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Capitolo 28 Damon

Annegare, in un mare di parole non dette che ci galleggiano attorno.

Guardo con sorpresa Sebastian stagliarsi di fronte a noi, con un ghigno malevolo impresso sul volto, ma non è quello a farmi contorcere lo stomaco. È il modo in cui il suo sguardo glaciale si assottiglia, posandosi sulla mia ragazza. Una nube densa sembra offuscare la mente fin quando non sento la mano di Al stringersi sempre più alla mia; mi volto a guardarla e i suoi occhi mi implorano, mi parlano.

Tra noi è sempre stato così, sono affogato e riemerso troppe volte dal mare del suo sguardo. Mi ha sussurrato mille parole non dette che si sono insinuate nella mia testa, dando vita a ogni parte del mio corpo che cercava solo di scacciarla via. Ora non posso ripetere lo stesso errore. Non posso chiudere gli occhi e ignorare ciò che i suoi mi stanno pregando di fare. Abbozzo un sorriso sbieco e lei sembra riprendere a respirare.

Arleen sbuca da dietro le spalle di Sebastian.

«Sei venuto», dice buttandomi le braccia al collo, anche se la sua frase resta sospesa tra una domanda e un'affermazione. La stringo contro il mio petto, dentro di me i pensieri si scontrano e le voci nella mia testa si sovrastano. Non posso incolparla per il desiderio di voler perdonare un padre che crede abbia solo deciso di innamorarsi di un'altra donna. Lei non sa che l'uomo che in questo momento sprofonda il suo sguardo nel mio è lo stesso che non le ha tenuto la mano quando era in un letto di ospedale, mentre lottava tra la vita e la morta. Non sa che l'avrebbe abbandonata molto prima se non fossi nato io a intralciare i suoi piani, non immagina che chi è dietro le sue spalle non è solo un cugino, ma bensì il nostro fratellastro.

«Non hai voluto parlarmi al telefono, non mi hai lasciato molta scelta», le faccio notare tenendo il suo volto tra le mani.

«Damon», pronuncia mio padre come se gli provocasse quasi dolore dirlo.

Mi limito a ignorarlo, non sono qui per lui; lui ha smesso di esistere da quella notte, quando ho dovuto crescere in uno schiocco di dita per occuparmi di mia madre e di Arleen.

«Quindi... non verrai con noi?», chiede mentre alzo lo sguardo verso il mio migliore amico, che sa già che gli sto chiedendo di starle vicino perché io ora devo fare un passo indietro.

«No, non verrò, Arleen», sibilo tra i denti.

«Non dovresti fare così il difficile, cugino, in fin dei conti chi dovrebbe essere in collera con te è proprio Arleen. L'hai tenuta lontana da suo padre per tutto questo tempo a sua insaputa», sputa Sebastian entrando in collisione con il mio sguardo. Mi sta provocando, so esattamente cosa vuole, è lo stesso che vorrei io, ovvero rompergli il naso. Inspiro rumorosamente e la mano di Al si posa sulla mia spalla.

«Non sono cazzi tuoi... cugino», scandisco inarcando un sopracciglio.

«Credo che noi...», tenta di dire Allyson, ma Sebastian fa un passo verso di lei.

«Come mai tutta questa fretta... Mimosa?».

Mimosa? Ma che cazz... non ho il tempo di pensare che le mie mani sono già su di lui, lo sbatto contro il muro.

«Stalle lontano!», lo minaccio e sento gli occhi offuscarsi, la ragione che lentamente scivola via dal mio corpo e l'adrenalina prende a scorrere vene.

«Avanti, Sanders», sibila contro il mio viso, alzo il braccio pronto a colpirlo ma vengo trascinato via di peso.

«Amico, lascia stare», mi sussurra Cody all'orecchio, i miei occhi continuano a essere incollati su di lui.

Arleen mi guarda confusa e Allyson si morde nervosa il labbro. L'unico che non sembra quasi sorpreso di tutto questo è proprio mio padre.

«Grazie», dico puntando un dito indice proprio contro di lui.

Arleen saetta lo sguardo tra di noi.

«Ti voglio bene, ma non posso proteggerti da lui e so che ti ferirà ancora», dico sapendo esattamente che sarà così.

«Ho sbagliato, per quanto tempo dovrai ancora punirmi?», esclama mio padre sollevando il tono della voce.

«Io non ti ho mai punito, hai fatto tutto da solo, fin dal principio, ti sei scavato da solo la fossa», rispondo, scoccando un'occhiata a Sebastian che è ancora fermo contro la parete a gongolare, ammirando il caos al quale ha dato vita. La follia che aleggia nella sua testa l'ha vomitata addosso a noi, sta aspettando come un fottuto animale di scagliarsi sulla sua preda, ovvero io, ma dovrà venirmi a prendere in culo al mondo se pensa di avermi in pugno.

«Vattene, allora», mi volto in uno scatto verso mia sorella, le braccia incrociate al petto e gli occhi fissi a terra. «Vattene, Damon, non voglio più discussioni, ho già perso troppo tempo della mia vita», dice quasi in un sussurro e non posso di certo biasimarla, ma non posso regalarle l'illusione di una famiglia che non esiste.

«Vado», dico semplicemente afferrando la mano di Allyson e dirigendomi fin dentro l'ascensore. Non mi volto nemmeno quando le porte si chiudono alle mie spalle, vedrei il suo volto in lacrime e maledirei me stesso per esserne stato la causa. "Vattene", ripeto a me stesso. Un pugno che mi ha lasciato senza fiato.

«Come ti senti?», chiede Al dopo due ore nelle quali ci siamo persi nei nostri silenzi. Ho guardato il cielo mutare insieme alle nuvole che, trasportate dal vento, correvano indisturbate verso una rotta ancora da tracciare. Ho lasciato che la testa si svuotasse poco per volta, mentre il paesaggio scorreva al nostro passaggio, ma senza risultato. La sua faccia da cazzo era lì, vicino a ciò che è rimasto della mia famiglia.

«Per che cazzo ti ha chiamato Mimosa?», sbotto, voltandomi appena verso di lei che si stringe nelle spalle.

«Perché la prima volta che l'ho incontrato eravamo nella serra», spiega, raccontandomi come si siano conosciuti.

Mi sfugge una risata.

«Ha pensato a tutto fin dall'inizio», commento a voce alta, pensando al desiderio di annullarmi solo perché per lui ero stato l'intoppo che l'aveva privato del suo vero padre.

«Sai... quando sono andata da Ella... dopo la festa nella quale mi hai detto di avermi solo presa in giro...», il suo sguardo si perde nel grembo dove le mani si intrecciano tra loro. Piccoli flash mi bersagliano la testa, mentre la vedo ancora strisciare lungo la parete contro la quale le mie parole l'avevano schiacciata. Mi schiarisco la voce, un groppo in gola mi impedisce quasi di parlare.

«S-sì...», dico soltanto per invitarla a continuare.

«Le ho chiesto se nella sua vita avesse avuto un caso disperato...», dice voltandosi verso di me, che guardo ora lei ora la strada. «Mi ha detto di sì, tu pensi che...».

La interrompo rispondendo alla sua domanda senza doverci nemmeno pensare: «Credo che sia proprio Sebastian, il suo caso perso», ammetto quasi a me stesso, il suo sguardo folle mi piomba nella mente come un treno in corsa. Il modo in cui mi ha sputato addosso la verità mentre eravamo in quel fottuto ascensore. Mi squadrava elencandomi ogni singolo pezzo della mia vita che era crollato, come un castello di sabbia che, anche se provi a rimetterlo in piedi, non potrà mai essere come la prima volta. Perché è così, quando qualcosa si rompe puoi aggiustarla, ma niente tornerà più come prima. Io non tornerò più la persona che ero una volta.

«Cosa intendi fare con Arleen? Era solo arrabbiata, Dam», annuisco amaramente.

«Lo so», anche se fa male, ma non ho scelta, non posso dirglielo; prima ne ero convinto, ma ora non lo so più. La vedo così fragile, un po' come Allyson; temo che un mio gesto le possa far cadere in frantumi e non posso permettere a me stesso che ciò accada, per questo devo muovermi. Il telefono di Al squilla, lo sfila dalla tasca mentre la guardo di sottecchi.

«Problemi?», chiedo vedendola fissare insistentemente il display. Scuote il capo in senso di diniego.

«No.... è solo mio padre che... che mi domanda se stiamo rientrando».

Le scocco un'occhiata inarcando un sopracciglio.

«Tuo padre, Al?», annuisce, afferrando la mia mano in una stretta quasi disperata.

«Certo, Dam, era solo mio padre», ripete e non so perché le sue parole non mi convincono, ma forse sono solo stanco e nervoso; tutto mi sembra prendere una piega differente.

«Ti porto a casa, allora?», in realtà non vorrei e aspetto che mi dica di no, sperando che voglia passare del tempo con me alla confraternita.

«Credo sia meglio, ho da studiare per lunedì», dice distratta.

«Oggi è sabato, Al», le ricordo e lei si morde il labbro.

«Sì... sì, lo so, ma ho davvero moto da studiare. Insomma, Sanders, mi hai rapito quasi per un week end intero», mi rimprovera nervosa dandomi un colpetto sulla spalla.

Non appena superiamo il cartello di Boston, mi dirigo verso il quartiere di Richmond e mentre le distanze si accorciano, inizio a sentire già la sua mancanza malgrado sia ancora qui seduta al mio fianco. Lei c'è sempre stata anche nella sua totale assenza, ha colmato la mia mente, graffiato il mio cuore e devastato la mia anima dannata. Ha colorato la mia vita con un arcobaleno di colori tutti nostri, ognuno per ogni passo che ci ha fatto oscillare tra inferno e paradiso.

Accosto, mi slaccio la cintura e mi sporgo verso di lei.

«Grazie», mormoro contro la sua bocca.

«Ti amo», mi bastano solo queste due parole per volermi chiudere nel suo mondo. Stringo il suo volto tra le mani, le nostre labbra si incastrano e si assaporano, sprigionando il fuoco che divampa nei nostri corpi. È un bacio lento che lascia promesse non dette. Mi lascio travolgere dal suo sapore che si mescola al mio, è come un bacio che non ha mai avuto un inizio e una fine, poiché le emozioni sono le stesse ogni singola volta. I brividi corrono lungo la schiena, il cuore martella nel petto implorando di lasciarlo libero, il mondo scompare ed esistiamo solo io e lei, nient'altro.

«Ti amo, piccola», dico annaspando in cerca d'aria, il pollice accarezza le sue splendide labbra gonfie di un rosa intenso. «Ci sentiamo dopo?», chiedo, si slaccia la cintura e annuisce. Scende e dopo averle lanciato un altro sguardo innesto la marcia e parto, ma non vado alla confraternita, non ancora. Prendo il telefono e chiamo prima Cody, per accertarmi che Arleen stia bene.

«Come è andato il pranzo?», domando mentre imbocco il sottopassaggio diretto sulla provinciale.

«È andato», risponde monocorde.

«Lei sta bene?», chiedo.

«Cazzo, Dam, no che non sta bene», lo sento sbuffare sommessamente. Pesto un pugno contro il volante.

«Non posso, io non posso perdonarlo, non dopo...», mi mordo la lingua trattenendo ancora per me quella verità. Non so perché sia stato quasi più semplice dirlo al mio peggior nemico, Alec, che a chi mi ha sempre guardato il culo da che ne ho memoria.

«Sta succedendo qualcosa, vero?», il tono della sua voce è duro.

«Sì, stai vicino a mia sorella, ci sto già pensando io a mettere tutto a posto», lo tranquillizzo.

«Quando finirà tutto questo?», dice quasi disperato, sconfitto. Troppo preso da me stesso, non mi sono mai reso conto che stavamo combattendo la stessa guerra.

«Presto», prometto e riaggancio.

Abbasso il finestrino e malgrado sia fine febbraio, ho bisogno che l'aria pungente mi sferzi il viso facendomi trasalire da tutti i pensieri che mi affollano la testa. Non appena sono sulla Main Street a Medford, svolto per Riverside. Mi guardo attorno nel quartiere nel quale sono cresciuto e posteggio di fronte a casa Sanchez. La moto di Alec è nel viale e gli mando un messaggio avvisandolo che sono fuori. La porta si apre, ma non compare chi mi aspettavo; è Joselyn, che avvolta nel suo parka mi raggiunge. Serro la mascella e decido comunque di scendere dall'auto.

«Alec arriva tra un momento», mi avverte.

Annuisco e i miei occhi scivolano sul suo ventre.

«Come stai?», dico quasi senza rendermene conto, ma in verità voglio solo sapere come sta il bambino che porta in grembo.

«Sto bene, in settimana ho una visita», risponde. Annuisco ancora, pregando che Alec sbuchi fuori il prima possibile. «Sei tornato con lei?», chiede volgendo il suo sguardo verso la strada principale alla sua destra.

«Sì, Jo, hai sempre saputo che ero innamorato di Al».

Ride amaramente stringendosi nelle spalle.

«Damon Sanders innamorato, chi ci avrebbe mai creduto?», la voce le trama. Scrollo le spalle indifferente. «Sono stata così stupida», mormora appena.

«Jo, per favore, non ho voglia di discutere con te», i suoi occhi si inchiodano sui miei.

«Tanto io non conto niente, vero? Non conta cosa ho passato, come mi hai trattata o il semplice fatto che avrò un figlio da te», sibila stringendo i pugni lungo il corpo.

«Non ti ho mai obbligata a fare nulla, non ti ho mai nascosto chi ero e cosa volevo. Non ti ho fatto promesse e ora non puoi scaricare tutta la colpa su di me», porto il dito indice contro il petto.

«Credi di essere cambiato, ma è sempre così con te, Sanders, non ti importa di nessuno se non di te stesso!», sbraita furente di rabbia.

Sto per ribattere ma Alec si staglia sulla porta d'ingresso, Joselyn si volta verso di lui e si precipita in casa, urtandolo volutamente.

«Non si arrenderà, Damon», confessa Alec con uno sguardo sincero che non gli avevo mai visto.

«Dovrà», mi limito a rispondergli, sapendo che io ho già scelto e non mi arrenderò all'idea di perdere Allyson, per nessun motivo. «Dobbiamo muoverci in fretta, devi dire al tuo amico di accelerare i tempi, non posso più aspettare», aggiungo riferendomi al nostro incontro a Indianapolis. Devo togliere di mezzo Sebastian, spedirlo il più lontano possibile da ciò che è rimasto della mia famiglia.

«Sai bene che non è così facile trovare delle prove che conducano a lui senza che ci vadano di mezzo anche altre persone. Quella gente non rischia il proprio culo per nessuno», scuoto il capo impaziente.

«Non mi importa, digli che quelle informazioni mi servono subito e di sparare il prezzo che vuole», Alec aggrotta la fronte.

«Ti sei bevuto il cervello, Sanders?», mi guardo attorno.

«Jeremy mi ha chiesto di lavorare per lui», confesso. Non ho accettato, ancora, gli devo un altro incontro, che gli riempia abbastanza le tasche, per essere in pari per ciò che ha fatto Alec quando ci ha traditi sfidando la sua pazienza; purtroppo, però, so anche che se vuoi far snocciolare ciò che ti serve a certa gente, devi fargli sentire il profumo dei soldi sotto il naso.

«Se entri nel giro di Jeremy, non ne uscirai più», le sue parole non potrebbero essere più vere, ma non sono mai stato messo spalle al muro da nessuno, ho sempre fatto io le regole della mia vita e ora quel fottuto psicopatico si è permesso di respirare la stessa aria di Allyson. Credevo di impazzire mentre guardavo i suoi occhi scrutarla in quel modo, posso sentire ancora il sangue ribollirmi nelle vene.

«Tu fai quella telefonata!», gli ordino salendo sull'auto di Arnold per tornare a Boston. Alec si limita ad annuire passandosi una mano dietro la nuca. Lo saluto con un cenno del mento, faccio inversione per sfuggire dalle fiamme del mio inferno. Già, credo che questa città sia il mio baratro da sempre, torno qui per ripescare ciò che è caduto nel marcio dei miei giorni passati. Alzo il volume della radio e premo sull'acceleratore, perché non mi importa se sta studiando o cosa diavolo stia facendo, ho bisogno di sentirla contro di me.

Nella testa si proiettano le immagini di noi in quella camera d'albergo. Non avevo immaginato nulla del genere, l'avevo prenotata solo perché credevo che la nostra serata si sarebbe conclusa in modo più piacevole con mia madre e Arleen e non volevo farmi quattro ore di viaggio nel pieno della notte. Ma lei mi ha sorpreso, come ha sempre fatto da quando si è scagliata come un'onda contro di me. È stata inaspettata, una boccata d'aria fresca che sapeva anche annegarmi in tutto il suo essere. Sentirla fino in fondo alla sua anima e impossessarmi dei suoi gemiti di piacere che si liberavano nella mia bocca, è stata pura estasi. Mi hai drogato e stordito per tutta la notte, e nemmeno lo sai; se prima dicevo che non potevo vivere senza di te, ora dico che non ho una vita che non sia tu. Sorrido tra me e me, ricordando il suo sguardo così innocente che mi implorava di non smettere e, mentre sono immerso in tutto questo, non mi rendo neppure conto che mezz'ora di viaggio è quasi volata e sono già di ritorno verso casa sua. Sono stato via giusto un paio d'ore, che a me sono sembrate giornate interminabili per come un senso di vuoto ha preso vita nel mio petto. Sfilo il telefono dalla tasca per chiamarla, ma poi lo metto a posto pensando di farle una sorpresa. Parcheggio, scendo e mi precipito alla porta, suono il campanello che sento riecheggiare all'interno. Mentre mi guardo attorno, la porta si apre e mi volto.

«Damon?», dice il signor Evans corrugando la fronte.

«Allyson sta ancora studiando?», chiedo e i suoi occhi si assottigliano confusi contro i miei.

«Credevo che fosse con te», faccio quasi un passo indietro come se mi avesse spinto.

«L'ho portata a casa due ore fa», spiego serrando la mascella.

Dove cazzo è andata?

«Io sono rientrato già da un'ora e non era in casa. Forse è da Kam. Vuoi entrare per aspettarla?», mi chiede, ma io faccio di no con la testa.

«Chiamo Kam e la raggiungo, grazie», dico, lui accenna un sorriso prima di richiudere la porta e io sto già scorrendo la rubrica alla ricerca del numero di Kam. In effetti hanno molti corsi insieme, sarebbe logico che sia da lui a studiare; magari le mancava qualche appunto e ha deciso all'ultimo momento di andarci. Aspetto un paio di squilli, mentre a passo spedito vado verso l'auto.

«Kam, Allyson è lì?», chiedo senza aspettare il suo "pronto". Resta insilenzio per qualche secondo di troppo. «Kam, dove cazzo può essere?», chiedoallarmato, sapendo ormai che non è di certo da lui.

SPAZIO XOXO

Dove sarà andata Allyson?

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