fermo di fronte al tabellone che mi indica la linea da prendere.

«Dove sei? Non sei al campus?», con ampie falcate mi faccio spazio fra la gente intenta a districarsi tra le varie direzioni.

«No, ero dallo psicologo e ora...», cazzo, quanto è difficile, ma non posso andare lì senza averglielo detto, «ora sto andando da Joselyn che ha una visita di controllo. Con lei c'è anche Ethel e quindi ho pensato che...», non mi lascia finire di parlare che mi interrompe.

«Damon», chiudo gli occhi mentre attendo la metro con il timore di ciò che mi dirà. «Non ci dovresti andare solo perché c'è Ethel. Dovresti andarci per sapere se tuo figlio sta bene», sento la voce incrinarsi, un groppo in gola soffoca tutto ciò che vorrei urlare al mondo intero. Sento il peso, il dolore delle sue parole, ma lei è Allyson, e non so perché mi stupisco ancora di quanto sia così buona con me.

«Lo sai che ti amo, vero?», dico tutto d'un fiato.

«Io credo che tu non sappia ancora quanto invece io ami te», scandisce con un pizzico di prepotenza che mi fa sorridere.

Forse ha ragione, non ho ancora capito quanto il suo amore sia incondizionato, senza limiti, senza regole malgrado tutti i casini che sono stato in grado di combinare.

«A stasera, portati qualcosa per la notte», dico senza lasciarle il tempo di tempestarmi di domande. Salgo sulla metro e mi siedo nel primo posto libero, prendo il cellulare e scorro su alcuni alberghi nella periferia della città, ma un messaggio pubblicitario attira la mia attenzione; sorrido mentre scorro le immagini e non perdo tempo per inviare una mail con la prenotazione, insieme ai dati della mia carta di credito. Tempo di raggiungere la mia fermata che ricevo la conferma per il pernottamento. Inoltro le indicazioni tramite messaggio a Kam, facendogli promettere di non dire ad Al dove la stia portando e di essere puntuale. Scendo e ricevo in sua risposta una emoticon con una faccina con la bocca incurvata di lato e la scritta: "Serata romantica, non ti credevo così cuccioloso, Sanders". Scuoto il capo sollevando gli occhi al cielo. E gli rispondo: "Il cucciolo sa essere anche una bestia, non rompermi i coglioni e non fare domande". Metto una mano con il dito medio spianato e invio. Attraverso la strada dove trovo Joselyn ed Ethel ad aspettarmi sul marciapiede.

«Potevi dirmi che avevi compagnia», dico, fingendomi sorpreso.

«Dato che il padre di suo figlio non è molto presente, ho deciso di accompagnarla».

«Risparmia il fiato Ethel», rido fragorosamente. «Non mi interessano le tue stronzate da finta amica», rimarco volutamente sull'ultima parte. Inarca le sopracciglia sfidandomi. «Davvero ti reputi tale? E tu...», indico Joselyn, «ti fidi di lei?», si volta verso Ethel che inizia a saettare il suo sguardo altrove.

«Lo sai cosa vuole fare. È il suo modo di metterci uno contro l'altro», risponde Ethel sulla difensiva. Infilo le mani in tasca con indifferenza.

«Io mettervi l'una contro l'altra? Sei tu che non ti sei fatta pregare per metterti a novanta sapendo perfettamente che ero già stato con Joselyn», sputo velenoso aspettando la sua reazione.

Joselyn si dirige a passo svelto verso il grande portone, lasciandoci soli.

«Sei il solito bastardo!», abbaia.

«Infatti, è bene che non te lo dimentichi, Ethel, non metterti in mezzo ai coglioni perché conservo ancora quel video che a Breth non farebbe molto piacere vedere», la minaccio, i suoi occhi si sgranano come se fosse tornata alla realtà, dove solo io posso metterla all'angolo come e quando voglio.

«Sei frustrato perché quella patetica di Allyson Evans ti ha lasciato perché si è finalmente resa conto di chi sei?».

Faccio un passo verso di lei, che incespica sui suoi passi andando a sbattere contro il muro del palazzo alle sue spalle. Mi sporgo verso il suo orecchio.

«Nomina un'altra volta Allyson e dì pure addio alla tua patetica vita, Ethel, ti rovinerò così tanto che scappare da Medford non basterà per rimettere insieme i pezzi della tua esistenza», mormoro per poi spostarmi e guardare il suo volto dipingersi di terrore. Annuisco sfiorandole il mento con il dito indice. «Brava, vedo che hai capito», mi volto ed entro nell'edificio. Aveva ragione Allyson, sa che ci siamo lasciati e non può che essere d'accordo con Sebastian. Ma Ethel è l'ultimo dei miei problemi. Sa essere perfida, ma non cattiva quanto posso esserlo io.

Salgo la prima rampa di scale e trovo Joselyn seduta in una delle poltrone della sala d'aspetto, mi siedo al suo fianco.

«Non sei costretto a restare», strascica le parole mentre osservo le sue mani muoversi sulla sporgenza del suo ventre. Alla mente mi tornano le parole di Al.

«Sono qui solo per mio figlio. Non è il luogo giusto per parlarne, ma voglio esserci per questo bambino perché non merita di pagare per i nostri casini».

Si volta verso di me con gli occhi colmi di lacrime.

«Sono stata solo un casino per te, Damon?», punto dritto contro il suo sguardo che non provoca nulla in me, se non il dolore per ciò che io ho causato ad Allyson.

«No, sei stata solo un errore che non avrei mai voluto commettere», esclamo senza lasciarle nessuno spiraglio di speranza che le possa far credere in qualcosa che non esiste e mai esisterà. La vedo deglutire a fatica, una donna in camice rosa esce da una stanza.

«Sanchez?», Joselyn si alza e io la seguo fin dentro lo studio medico. La sua dottoressa ci fa accomodare e incomincia a fare domande a Joselyn; mi sento fuori luogo, di troppo, come è troppo grande tutta questa faccenda, ma la devo affrontare, per una volta devo fare la cosa giusta.

«Preparati, Jo, che controlliamo come procede la gravidanza», le spiega la dottoressa che continua a osservarmi come fossi un intruso, ma è esattamente questo ciò che sono, niente mi lega a Joselyn se non la vita che cresce dentro di lei. So di averla rovinata in qualche modo, sono cosciente che i miei demoni si sono presi anche la sua vita, con la differenza che lei sapeva con chi aveva a che fare. Raggiungo il lettino concentrandomi solo sul monitor di fronte ai miei occhi, anche lo sguardo di Jo è puntato lì.

«Vedete? Queste sono le manine e, se siamo fortunati, forse sapremo anche il sesso», spiega.

I miei occhi seguono quell'immagine confusa, ma concentrandomi meglio riesco a vedere davvero delle piccole mani, ascolto il ritmo del cuore che rimbomba veloce e mi attraversa lasciandomi quasi senza fiato. È sbagliato, ma è mio figlio; mi basta solo questo per cercare di essere un buon padre, perché l'errore sono io, non lui che non ha chiesto niente a nessuno. Per questo farò di tutto perché cresca senza ombre che possano marchiare la sua vita. Lo prometto a me stesso.

«Volete conoscere il sesso del bambino?», Joselyn si volta verso di me, mi irrigidisco un istante.

«Tu vuoi?», mi limito solo ad annuire.

«Bene, cosa abbiamo qui? Vediamo... è una bambina», Jo si porta una mano sul volto ad asciugare una lacrima solitaria. Io non riesco a battere ciglio, non proferisco parola mentre penso che avrò una figlia, una femmina.

«È tutto a posto, dottoressa?», chiede in tono apprensivo.

«Sì, stai per entrare quasi nel quinto mese. Devi solo continuare a prendere le vitamine e cercare di non stressarti troppo», le ricorda.

Joselyn si solleva a fatica dal lettino e la aiuto per istinto. Mi guarda negli occhi imbarazzata.

«Grazie», dice. Non rispondo e dopo aver preso il foglio con gli ultimi aggiornamenti sulla gravidanza, usciamo dallo studio.

«È vero di Ethel?», domanda alle mie spalle mentre scendiamo le scale.

«Non dovresti nemmeno chiedermelo. Sai bene quanto me che è vero, conosci Ethel», mi volto soffermandomi sul gradino. «Jo, lei non è tua amica, nessuno di noi lo è. Siamo rimasti uniti dai segreti. Le lotte, le droghe, i tradimenti, la voglia di vendicarci l'uno dell'altro. È stato solo questo a tenerci in piedi», le ricordo. «Allontanati da lei, non potrà portare nulla di buono nella tua vita», aggiungo.

Mi osserva in un modo che non riesco a decifrare.

«Quando abbiamo rovinato tutto?», mi chiede, riferendosi a un passato troppo lontano del quale non ho più memoria.

Rido amaramente.

«Quando ognuno di noi ha gettato la maschera, mostrandosi per ciò che era realmente», rispondo, riferendomi anche a me stesso e proseguo lungo le scale; Ethel ci aspetta di fronte alla porta, la oltrepasso senza degnarla di uno sguardo e vado via. Ho fatto ciò che dovevo, solo per mio... mia figlia.

Arrivo alla piccola casa sul lago Sony Pond, ad Arlington, in anticipo di un'ora. Ho fottuto la macchina ad Arnold mentre dormiva. Rido al pensiero di quando si sveglierà con il mio post-it appiccicato alla fronte con su scritto un semplice "grazie".

Mi guardo attorno, osservo i grandi alberi che si stagliano sulla proprietà immersa nel verde, una piccola passatoia di legno attraversa parte del giardino fino a condurre al molo sul lago dal quale si intravedono altre piccole villette nella parte opposta.

Non vedo l'ora che arrivi, solo per godere dei suoi occhi sorpresi per ciò che ho in mente per lei. Forse ha ragione Kam, sto diventando davvero un cuccioloso romantico. Scrollo le spalle e scarico dalla macchina le poche cose che ho comprato. A parte la follia di San Valentino, credo di poter aggiungere alla lista anche questa.

Entro nella casa, dove le grandi travi in legno rivestono l'intero soffitto di un accogliente salotto, accendo il termo-camino e vado verso l'isola della cucina a vista, di spalle al divano. Poggio le buste sul banco e incomincio a sistemare ogni cosa. Non sono bravo in cucina, per questo ho preso tutte cose già pronte, così basterà una scaldata al microonde e la cena sarà pronta.

Prendo il cesto da pic-nic, metto dentro la frutta e qualche marshmallow. «Merda», impreco dirigendomi fuori per accendere il fuoco prima che arrivi. Trovo alcuni ciocchi di legno sul retro, proprio come mi aveva spiegato il proprietario, li sistemo con facilità mentre penso alle volte in cui mi sono trovato a farlo quando avevo ancora una famiglia e passavamo week end interi a fare campeggio sulle colline del Massachusetts. Il rumore di una macchina attira la mia attenzione, il cuore martella nel petto mentre le mani, per qualche strana ragione, iniziano a sudare: «Che cazzo ti sta prendendo, Sanders?».

Sento lo sportello chiudersi e intravedo la macchina di Kam discendere dalla collina.

«Spero ti piaccia la pasta al formaggio precotta», esclamo andandole incontro. Si volta nella mia direzione con un sorriso così grande che non le avevo mai visto. Corre verso di me, io resto ipnotizzato da come i suoi capelli ondeggiano a ogni movimento sferzandole il volto.

«Sei un pazzo», quasi urla gettandomi le braccia al collo.

Inebrio il mio respiro del suo profumo e la stringo forte contro il mio petto, lasciando che solo questo sciolga ogni pensiero oscuro che aleggia nella mia testa.

«È così che mi ringrazi?», la rimprovero scherzosamente, sollevandola da terra e facendola volteggiare in aria. I suoi pugni pestano inutilmente le mie spalle mentre la sua risata mi scalda il cuore, un cuore che credevo di non avere più.

«Mettimi giù, Sanders», protesta.

«Altrimenti, Evans?», la sfido fermandomi, le sue labbra si posano sulle mie strappandomi il suolo da sotto i piedi. Sono morbide, si incastrano alla perfezione con le mie e con piccoli movimenti iniziano a privarmi di tutta l'aria che mi circonda.

Non è il primo bacio che ci scambiamo, eppure ogni volta è come se lo fosse. Un fuoco divampa senza permesso, sfiorando ogni cellula del mio corpo che ne vuole sempre di più e che sa che non potrebbe mai farne a meno. Ci stacchiamo senza respiro.

«Vacci piano o non ti farò mangiare», dico pensando alle molteplici cose che vorrei farle, muovere le mie mani come se stessi dipingendo una tela bianca, mutare il suo essere fino in fondo alla sua anima, solo con il mio tocco.

«Va bene», la metto giù e le passo il pollice sulla bocca un po' gonfia, di un rosa intenso. Mi piace sentire il mio sapore su di lei.

«Come... come è andata la visita?», chiede con lo sguardo verso il lago. Le prendo il mento con la mano volgendo il suo viso verso di me.

«Guardami, Al», i suoi occhi si inchiodano nei miei. «È andata bene, ma siamo qui solo per noi. Il resto non esiste, ora», dico poggiando la fronte contro la sua. Le assesto una sculacciata e mi allontano corredo. «Dai, Evans, se non muovi il culo non mangerai nulla», le urlo cercando di sciogliere la tensione che ho letto nei suoi occhi.

Sento i suoi passi raggiungermi, spalanco la porta e mi metto di lato, aspetto che entri per tirarla su di peso e trascinarla sul divano assieme a me. Inizio a farle il solletico sui fianchi mentre si contorce contro di me. Annaspa nel suo stesso respiro mentre continua a ridere ed è solo questo che voglio regalarle per il resto della vita, voglio che questi ricordi possano sostituirsi a quelli di un passato da dimenticare.

«Ti amo», mormoro sfiorandole il naso con il mio. Resta in silenzio a guardami, ascolto il suo respiro cercare di regolarizzarsi.

«Io, in verità, dovrei pensarci», risponde picchiettando il dito indice contro il mento, fingendosi pensierosa.

«Ah, sì?», me la scrollo di dosso facendola rotolare sul tappeto. Scoppio in una fragorosa risata nell'osservarla stesa a terra, con un cipiglio a contornarle il volto.

«Sei...», sollevo il dito indice premendolo contro la sua bocca arricciata.

«Se sento una parolaccia uscire dalla tua bocca, sarò costretto a sculacciarti, signorina», sibilo con voce roca intrisa del solo desiderio di possederla, spegnendo tutto il mondo che ci circonda. Le sue guance avvampano e inarco un sopracciglio compiaciuto nel riuscire ancora a farla sentire così in imbarazzo.

Dopo aver cenato vicino al fuoco, che avevo preparato poco prima in riva al lago, e aver discusso su chi dovesse mangiare l'ultimo marshmallow, siamo rientrati dentro casa.

«Hai freddo?», chiedo avvolgendole le braccia attorno al corpo e facendo adagiare la sua schiena contro il mio petto. Annuisce, le sposto una ciocca di capelli e le labbra catturano il lobo del suo orecchio.

«Dam...», mugola, succhio più forte per godere del mio nome che esplode sulla sua bocca. Le mani risalgono lungo il suo corpo sotto il tessuto del maglione che indossa, sento la pelle rabbrividire e sorrido appena.

«Ti piace, piccola, vero?», soffio contro la pelle umida del suo orecchio. Annuisce e mi fermo a osservarla di profilo, gli occhi socchiusi, la bocca semiaperta. «Dimmelo!», sibilo in un ordine.

«Sì... sì, mi piace», balbetta e perdo completamente il controllo di me stesso, con le mani che premono sui suoi fianchi la porto verso il divano dove la spingo. La guardo con disperazione, si morde il labbro inferiore e mi privo dei vestiti. Vedo le sue mani raggiungere il bordo del maglione.

«Non provarci», minaccio con un sorriso scalciando in un angolo della stanza i boxer. Prendo la coperta di patchwork poggiata sullo schienale del divano e la stendo per terra, con la sola luce del termo-camino a illuminare la stanza. Mi metto in ginocchio in mezzo alle sue gambe senza distogliere lo sguardo dal suo, prendo il lembo del maglione e lo sollevo lentamente, al contempo che mi sporgo per assaporare ogni centimetro della sua pelle, che scopro poco alla volta. Le sue mani si intrecciano nei miei capelli, proseguo fino a sfilarglielo dalla testa. Le mordo la spalla, lasciando una scia di baci umidi e scendo fino a raggiungere il bordo dei jeans, gioco con la lingua sul suo addome caldo. Le mani si muovono veloci privandola delle ultime cose che indossa.

«Cazzo, Al», mormoro sfiorando la sua pelle con il dito indice. «Sei così perfetta, così dannatamente sexy. Non immagini nemmeno quanto mi fai uscire fuori di testa», confesso attirandola a me. Ci stendiamo sulla coperta, la sua bocca rapisce la mia in un viaggio dove i pensieri si diradano come nebbia, le lingue si intrecciano strappandomi un grugnito che esplode contro le sue labbra che strattono appena con i denti. «Non ho mai desiderato nessuna come desidero te», confesso spostandole con ambe due le mani i capelli che ricadono sulle mie spalle, liberando il suo volto.

«Ti amo», risponde sorridendo in modo malizioso mentre si siede a cavalcioni. Inarco la schiena d'istinto per andarle incontro.

«Porca puttana», biascico travolto dall'oblio mentre sento il suo corpo stringersi attorno al mio. Premo con forza contro i suoi fianchi, che sinuosi si muovono in una danza inaspettata che mi mozza il fiato in gola. Non smetto un solo istante di guardarla, inseguo ogni suo gesto che mi spinge sempre oltre, ma è troppo bello e non voglio staccarmi da lei, da questo angolo di paradiso creato dalle ceneri del nostro inferno. La sua pelle candida, imperlata di sudore, riflette al bagliore del fuoco, i suoi occhi ruotano all'indietro con i capelli che iniziano ad appiccicarsi alla pelle.

«Dillo, piccola, dillo», la supplico trattenendomi poco prima di lasciami travolgere.

«Damon... D-Damon», mugola inarcando la schiena, la tengo, sedendomi per raggiungere il suo collo dove sprofondo il viso nell'incavo, le mani premono contro le sue spalle che mi fanno sentire fino in fondo alla sua anima, liberandomi in un grugnito che ripete il suo nome fino a che entrambi non torniamo a toccare il suolo sotto i piedi. Ci guardiamo, occhi contro occhi, io annego nel suo mare mentre lei riemerge dal mio.

«Ho qualcosa per te», mormora con imbarazzo scivolando da sopra di me. Le passo subito un plaid, conoscendo bene quanto la imbarazzi aggirarsi nuda sotto il mio sguardo. Si dirige verso la sua borsa e torna con in mano una busta, per poi accoccolarsi al mio fianco.

«Che cos'è?», chiedo confuso mentre la apro.

«Un modo per farmi perdonare», si affretta a rispondere.

Bernette University, della California, leggo. Mi volto verso di lei corrucciando la fronte.

«April Neelson», risponde soltanto stringendosi nelle spalle.

SPAZIO XOXO

Chi sarà April?

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